Il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale, più della malaria, del cancro al seno, della guerra e degli omicidi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2019), la seconda causa di morte fra gli individui fra i 15 ed i 29 anni.
Ogni 40 secondi qualcuno muore per suicidio, circa 800.000 persone ogni anno.
Il suicidio è tra le prime cause di morte a livello mondiale, più della malaria, del cancro al seno, della guerra e degli omicidi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2019), la seconda causa di morte fra gli individui fra i 15 ed i 29 anni. La riduzione di un terzo della mortalità globale per suicidio entro il 2030 è l’obiettivo di salute pubblica che si è data l’OMS.
È necessario prima sfatare alcuni miti. Prima di tutto, come persone e come clinici, non dobbiamo avere paura di fare domande esplicite su ideazione ed intenzionalità suicidaria; in nessun modo saremo coloro che insinuano l’idea al soggetto. Inoltre, nessun farmaco può causare il suicidio, come erroneamente a volte sostenuto da più parti. Come sottolinea Kelly Posner (Columbia University), quando si sensibilizza la comunità su questo tema facendo errata informazione, i dati riportano un calo delle prescrizioni di antidepressivi ed un aumento dei suicidi e dei tentati suicidi.
Porre le domande giuste ed avere una lingua comune costituisce una connessione, elemento fondamentale fra paesi ed individui. Va da sé che al polo opposto, rispetto alla connessione, vi è la solitudine, e le sue conseguenze sono spesso letali, più di cardiopatia ed obesità. Parlarne apertamente e formarsi adeguatamente può aiutare a ridurre lo stigma ed a rompere il silenzio.
Altro mito stigmatico da sfatare è che il suicidio sia una scelta, non lo è nella stragrande maggioranza dei casi. Come clinici siamo tenuti, quindi, ad analizzare profondamente il processo decisionale sotteso a questo comportamento, a questa apparente scelta. Quando si parla di cancro, ad esempio, la malattia, la cura ed il suo percorso, non vengono mai avvicinati al costrutto del processo di scelta, mentre quando si parla di disturbi dell’umore, spesso, involontariamente, si trasmettere il messaggio percettivo che il mantenimento del disturbo avvenga per volontà, o scarsa volontà, della persona. E’ facilmente intuibile come, essendo un’esperienza soggettiva di difficile comprensione, le persone vicine ai nostri pazienti non possano comprendere, se non adeguatamente psicoeducate, e questo è compito nostro di clinici. Sempre compito nostro è individuare tempestivamente le persone a rischio, saper monitorare le situazioni a rischio, saper fare prevenzione sia nello specifico dei casi sia di massa attraverso una comunicazione diffusa e competente sul problema.
Come dimostrano la letteratura e le testimonianze di chi è sopravvissuto ad un mancato suicidio è fondamentale considerare il fatto che solitamente si tratta di una scelta fatta nell’impossibilità di far fronte ad un dolore mentale, divenuto ormai insopportabile. Il Prof. Shneidman, padre della suicidologia, ha definito tale forma di dolore con il termine psychache, cioè “tormento della psiche”. Il suicidio non può essere quindi considerato come un movimento verso la morte, ma come un movimento di allontanamento da qualcosa: emozioni intollerabili, dolore insopportabile, angoscia inaccettabile. Questo insieme di variabili definisce il concetto di psychache (Pompili, 2019, Congr.Int.Suicid.e Salute Pubb; Shneidman, 2006).
Un altro fattore culturale stigmatico riguarda, secondo la letteratura, il genere maschile, il quale conta un maggior numero di deceduti per mezzo di suicidio, rispetto alle donne, le quali invece mettono in atto un maggior numero di tentativi. Si era sempre presupposto che questa fosse la conseguenza della scelta di metodi maggiormente letali, effettuata dagli uomini, ma Gibbons (2005), evidenzia che solo l’11% degli uomini deceduti per suicidio stava assumendo farmaci antidepressivi, rispetto al 41% delle donne, ipotizzando un’influenza del contesto culturale e di desiderabilità sociale per cui, in particolare per quanto riguarda il genere maschile, “sono debole se chiedo aiuto”.
Come già detto dal Prof. Pompili, importante suicidologo italiano, il disturbo psichiatrico riguarda una disfunzione fra aree che dialogano fra loro, non riguarda una sola area, è quindi fondamentale porre attenzione anche a come l’esperienza di crisi, nella storia dell’individuo, viene gestita. Sintonizzandoci sulla sofferenza del nostro paziente, anche attraverso l’analisi della sua storia di vita, possiamo riuscire ad adeguare la nostra comunicazione in modo da modulare l’esperienza del paziente, la quale sarà probabilmente collegata ad esperienze passate. La comprensione del vissuto dei nostri pazienti risulta di fondamentale importanza poiché comportamenti che si sono già manifestati (ad es. un pregresso tentativo di suicidio) sono neuro-biologicamente facilitati ad una nuova più rapida riattivazione (Hebb, 1949; Edelman, 2018).
I nostri pazienti devono quindi avere la possibilità di ricostruire e condividere con noi queste esperienze, allo scopo terapeutico di riuscire a rimodulare sia la componente emotiva che quella cognitiva, e creare, insieme al terapeuta, una nuova e più adattiva modalità di gestione personale e di progetto di vita orientato verso scopi e desideri.
Si tratta di un tema molto complesso e sicuramente meritevole di molti altri contributi da considerare, approfondimenti e percorsi formativi, è anche un aspetto di grande difficoltà del lavoro del clinico che necessiterebbe di essere affrontato tramite un lavoro di squadra. La priorità è, senza dubbio, un’adeguata formazione, specifica, basata quanto meno sulle evidenze che esistono, per poter adeguatamente valutare il rischio. La Prof. Posner, dal suo osservatorio scientifico della Columbia University, guida scientifica in materia di suicidologia, sottolinea che il 50% dei casi di suicidio vede il medico di base o afferisce al pronto soccorso nel mese che ha preceduto il tentativo, ma per motivi che non riguardano la salute mentale. Occorre quindi chiedere e, se possibile, utilizzare in larga scala uno strumento di screening in grado di discriminare coloro che devono essere indirizzati ad uno specialista della salute mentale, adeguatamente e specificatamente formato.
A questo proposito, la Columbia University mette gratuitamente a disposizione di tutti noi uno strumento semplice ed efficace per poter effettuare un pre-screening, la cui portata di prevenzione può essere tranquillamente definita epidemiologica. Si tratta della Columbia Suicide Severity Rating Scale, parte del loro Protocollo di prevenzione (C-SSRS), una brevissima scala formata da soli 6 items, tradotta in 140 lingue. Il questionario prende in considerazione i comportamenti suicidari, nonché quelli preparatori (come per es. lasciare uno scritto), è uno strumento molto semplice e non è necessario essere professionisti della salute per poterlo somministrare. È in grado di effettuare uno screening assolutamente preventivo rispetto all’opportunità, e quindi temporalmente ancora prima che intervenga la necessità, di indirizzare ad uno specialista, questa volta sì, necessariamente, della salute mentale.
La valutazione del rischio suicidario è la fotografia di quel momento di vita, può essere una finestra temporale più o meno ampia e molti dei sopravvissuti hanno, dopo, una vita piena. Il Prof. Pompili evidenzia spesso, nei suoi interventi congressuali, come tale valutazione, effettuata a scopo di prevenzione, sia di fatto una previsione scientifica: “se prevedo che piova è il caso che mi porti l’ombrello”. In quanto tale, per poterla davvero attuare, da un punto di vista terapeutico, la sensibilità clinica ed umana dello psichiatra e della psicoterapeuta, sono necessarie ma non sufficienti. E’ indispensabile una specifica formazione, effettuata con lo scopo di acquisire le competenze necessarie alla valutazione del rischio, prima di tutto, poiché moltissimi fattori, nell’interagire fra di loro, possono avere un’influenza e costituire dei segnali di allarme (Pompili e Girardi, 2015). Per valutare se è il caso di portare l’ombrello occorre avere nella nostra cassetta degli attrezzi gli strumenti necessari per la valutazione del rischio perché solo così possiamo tentare di essere efficaci senza allarmarci a nostra volta.
Fra i fattori che dobbiamo valutare, nell’assessment del rischio suicidario, vi sono quelli demografici (ad esempio, sesso, età, stato civile), quelli distali, psichiatrici (ad esempio storia di familiarità al suicidio, abuso di sostanze, abusi fisici o sessuali), la storia personale, fattori di rischio prossimali (ad esempio eventi di vita stressanti, ricadute di malattia), la facilità con cui si può entrare in contatto con mezzi potenzialmente letali, nonché fattori di vulnerabilità cognitiva (Wenzel, Brown & Beck, 2009).
Siamo di fronte ad un livello di complessità piuttosto importante ed ognuno di questi fattori interagisce con l’altro nel determinare i vissuti dei nostri pazienti. Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, il gruppo di A.T. Beck si sofferma in particolar modo sulla valutazione dei costrutti di mancanza di speranza (hopelessness), tolleranza alla frustrazione, focalizzazione della funzione attentiva, impulsività e perfezionismo. In particolare, il ruolo dell’hopelessness in relazione al rischio suicidario è stato oggetto di approfondimento ed il gruppo di studio di A. Beck ha validato una scala di misurazione, la Beck Hopelessness Scale (BHS) (Beck, 1988; Beck & Steer 1993; Beck, Weissman, Lester & Trexler; 1974). L’hopelessness, in questo senso, si riferisce a schemi cognitivi caratterizzati da aspettative negative nei confronti del futuro, terza componente della triade cognitiva di Beck (1967), concettualizzata nel modello cognitivo della depressione.
Nello specifico, la terapia cognitiva per la prevenzione del suicidio (Wenzel, Brown & Beck, 2009) prevede tre fasi sequenziali. La prima fase riguarda la valutazione del rischio, la gerarchizzazione del progetto terapeutico e la condivisione di un piano di sicurezza per fronteggiare la crisi e regolare il piano emotivo. La seconda fase riguarda l’identificazione dei pensieri disfunzionali e le valutazioni autoriferite dal paziente, i quali sottendono allo stato emotivo e, di conseguenza, all’ideazione suicidaria, mentre la terza ed ultima fase di psicoterapia si occupa di prevenire le ricadute consolidando le competenze acquisite e costruendone di nuove per poter poi fronteggiare in futuro situazioni stressanti con modalità maggiormente adattive.
Raccogliendo il testimone nel sensibilizzare e, soprattutto, nel tentare di iniziare un dialogo ed una formazione di base sull’argomento, la Scuola Cognitiva di Firenze ha organizzato un Convegno, in materia di prevenzione del suicidio, per il prossimo mese di Aprile, il quale, per i motivi che accomunano in questo momento la vita di ciascuno di noi, è rinviato in data da destinarsi. Potrebbe essere però questa l’occasione, anche partendo dalla bibliografia di riferimento, per iniziare ad approfondire questo delicatissimo argomento nonché aspetto essenziale del nostro lavoro di clinici.