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La culla vuota e i social media: Instagram e l’esperienza del lutto a seguito di un aborto spontaneo

Un recente studio ha analizzato i post di Instagram contenenti hashtag relativi all'aborto per cogliere temi ricorrenti e modalità espressive correlate

Di Giulia Samoré

Pubblicato il 15 Gen. 2020

Nel 2014 Jessica Zucker, psicologa clinica e dottoressa di ricerca, ha fondato su Instagram la campagna #ihadamiscarriage per incoraggiare le donne a condividere la propria esperienza e contrastare la coltre di segretezza che circonda il fenomeno dell’aborto.

 

Nella cultura occidentale, forse per scaramanzia, sicuramente per limitare il numero di persone al corrente dei fatti, viene insegnato alle gestanti che sia opportuno nascondere al mondo la gravidanza almeno per i primi tre mesi. Nonostante l’interruzione di gravidanza avvenga spontaneamente in assenza di patologie cooccorrenti, indicando verosimilmente una ‘selezione naturale infra-uterina’ legata alla salute dell’embrione, questo evento viene spesso vissuto dalle donne con sentimenti di colpa, vergogna e inadeguatezza, che incrinano proprio il senso identitario. Eppure, una percentuale stimata tra il 9 e il 20% di tutte le gravidanze non vengono portate a termine a causa di eventi spontanei, rappresentando quindi un fenomeno estremamente comune e largamente sottovalutato, specialmente se consideriamo i rischi a medio-lungo termine per le donne (ed i partner) che ne fanno esperienza, come ad esempio un aumento nell’incidenza di sintomi depressivi, della sintomatologia ansiosa e di PTSD (Bellhouse et al., 2019; Farren et al., 2016; Kolte et al., 2015) anche per alcuni anni a seguito della perdita. Alcuni studi hanno denunciato una mancanza di supporto e di informazioni adeguate da parte del personale medico coinvolto, così come un sentimento di forte isolamento sociale, vissuto dalle donne nel silenzio e segretezza (ma anche dai loro compagni: vedi Miller, Temple-Smith & Bilardi, 2019).

Con la nascita delle community online e dei forum e, in tempi più recenti con l’avvento dei social media, i contenuti presentati all’utente sono divenuti progressivamente più specifici e cuciti sulla persona, donando virtualmente un senso di appartenenza ad ogni individuo dotato di accesso alla Rete e mettendo in contatto persone che condividono esperienze, sentimenti o ideali, a prescindere dalla loro posizione geografica.

Nel 2014 Jessica Zucker, psicologa clinica e dottoressa di ricerca, ha fondato su Instagram la campagna #ihadamiscarriage (n.d.t.: #hoavutounabortospontaneo) per incoraggiare le donne a condividere la propria esperienza e contrastare la coltre di segretezza che circonda il fenomeno; l’introduzione di questo hashtag, riconosciuto e utilizzato dalle utenti negli anni a seguire, ha circoscritto uno spaccato del vissuto delle donne e delle loro famiglie.

Un recente studio di Mercier, Senter, Webster e Henderson Riley (2019) ha analizzato 200 post contenenti l’hashtag #ihadamiscarriage, con l’intento di coglierne i temi ricorrenti e le modalità espressive ad essi correlate: i post selezionati si focalizzavano sull’esperienza dell’interruzione della gravidanza, escludendo quindi le condivisioni circa una generale infertilità, i post che menzionassero la morte post-natale (non assimilabile all’aborto spontaneo) o che affrontassero la tematica del cambiamento corporeo o controllo del peso. Si è anche scelto di escludere gli hashtag postati dalle utenti in occasione del 15 Ottobre, Giornata mondiale per la sensibilizzazione sulla perdita perinatale e infantile e di quelle ricorrenze legate alla maternità come la Festa della Mamma e Pasqua. Da ultimo, i post contenenti video sono stati esclusi dal campione, in quanto la loro codifica avrebbe richiesto modalità differenti da quelle operate sul testo, sulle emoji e le immagini.

I contenuti dei post analizzati sono stati fatti confluire in cinque categorie generali: 1- l’aborto in quanto evento fisico e medicalmente correlato, 2- come esperienza sociale, 3- come esperienza emotivamente complessa, 4- gli effetti sull’identità personale e familiare 5- meccanismi di coping e di elaborazione dell’esperienza traumatica.

I post che si focalizzavano sull’esperienza medica, includevano immagini legate alle visite negli ospedali, alla chirurgia e alle procedure diagnostiche e le ecografie: tra questi spesso ricorreva il momento in cui la coppia riceveva la notizia dell’assenza di battito fetale, decretando la fine della gravidanza. Le date legate a momenti cruciali della gravidanza e la sua interruzione, venivano vissute come anniversari, anche per diverso tempo dopo la perdita.

Spesso l’intento era di offrire conforto e solidarietà per altre persone al pari del riceverle, talvolta attraverso frasi motivazionali attribuibili ad altri; i post che veicolavano il tema della rabbia esprimevano spesso emozioni di colpevolizzazione, rabbia verso il proprio corpo o verso Dio, quelli che si focalizzavano sul rimorso ripercorrevano invece azioni commesse o che avrebbero potuto prevenire la tragedia avvenuta, colpevolizzandosi per non essere riuscite a portare a termine la gravidanza ed esprimendo sentimenti conflittuali nel concedersi di andare avanti dopo l’esperienza dell’aborto.

Inoltre, l’interruzione di gravidanza veniva descritta come un evento determinante nella vita della donna che ne fa esperienza, elicitando riflessioni sulla propria identità di madre, padre o di genitori; i partner venivano poi menzionati per il loro ruolo supportivo durante e dopo l’evento, in post spesso accompagnati da immagini raffiguranti la coppia o gesti di unione come mani che si stringono o famiglie riunite.

L’impatto maggiore sul senso di identità sembra avvenire nelle donne che hanno subito molteplici interruzioni spontanee di gravidanza, alle quali ci si riferisce tra gli utenti di Instagram mediante l’hashtag #RPL (Recurrent Pregnancy Loss); in queste donne l’esperienza pregressa ha aumentato preoccupazione e ansia circa una possibile gravidanza o per quella in corso, temendo sintomi che possano essere precursori di un’altra interruzione di gravidanza, come ad esempio paura di riscontrare perdite ematiche o nel percepire dolori addominali.

Il tema religioso sembra ricorrere in quei post che si occupano dell’aspetto ristorativo e di guarigione, al pari della memoria dell’avvenuta perdita, che le utenti onorano in modi disparati: piantando un albero, tatuandosi, dando un nome al bambino, etc. Molti post facevano riferimento alla necessità di ricercare supporto psicologico per fare fronte alla sintomatologia ansiosa o alla depressione, così come ad altre pratiche di cura di sé come lo sport, attraverso la nutrizione salutare e la cura della persona.

È stato suggerito da Pittman e Reich (2016), che le piattaforme che si servono primariamente di immagini, come Instagram o Facebook, risultino più efficaci nell’alleviale il senso di solitudine e isolamento rispetto ad altri social media, come ad esempio Twitter. Di sicuro, la variegata, complessa, dolorosa esperienza di interruzione spontanea di gravidanza necessita di una modalità di espressione e condivisione che faccia fronte alla mancanza (incomprensibile) di rituali e consuetudini socialmente tramandate che facciano entrare questo vissuto, comune a tante donne, nell’esperienza collettiva: Instagram in tal senso permette alle donne di entrare a far parte di una comunità più estesa della propria ristretta cerchia di contatti.

 

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