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Oltre la fragilità psicologica: la genetica del suicidio

Molte ricerche da oltre trent'anni hanno riscontrato come il suicidio presenti anche delle determinanti biologiche. E' stata dimostrata e constatata infatti l'implicazione genetica del sistema serotoninergico nel comportamento suicidario.

Di Mara Di Paolo

Pubblicato il 08 Mag. 2018

Aggiornato il 07 Gen. 2019 11:11

Attualmente in tutto il mondo, il suicidio è una tra le prime tre cause di morte tra i soggetti della fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni. Ogni anno il suicidio causa circa un milione di morti; stando alle stime dei dati attuali e all’analisi dei dati epidemiologici mondiali, il numero sembrerebbe salire drammaticamente ad un milione e mezzo di morti nel 2020 (Who.int).

Mara Di Paolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

Introduzione: il suicidio tra aspetti psicologici, sociali e biologici

Nel 2000 circa un milione di individui è morta per suicidio, ma un numero di soggetti variabile tra le 10 e le 20 volte maggiore ha tentato il suicidio (Who.int). Questo significa, che in media ogni 40 secondi vi è una morte per suicidio e ogni 3 secondi un tentato suicidio al mondo.

Ma che cos’è il suicidio? Con il termine suicidio ci si riferisce ad una serie di comportamenti autolesivi, che se pur condividono le stesse motivazioni,vengono etichettati diversamente in base al livello di intenzionalità della ricerca della morte. Lungo un continuum che va dalla massima all’incerta intenzionalità nella ricerca della morte, troviamo: il suicidio, l’atto che porta alla morte, frutto di un pensiero volontario e consapevole; il mancato suicidio in cui la morte è stata schivata solo grazie all’intervento di fattori protettivi estranei al soggetto; il  tentato suicidio in cui l’intenzione suicidaria è sfumata e ambivalente; il parasuicidio in cui l’autolesione non è legata ad un certo ed evidente intento ad autosopprimersi.

Lo psichiatra Esquirol, nei primi dell’Ottocento, asseriva: “ritengo di aver dimostrato che un uomo non attenta alla propria vita se non è in delirio e che i suicidi sono degli alienati”. Questa tesi del suicidio a sfondo patologico è stata per molto tempo l’opinione dominante non solo tra i professionisti della salute mentale, ma anche tra le persone comuni. La tesi del suicidio a sfondo patologico è stata smontata nel corso del tempo in modo massiccio grazie al contributo di più studiosi, provenienti da ambiti diversi, non solo clinici, ma anche sociologici come le vaste indagini di Durkheim, oppure quelle orientate in senso psicoanalitico (Freud, Adler). Un ulteriore contributo lo hanno dato: Schwartz con il concetto di “Bilanzselbstmord” (un tirare le somme tra aspetti positivi e negativi dell’esistenza); Reichardt con l’assunto che il suicidio è comprensibile per “motivi psicologici normali”, Deshaies con l’atto di “psicologia totale”. Infine il contributo dello psichiatra Karl Jaspers che, antesignano di un approccio fenomenologico alla psichiatria, nel corso della prima metà del Novecento ha finalmente concluso che la malattia mentale non è condizione necessaria del fenomeno suicidale.

Da qui in poi molti altri contributi si sono sommati a questi e hanno fatto sì che ora si consideri il suicidio come un fenomeno molto complesso, determinato da un’eterogeneità di fattori e dall’interazione di questi. Infatti oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ritiene il suicidio come il risultato del combinato disposto di aspetti biologici, genetici, ambientali, culturali, sociali e psicologici.

Tale complessità fenotipica è espressa in maniera precipua nel modello-interpretativo a sovrapposizione di S. J Blumenthal (1988) che descrive cinque aree di vulnerabilità suicidaria:

  1. Disturbi psichiatrici: tra i pazienti con disturbi umorali che si suicidano possono esserci sia i depressi, che i bipolari, soprattutto i pazienti bipolari che non seguono una terapia sono a rischio suicidio. Tuttavia secondo uno studio recente dell’OMS, le malattie psichiatriche correlate con il suicidio sono: disturbi affettivi 30-65%, disturbi d’ansia e disturbi di personalità 10%, abuso di alcol e sostanze 25%, schizofrenia 4,9-13%, altri disturbi psichici 15%, disturbi del comportamento alimentare 1,8-7,3%, nessuna diagnosi psichiatrica 6%;
  2. Tratti di personalità;
  3. Fattori psicosociali e ambientali;
  4. Elementi genetici e familiari.

I sistemi neurobiologici, coinvolti nell’eziopatogenesi del comportamento suicidario sono: il sistema serotoninergico, il sistema noradrenergico, il sistema neuroendocrino e il sistema dopaminergico. La serotonina, la dopamina, la noradrenalina sono neurotrasmettitori monoaminergici, la loro presenza in determinate aree cerebrali è connessa a determinate funzioni. Alterazioni di questi sistemi, sono implicate nell’insorgenza di diverse psicopatologie come nei sintomi depressivi. Risulta così possibile che alcuni soggetti in cui siano presenti il maggior numero di questi fattori, siano considerati a rischio suicidio più di altri.

Un focus sui fattori genetici del suicidio

Il genotipo rappresenta la costituzione genetica di ciascun individuo, esso è diverso da soggetto a soggetto, tranne nei gemelli monozigoti, in cui è identico. Genitori e figli hanno il 50% del genotipo in comune, i fratelli compresi i gemelli eterozigoti, ne hanno in comune il 25-50% , mentre in generale da una generazione ad un’altra, la quantità di genotipo in comune si dimezza. Va precisato che quando si parla di diverso genotipo, ci si riferisce non ad avere geni diversi, ma possedere diverse varianti dello stesso gene, dette “alleli”. Uno studio familiare condotto da Tsung nel 1983, ha dimostrato che il rischio suicidio nei parenti di primo grado di pazienti psichiatrici era otto volte superiore a quello di persone sane. La metà dei pazienti affetti da diversi disturbi mentali e familiarità positiva per suicidio hanno almeno un tentato suicidio in anamnesi. Uno studio familiare successivo del 1985, di Egeland e Sussex, ha per la prima volta evidenziato che il ruolo della genetica nel suicidio potrebbe essere indipendente da malattie mentali.

Studi successivi hanno dimostrato che più persone con una storia familiare di tentati suicidi e suicidi, commettevano un suicidio in misura maggiore di persone con una storia familiare di psicopatologie senza suicidi in anamnesi, oltre ad aver riscontrato un tasso elevato di psicopatologie tra i bambini di genitori che commettevano un suicidio (Mitterauer et al. 1988; Qin et al., 2003, Runeson e Abserg, 2003). Inoltre i bambini di genitori con condotte suicidarie o una storia di comportamenti suicidari nei fratelli sono risultati essere più inclini a rischio suicidario (Brent et al; 2003). Questi studi familiari hanno dunque concluso che una storia familiare di suicidi è un maggior fattore di rischio suicidario, indipendentemente dalla psicopatologia. Gli studi gemellari confermano i risultati degli studi familiari, vedendo una predisposizione genetica per il suicidio.

Una metanalisi (Roy et al 1991), degli studi gemellari pubblicata in letteratura indica che la concordanza per comportamento suicidario nei gemelli monozigoti (gemelli geneticamente identici) è del 13,2% contro lo 0,7% dei gemelli eterozigoti (gemelli che condividono solo il 25%-50% del corredo genetico). Altri studi hanno dimostrato che il tasso di concordanza suicidaria varia nei gemelli omozigoti tra il 13,2% e il 25%, mentre per gli eterozigoti questo tasso si attesta tra lo 0,7% e il 12,8% (Glowinski et al 2001 et al, e Roy et Segal 2001).

La diagnosi del presunto rischio suicidario in base a questi studi gemellari è avvenuta in base ad una relazione tra suscettibilità genetica e disturbi psichici come depressione maggiore, disturbo antisociale di personalità, disturbo da stress post traumatico, attacchi di panico e abuso di sostanze. É necessario evidenziare che la condotta suicidaria è fortemente influenzata dall’interazione genetica e ambientale e che in questo ambito la concordanza fra gemelli omozigoti è ampiamente inferiore a quel 100%, che ci attenderemo se il comportamento fosse completamente sotto controllo genetico. Inoltre dobbiamo menzionare gli studi sulle adozioni, che supportano anch’essi le basi genetiche del comportamento suicidario, ma al contempo forniscono informazioni utili sul ruolo dei fattori ambientali nella patogenesi suicidaria. Uno studio del 1986 (Wender et al., 1986) ha comparato la funzione dei comportamenti suicidari, tra i genitori biologici di individui adottati, che presentavano una depressione maggiore e le famiglie adottive. Questo studio si è concluso osservando che il tasso prevalente di comportamento suicidario è quindici volte più alto tra i genitori biologici che tra quelli adottivi.

I geni coinvolti nel comportamento suicidario

Molte ricerche da oltre trent’anni, hanno dimostrato e constatato l’implicazione genetica del sistema serotoninergico nel comportamento suicidario. Rilievi autoptici post-morten di soggetti suicidi depressi, hanno notato una riduzione dei trasportatori della serotonina, nella corteccia prefrontale ventromediale dell’ipotalamo, nella corteccia occipitale e a livello del midollo allungato. La funzione dell’amigdala, la quale è riccamente innervata da neuroni serotoninergici, che presenta un’elevata espressione dei recettori della 5-HT, appare anch’essa alterata nei soggetti a rischio suicidio. I geni coinvolti nella condotta suicidaria sono: il gene per il trasporto della serotonina, gene del SERT (Pollock et al. 2000; Aries et al., 2003), i geni dei recettori per la serotonina 5HT1A-5HT2A-5HT1B  (Wu et Comings, 1999), i geni della Triptofano Idrossilasi I-II (TPH1- TPH2) (Walther et al., 2003; Bach-Mizrachi et al., 2006) e il gene della MAO-A (Garpenstrand et al., 2002). I geni codificanti per il BDNF e il suo recettore NTRK2 (Neurotrophic Tyrosine Kinase Receptor, type 2) sono implicati nella regolazione e nella crescita dei neuroni serotoninergici (Perroud et al., 2008). Il polimorfismo più comune del gene del BDNF è il VAL66MET, uno studio del 2008 ha trovato una correlazione tra questo polimorfismo e violenti tentati suicidi e suicidi in persone con storie traumatiche infantili. La COMT è un enzima responsabile della degradazione delle monoamine, tra cui la noradrenalina. Alcune metanalisi hanno riportato un’associazione tra il polimorfismo COMT VAL158MET, ed il comportamento suicidario, correlato inoltre alla letalità dell’atto (Lachman et al. 1996).

In conclusione è importante sottolineare che la presenza di determinati polimorfismi genici da soli non condannano inevitabilmente l’individuo a condotte suicidarie, ma ciò accade solo con l’interazione e il contributo dell’ambiente, determinando così una vastissima eterogeneità fenotipica suicidaria. Se sulla genetica non è possibile intervenire direttamente, alterando “manualmente” il DNA genomico, è però vero che si può cercare di intervenire su tutti quei fattori ambientali che concorrono con la genetica a predisporre l’individuo al suicido.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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  • Bear, Connors, Paradiso, (2007). Neuroscienze, esplorando il cervello. Milano: ElseiverMasson.
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  • Burt A. M., (1996). Trattato di Neuroanatomia. Padova: Piccin Nuova Libraria Editore
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