In primo luogo, emerge sempre più impellente la necessità di diffondere una conoscenza accurata degli aspetti peculiari dei Disturbi dell’Alimentazione: cosa sono e come riconoscerli, quali sono le cause, quanto sono diffusi, quali sono le complicanze mediche e psicologiche, qual è il tasso di mortalità. In secondo luogo, è fondamentale prendere atto che le strutture ad oggi presenti nel territorio nazionale risultano insufficienti e non sempre propongono un’offerta clinica mirata ed efficace per la cura di questi disturbi. Ma è anche vero che occorre informarsi e scegliere strutture attrezzate ad affrontare il problema da tutti i punti di vista non solo dal punto di vista dei problemi fisici ma anche psicologici e psichiatrici.
I Disturbi Alimentari sono caratterizzati da abitudini alimentari disfunzionali e da un’eccessiva valutazione di sé in base al peso e alle forme corporee; compromettono la salute fisica, i rapporti interpersonali, il funzionamento sociale, scolastico e lavorativo. Rappresentano una problematica diffusa e in espansione in Italia, contando una prevalenza di 0,5-1% per l’anoressia nervosa (AN), 1-3% per la bulimia nervosa (BN) e 10% per le forme subcliniche. Inoltre, negli ultimi anni si è modificato in modo significativo il rapporto uomo-donna, raggiungendo 1-9/10 per l’AN, e si è ridotta l’età di esordio dei DA che risulta, in genere, compresa tra i 12 e i 15 anni (Regione Lombardia, Decreto N.4408 del 18.04.2017). Questo incremento di dati coincide con l’accresciuto interesse verso tali problematiche, tuttavia a ciò non corrisponde un’altrettanta attenzione dal punto di vista dell’offerta clinica e delle normative che regolano la gestione assistenziale.
Un interrogativo importante riguarda le cause dei DA, rispetto alle quali sono diffuse credenze naïf spesso non corrette e infondate dal punto di vista scientifico o false convinzioni. Non è infrequente, per esempio, che i familiari di pazienti affetti da DA si ritengano essi stessi la causa del disturbo del proprio figlio/a oppure che si tratti di problema legato alla ‘forza di volontà del ragazzo/a’. Sulla base di ciò, da una parte il paziente stesso può consolidare idee errate sul proprio disagio e può essere spinto ad intraprendere trattamenti non adeguati, dall’altra gli stessi genitori possono contribuire a mantenere il problema. È, dunque, fondamentale chiarire che i fattori causali dei DA non sono ancora del tutto noti e la letteratura scientifica ad oggi sposa una visione multi-fattoriale (Fairburn, Cooper e Shafran,2003) che comprende l’interazione di fattori biologici, ambientali, psicologici, sociali, i quali svolgono il ruolo di fattori di rischio per lo sviluppo del DA.
La normalizzazione di alcuni comportamenti alimentari disfunzionali, il riconoscimento tardivo del disturbo e il cristallizzarsi delle credenze naïf sopra citate, possono portare a sottovalutare una serie di complicanze che caratterizzano i DA: modificazioni fisiche e dei segnali fame-sazietà, alterazioni cognitive, emotive e sociali, sintomi della malnutrizione, rischio di suicidio. Da tenere presente infatti che il tasso grezzo di mortalità è attorno al 5% per decennio circa l’AN (Zaccagnino e Callerame, 2017) e, più in generale, i DA provocano circa 7000 decessi all’anno, rappresentando le malattie mentali con il più alto tasso di mortalità (Lozano R, Naghavi M, Foreman K, Lim S, Shibuya K, Aboyans V, et al., 2012).
Alla luce di quanto esposto, è necessario che le strutture esistenti formino e promuovano la creazione di una rete assistenziale adeguata, che permetta al paziente di sperimentare diverse modalità di intervento in relazione all’andamento della patologia e alla presenza di complicanze internistiche e/o psichiatriche, garantendo così un percorso di cura efficace (Donini et al., 2010; De Virgilio et al., 2012).
È utile ribadire che, nonostante l’interesse crescente per queste patologie, rimangono ancora molti problemi da affrontare legati al loro trattamento. Tra questi la distribuzione non omogenea di centri sul territorio nazionale, l’assenza di una base teorica comune tra i professionisti dell’équipe e la mancanza di coerenza nel passaggio tra forme di intervento ambulatoriale e forme intensive e viceversa. Inoltre, gli approcci utilizzati non sempre risultano sufficientemente mirati per affrontare efficacemente il problema. Un approccio che ha mostrato evidenze scientifiche di efficacia è la CBT-E che implica un coinvolgimento attivo del paziente in modalità collaborativa e l’intervento di un’équipe non eclettica (Dalle Grave, 2017). Si veda l’articolo: Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione: quali trattamenti psicologici sono raccomandati?
Rosaria Nocita
Centro Disturbi dell’Alimentazione Milano Navigli
Cliniche Italiane di Psicoterapia