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Il pensiero del clinico di fronte alla morte per anoressia

Un decesso per anoressia porta noi clinici al dolore della famiglia e poi ai mille volti e alle mille storie ascoltate in anni di lavoro con persone affette da anoressia

Di Sara Bertelli

Pubblicato il 18 Feb. 2020

La notizia di un decesso per anoressia porta noi clinici al dolore della famiglia e poi ai mille volti e alle mille storie ascoltate in anni di lavoro con persone affette da anoressia. All’emotività, al senso di impotenza e di disperazione nelle storie che non vanno bene.

Sara Bertelli

L’anoressia è una patologia, è la patologia psichiatrica con indice di mortalità più elevato e la seconda causa di decesso negli adolescenti dopo gli incidenti stradali. Lo dice la letteratura, lo sottolineano i dati epidemiologici, ma la reazione emotiva è sempre la stessa quando da clinico si affronta il decesso di un giovane di 20 anni come nel caso di Lorenzo.

Vicinanza ai genitori di Lorenzo, pur non conoscendo la sua storia. Ci si può avvicinare con delicatezza al dolore vivo della perdita di un figlio, una perdita che non può essere in alcun modo spiegata con il raziocinio di una malattia mentale poiché l’anoressia non lo consente, in quanto attiva dinamiche emotive di difficile comprensibilità. Negli anni ho sentito tanti genitori travolti da sentimenti di colpa, vergogna, impotenza, inadeguatezza, che fra le lacrime mi hanno detto che  avrebbero accettato altre malattie, anche tumorali, ma non questo mostro che impedisce ai figli di mangiare e li avvicina al pericolo di perdere la vita.

In questi giorni si è parlato di “accettazione” delle cure, molte persone con anoressia non accettano le cure, le sfiorano. Fidarsi e l’affidarsi al terapeuta rimane lo scoglio più grande per i ragazzi. Tale affido risulta ancora più difficile per un maschio, che si deve identificare ed essere riconosciuto in una patologia prevalentemente di genere femminile.

Il sistema familiare risulta fondamentale in questa difficile fase e il coinvolgimento della famiglia, da parte dei clinici, risulta centrale nell’accompagnamento alla cura. Per tale ragione vanno supportate nella solitudine e nell’isolamento di un figlio che non riesce e non vuole curarsi.

Nel nostro gruppo di lavoro in ambulatorio, da due anni abbiamo aperto i gruppi AMA (gruppi di auto mutuo aiuto) per genitori, dove i genitori si possono rivolgere per aiutare i loro i figli ad agganciarsi ad un percorso di cura e a rimanerci. Sappiamo quanto la motivazione sia un processo dinamico e quanto elevato sia l’indice di drop out pari a circa il 50% degli studi di follow-up.

La domanda successiva è quando fare un TSO ( trattamento sanitario obbligatorio)?: in Italia da anni il dibattito è acceso sia per motivi clinici sia deontologici sia etici. E poi, dove fare un TSO? In quale reparto? Molte persone con anoressia non hanno consapevolezza di malattia e non hanno la capacità di riconoscere il pericolo vita, ma il clinico adeguatamente formato può e deve ravvisare se è un’urgenza psichiatrica, la cognitività compromessa e le problematiche nutrizionali di un quadro anoressico acuto o di un quadro cronico.

Il ricovero per TSO viene eseguito in reparti psichiatrici acuti spesso senza letti dedicati, e qui insorge il terzo punto di polemica di questi giorni: l’assenza di strutture nel sistema sanitario.

In Italia vi sono più centri, soprattutto nel nord, ma la domanda supera l’offerta e spesso la lista d’attesa può essere lunga e la presa in carico spesso è tardiva, dopo percorsi non specialistici o prese in carico solo psicologiche o nutrizionali. Fondamentale in questo senso credo sia la formazione specialistica degli operatori e la costituzione di una rete fitta fra pubblico, privato e i vari setting di cura per favorire una diagnosi precoce e un invio adeguato e tempestivo.

 


Autore dell’articolo:

Sara Bertelli, Medico Psichiatra, Responsabile Servizio Disturbi Alimentari Adulti, ASST Santi Paolo Carlo, Milano, Presidente Nutrimente Onlus

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