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Amy – The girl behind the name (2015) – La LIBET nelle narrazioni

A partire dalla visione del documentario Amy - The girl behind the name viene fatta un'ipotesi di concentuallizazzione del caso in termini LIBET

Di Donatella Tancredi

Pubblicato il 13 Gen. 2020

Una bella ragazza giovane, esuberante, con molto talento per la musica. La conosco quattro anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2011 ad appena 27 anni, con il film documentario Amy – The girl behind the name di Asif Capadia.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr.1) Amy – The girl behind the name

 

Mi soffermo a riflettere sulla sua sofferenza e sulle strategie adottate per fronteggiarla; in termini LIBET, sui temi dolorosi e i piani semi adattivi, consapevole della complessità del caso e della parzialità delle informazioni ricavate dalla voce di Amy nei filmati amatoriali, nelle interviste e nelle sue canzoni, raccolte per il documentario. In un esercizio di immaginazione  voglio incontrarla  al quarantesimo minuto circa del film, quando, soccorsa nella sua casa dagli amici allarmati da una vicina, dopo essere caduta e aver sbattuto la testa, è sporca, ‘la casa sporca, puzzava, con un bernoccolo quanto una pallina da golf’, come riferisce la sua migliore amica, dopo aver assunto alcol e anfetamine. Accetta di intraprendere un programma di riabilitazione a condizione che lo voglia suo padre. Suo padre le dice che sta bene, non ha bisogno di andare in terapia e decide di andare un giorno e poi tirarsi fuori.

Mi piace pensare che dopo alcuni incontri e aver maturato una motivazione sia lì, seduta di fronte e mi dica di avere un problema, di sentirsi persa, un pesce fuor d’acqua. Le chiedo a quale emozione si riferisce e mi risponde tristezza perché tutto le ricorda Blake; il sangue sul muro, il frigorifero…e ha cominciato a bere appena sveglia, senza mangiare e riducendosi così come appare, ‘è stato da irresponsabile’, dice. Le chiedo di raccontarmi un episodio specifico in cui si è sentita così e cosa ha fatto. Mi racconta di quando il ragazzo che frequentava, appunto Blake, le ha scritto il messaggio in cui le diceva di non voler lasciare la sua ragazza e che probabilmente sarebbero stati meglio come amici. Riferisce di essersi sentita folle, senza freni, di aver preso a pugni il muro. Le chiedo cosa ha pensato in quei momenti e risponde ‘deve desiderare di vedermi’, chiedo perché ‘deve?’, mi risponde che non è giusto che si dimentichi così in fretta di quello che c’è tra loro. Continuo chiedendo cosa significa questo per lei e risponde che significa essere debole e non amata come sua madre, continua dicendo che emula tutto lo schifo che la madre odia e che mai e poi mai ci passerebbe per quello che è accaduto a lei. Mi racconta che il padre è andato via di casa quando aveva tra i 9 e i 10 anni, aveva una relazione con un’altra donna da quando lei aveva 18 mesi ed era sempre stato molto assente nella sua crescita, la madre era debole tanto da non riuscire a porle alcun limite sin da bambina. Le chiedo cosa ha provato quando il padre è andato via di casa, cosa ha fatto e pensato. Risponde di essersi sentita strana; nervosa/allegra e di aver pensato: ‘posso fare quello che voglio, imprecare, truccarmi, bello!’ Si è tatuata, ha fatto piercing dappertutto, saltava la scuola, portava a casa il suo ragazzo, fumava erba. Sembrava aver reagito bene ma dopo qualche anno l’hanno portata da un medico che le ha prescritto un farmaco per la depressione. Dice che non sapeva cosa fosse la depressione ma sapeva di essere diversa.

Mi sembra di aver individuato i tre ABC; presente, invalidazione, apprendimento e inizia a delinearsi nella mia mente una concettualizzazione del caso che vede il disamore/indegnità come tema doloroso; i processi di metacontrollo, non posso tollerare di sentirmi non amata, debole, vuota e triste, come ho visto accadere a mia madre; il piano immunizzante, sostanze, relazioni estreme; il processo di invalidazione, rottura della relazione, rabbia, sostanze; esordio sintomatico, depressione, ‘back to black’.

Continuando la fantasia, decido a questo punto di condividere con la mia paziente la concettualizzazione che ho formulato e dico: ‘adesso le dirò l’idea che mi sono fatta del suo funzionamento che la fa stare così male, capisco che per lei è estremamente doloroso sentirsi così depressa ed è logico e comprensibile che si senta così, data la sua storia; è anche vero che la terapia può aiutarla a trasformare la depressione in tristezza. Sentirsi tristi è normale e talvolta utile perché ci comunica che c’è qualcosa da cambiare. Lei sta male perché quando il suo ragazzo ha deciso di stare con un’altra donna anziché con lei, così come è accaduto con suo padre da piccola, ha provato una profonda tristezza che l’ha fatta sentire debole e non amata e ha cercato di non sentire questo stato emotivo aiutandosi con le sostanze. E’ probabile che l’dea che si sia fatta di sé è di non poter sopportare di sentirsi inadeguata e non amata e di dover essere forte e spregiudicata nelle relazioni; tutto il contrario, come lei ha detto, di quello che è sua madre. Anche l’alcol e le altre sostanze è probabile che l’abbiano aiutata a non sentirsi non amata, debole e triste. La strategie che ha trovato per stare meglio (e lei ha fatto tutto quello che poteva, data la sua storia) l’hanno sicuramente aiutata in passato, ma ora sembrano non essere più sufficienti a proteggerla per non considerare il danno e i rischi per la salute, che già conosce’

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Asif Capadia (2015). Amy - The girl behind the name
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