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Chemioterapia e deficit cognitivi: in cosa consiste il ‘chemobrain’ e come trattarlo

In seguito a chemioterapia alcuni pazienti presentano deficit cognitivi, problematica da approfondire per capire come intervenire in modo efficace

Di Cristina Arba

Pubblicato il 08 Gen. 2020

Deficit cognitivi vengono riportati in circa il 50% dei casi di pazienti con cancro al seno in seguito a chemioterapia, nonostante solo nel 15-25% dei casi sia stato effettivamente individuato un declino cognitivo.

 

I passi in avanti e le scoperte in ambito oncologico sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico, hanno permesso un notevole aumento del grado di sopravvivenza e della qualità della vita, anche in pazienti con tumori metastatici. Si riscontrano però frequenti casi di riduzione del funzionamento cognitivo in pazienti trattati per tumori non correlati al sistema nervoso centrale.

Questi deficit sembrerebbero emergere in particolar modo durante e dopo la chemioterapia, conseguentemente all’impatto a lungo termine della tossicità del trattamento, costituendo un’importante problematica rispetto alla qualità di vita della persona.

Questo fenomeno, chiamato ‘chemobrain’, viene spesso riferito dal paziente che percepisce un cambiamento nelle proprie abilità cognitive, ed è importante distinguere eventuali influenze a carico della modalità di gestione dello stress esperito in questa particolare fase di vita, dall’effettiva presenza di deficit neurocognitivi. Questi deficit vengono riportati nel 50% o più dei casi di pazienti con cancro al seno in seguito a chemioterapia, nonostante solo nel 15-25% dei casi sia stato effettivamente individuato un declino cognitivo, che induce ad ipotizzare un probabile coinvolgimento di fattori psicologici o una limitata raffinatezza per simili condizioni dei test neuropsicologici attualmente in uso.

Vari studi si sono focalizzati sul senso auto-percepito di una riduzione del funzionamento cognitivo da parte del paziente, ne sono un esempio i risultati ottenuti dai ricercatori del Wilmot Cancer Institute (New York studio) che hanno pubblicato sul Journal of Clinical Oncology uno studio che ha coinvolto 581 pazienti (età media 53 anni) provenienti da vari centri diagnostici statunitensi che lamentavano problemi cognitivi, e 364 donne sane come gruppo di controllo. Ciascuna partecipante ha eseguito un test, il Functional Assessment of Cancer Therapy-Cognitive Function o FACT-Cog, un questionario studiato per valutare sia la percezione personale dell’indebolimento cognitivo sia come questo venga percepito dagli altri. I risultati dello studio hanno mostrato come circa il 45% delle pazienti con cancro al senso sottoposte a chemioterapia manifesti un significativo senso di abbassamento delle prestazioni cognitive rispetto ai controlli (11%), mostrando inoltre la persistenza di queste difficoltà per almeno i 6 mesi successivi al trattamento nel 36,5% dei casi. Dall’osservazione di questi dati non può che emergere l’importanza dell’individuazione precoce di queste criticità al fine di una presa in carico che preveda i trattamenti riabilitativi più adeguati.

Spesso tuttavia, la percezione del proprio funzionamento non correla con la valutazione neuropsicologica e potrebbe essere alterata da fattori quali ansia, depressione, fatica e insonnia. Un’altra possibilità messa in luce dagli studi di neuroimmagine, per spiegare la difficoltà nell’individuare attraverso i test i deficit cognitivi riferiti, potrebbe riguardare il coinvolgimento di regioni del cervello non intaccate dalla patologia e dal trattamento, le quali metterebbero in atto delle strategie compensatorie in grado di condurre, all’interno di un contesto strutturato e privo di distrattori come quello valutativo, ad un punteggio nella norma. Si configura in questo modo la necessità di costruire degli strumenti adeguati che ci permettano di discriminare deficit di questo genere, rivolta alla ricerca futura.

Gli studi, principalmente inerenti il cancro al seno, colon rettale, ovarico e linfoma, mostrano una concordanza rispetto all’emergere dei deficit neurocognitivi, generalmente lievi o moderati e spesso transitori, coinvolgenti i processi di memoria, di attenzione, la velocità di elaborazione e le funzioni esecutive. Ma cosa avviene all’interno del cervello che causi queste modificazioni?

Studi sui modelli animali ci hanno permesso di individuare i meccanismi biologici critici per l’insorgenza dei deficit cognitivi e sembrerebbero orientarci verso l’azione di ciclofosfamide, doxorubicina e 5-fluorouracil sulla produzione di nuove cellule nell’ippocampo che verrebbe da queste sostanze soppressa. Struttura fondamentale per i processi di neurogenesi, nonché per la creazione di nuovi neuroni, l’ippocampo detiene un ruolo fondamentale per il funzionamento cognitivo e la sua compromissione si ripercuoterebbe conseguentemente sulla performance cognitiva. Delle disfunzioni mitocondriali sembrerebbero inoltre coinvolte nella disregolazione dell’attività delle citochine, correlata a deficit particolarmente sensibili ai test per le funzioni del lobo frontale. Un ulteriore fattore in grado di influire negativamente su questi processi è stato indagato da Michelle Monje, neuro-oncologa pediatrica alla Stanford University di Palo Alto in California che si è focalizzata sullo studio degli effetti della chemioterapia sulla microglia. Studiando un farmaco chemioterapico, il metotrexato, comunemente associato a problemi cognitivi a lungo termine, ha individuato nei tessuti cerebrali dei pazienti che avevano ricevuto metrotexato, rispetto a quelli che non l’avevano ricevuto, un’evidente esaurimento degli oligodentrociti ed una maggiore sottigliezza delle guaine mieliniche. Gli oligodendrociti sono delle cellule che svolgono la fondamentale funzione di mielinizzazione dei neuroni del sistema nervoso centrale, forniscono quindi ai neuroni la guaina mielinica, una sostanza che li riveste isolandoli e proteggendoli, ma soprattutto che fornisce loro l’abilità di trasmettere velocemente le informazioni. Una variazione a questo livello potrebbe condurre ad un rallentamento che si ripercuoterebbe sulla sfera cognitiva. Con la prosecuzione dello studio si è tentato di osservare se il trapianto di oligodendrociti sani nel cervello avrebbe portato ad una ripresa del funzionamento; tuttavia, nonostante il tentativo, è stata osservata la medesima disregolazione. La chemioterapia sembrerebbe dunque non agire direttamente sul decadimento e sulla scomparsa di queste cellule ma piuttosto sulla creazione di un ambiente a loro ostile. Ulteriori approfondimenti hanno identificato il metotrexato come agente intaccante la microglia, che come conseguenza a cascata porterebbe alla mancanza di oligodendrociti funzionanti.

Specie negli ultimi anni sono emerse innumerevoli ricerche finalizzate all’estensione della comprensione di queste tematiche, soprattutto in relazione al numero di persone che sembra riscontrarle. Oltre la chemioterapia questi effetti sembrerebbero indotti anche da altri tipi di trattamenti per sconfiggere il cancro, tra cui le terapie ormonali in pazienti con cancro al seno o alla prostata. Rimane tuttavia difficoltoso riuscire a selezionare il fattore causante queste problematiche in quanto vengono spesso affiancate tipologie differenti di presa in carico; l’intervento chirurgico, l’anestesia e la radioterapia sono infatti spesso parte della terapia, rendendo più complesso discernere i vari agenti causali.

Trattamento e presa in carico

Dal punto di vista farmacologico non sono ancora state individuate delle sostanze in grado di interagire con questi aspetti del nostro funzionamento. I trattamenti attualmente adottati riguardano l’attività fisica e cognitiva. Per quanto riguarda l’attività fisica è ormai risaputo l’effetto benefico che essa, in particolar modo l’attività aerobica, sembrerebbe in grado di sortire a livello strutturale e funzionale del cervello. Sembrerebbe infatti in grado di stimolare la neurogenesi, portando ad un aumento del volume di aree quali l’ippocampo e la corteccia prefrontale dorso laterale migliorando conseguentemente la formazione e il mantenimento di nuovi ricordi e le abilità correlate alle funzioni esecutive (shifting, problem solving, pianificazione ecc.). Ulteriori studi hanno inoltre osservato l’effetto benefico di attività quali lo yoga, il Qigong e il Tai Chi, che condurrebbero miglioramenti sul funzionamento della memoria, sul senso di fatica e sulla qualità della vita.

Per quanto riguarda invece la sfera cognitiva è possibile intervenire attraverso un percorso che preveda una valutazione neuropsicologica in grado di individuare dettagliatamente e approfonditamente il deficit esperito, da trattare in un secondo momento con esercizi mirati. Attraverso l’individuazione degli esercizi più appropriati in base alla funzione in questione, sarà possibile impostare un trattamento di riabilitazione cognitiva finalizzato al recupero delle funzioni cognitive deficitarie.

È in questi casi pertanto indicato rivolgersi ad un neuropsicologo che prenda in carico il caso, occupandosi degli aspetti diagnostici e riabilitativi.

 

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