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Disturbi Alimentari nel post Covid-19

Il Covid-19 ha amplificato in persone con disturbi alimentati il tema del controllo, già ricorrente e solitamente gestito con reristrizione e abbuffate

Di Silvia De Napoli

Pubblicato il 03 Giu. 2020

Aggiornato il 08 Feb. 2024 15:01

Tra le conseguenze delle misure messe in atto per contenere la diffusione del Covid-19 rientra la sospensione di diverse attività, fattore di cui possono aver risentito persone con Disturbi Alimentari, costrette alla sospensione dei trattamenti psicologici e/o comportamentali.

 

I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono divenuti nel corso degli ultimi decenni tra i più comuni problemi di salute, oramai la maggior parte degli ospedali ha un reparto ad essi dedicato. Si tratta di disturbi che colpiscono la popolazione alle età più disparate, dall’infanzia all’età adulta, con un picco di esordio in età adolescenziale; può colpire la popolazione femminile così come quella maschile. I fattori di rischio e l’eziologia sono multifattoriali: ambientali, neurobiologici, psicologici, sociali, a questa ragione il trattamento ha subito un evoluzione sempre più complessa e specifica.

Secondo i dati della Società Italiana dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA), in Italia colpiscono ogni anno 8.500 persone tra uomini e donne. Questi dati allarmanti hanno diretto la ricerca e gli interventi a studiare metodi di intervento sempre più adeguati e rispondenti alle richieste. I DA non sono altro che la manifestazione del disagio mentale della società moderna, la loro individuazione e quindi intervento sono resi tardivi e complessi dalla richiesta d’aiuto da parte del paziente, che molto spesso dissimula e nega la presenza di un problema; per questo, da parte dei familiari, non sempre è agevole l’identificazione se non in casi limite, come grande aumento di peso o perdita dello stesso. I modelli estetici post moderni portano a facilitare tale dissimulazione, così come agevolano lo sviluppo della patologia stessa.

I disturbi del comportamento alimentare e la dipendenza

Spesso si è parlato di disturbi dell’alimentazione come una “sottocategoria” dei disturbi da dipendenza, centrandosi sui patterns del comportamento: compulsione, deterioramento del funzionamento psicosociale, perdita di controllo, utilizzazione dell’oggetto (cibo/sostanza) per affrontare lo stress, persistenza del comportamento pur in presenza di conseguenze negative, ricadute durante il trattamento. Questa estensione del concetto di dipendenza non consente di fare il distinguo tra le diverse diagnosi, infatti nei DCA non troviamo il criterio della tolleranza e la sindrome da sospensione. Inoltre si è osservato come il cibo non è la fonte della compulsione, quanto invece il controllo dell’astinenza da questo, sia nei casi di binge eating, che di bulimia che di anoressia. Per questa ragione gli interventi sull’addiction sono poco risolutivi, in quanto l’astinenza del cibo va a colludere con la compulsione del controllo.

Il trattamento, che ad oggi ha avuto maggiori riscontri positivi, è quello gli interventi mutlimodali, interventi che prendono in considerazione più fattori, dallo psicologico, al sociale, al comportamentale, al neurobiologico, ma soprattutto all’esperienziale.

In termini di intervento psicoterapico si parla di psicoterapia cognitiva-comportamentale di terza generazione, dove l’enfasi è sul cambiamento contestuale ed esperienziale, modificando la funzione degli eventi psicologici problematici, senza intervenire direttamente sul loro contenuto, sulla forma o sulla loro frequenza, indebolendo le catene causali che conducono all’evitamento. Il paziente attua, perciò una trasformazione della consapevolezza con i propri vissuti interni (pensieri, emozioni e sensazioni).

I DA e la Pandemia del 2020

Con l’incremento dei contagio da covid-19 e soprattutto dei decessi, il governo Italiano si è trovato costretto a sospendere ogni attività del paese, chiudendo le scuole, le attività commerciali, le attività sportive e a diradare le prestazioni sanitarie se non per le emergenze, costringendo la popolazione alla quarantena per la salute pubblica.

La restrizione sociale, la privazione del contatto sociale e familiare ha effetti importanti sulla salute mentale, così come ci riporta Brooks &co nella ricerca sull’impatto psicologico della quarantena. Gli effetti negativi riscontrati sono lo svilupparsi di emozioni quali rabbia, confusione, paura, disturbo da stress post-traumatico. Tra i fattori di rischio troviamo il protrarsi del periodo di quarantena, perdite finanziarie.

I Disturbi dell’Alimentazione sono tra i fattori di rischio, in quanto, le persone con questi disturbi sono costrette alla sospensione dei trattamenti psicologici e/o comportamentali. Il tema del controllo che in questi pazienti è ricorrente viene amplificato dal timore dell’infezione, che viene gestito solitamente con la restrizione alimentare, comportamenti compensatori e/o abbuffate.

Nel periodo di quarantena il soggetto DCA è esposto ai fattori che hanno contribuito ad innescare il disturbo: impossibilità di attività fisica, forzata convivenza con familiari che possono contribuire al mantenimento del disturbo, esposizione a quantità di scorte alimentari, evitamento di esposizione sociale, così come la riduzione di peso incontrollata può esporre tali pazienti a rischi fisici gravi.

Il fattore dell’isolamento sociale, che è una delle prime manifestazione di questa tipologia di pazienti, nel periodo di quarantena non può che andare ad incidere negativamente, prospettando un ritiro dai trattamenti anche successivo alla pandemia.

Inoltre la situazione di grave rischio che questi pazienti vivono può portare alla comorbilità con altri quadri clinici, quali la depressione, i disturbi d’ansia, il disturbo da dipendenza, disturbo da stress post-traumatico, cosa che andrebbe a incidere negativamente sulla prognosi del DCA.

Al fine di gestire e prevenire quadri clinici disastrosi, per tutta la popolazione italiana sono stati istituiti numeri di emergenza ai quali riferirsi in caso di crisi, piuttosto che diverse associazioni del privato sociale, associazioni di professionisti e piccole realtà locali hanno messo a disposizione forze di volontari e specialistiche per la gestione del territorio. Questi pazienti rientrano tra coloro i quali subiscono maggiori rischi a causa della difficoltà a chiedere aiuto, a riconoscere i segnali prodromici rispetto ai comportamenti di buona prassi. E’ utile fare una riflessione maggiore sui quei pazienti che si sono trovati costretti ad abbandonare/sospendere/ridurre i trattamenti.

È necessario mantenere il rapporto terapeutico soprattutto nei momenti di distanziamento sociale, responsabile di questo è il clinico, in quanto il paziente non sempre riesce a pensare oltre il proprio sintomo, mentre il terapeuta è in grado di fare una valutazione prospettica ed è sua responsabilità dare alternative, monitorare e intervenire anche attraverso la rete socio-sanitaria.

Nel prossimo futuro si avranno dati maggiori a riguardo, soprattutto per le fasce evolutive più a rischio: gli adolescenti, costretti al ritiro sociale, nascosti online!

 


 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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  • www.aidap.org
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