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13 Novembre: la strage di Parigi e il Bataclan di Massimo Priviero

A 4 anni dall'attentato di Parigi, sulle note del brano Bataclan di M. Priviero, una riflessione sul terrorismo e sulle reazioni psicologiche che scatena

Di Annalisa Balestrieri

Pubblicato il 12 Nov. 2019

Era un venerdì, quel 13 novembre 2015. Anche a Parigi era una sera che si affacciava sul fine settimana, ma niente è andato come avrebbe dovuto. Le televisioni di tutto il mondo hanno seguito in diretta gli sviluppi di quella follia di cui tutti stati attoniti spettatori. Davanti a queste immagini che scorrono sui teleschermi la domanda è sempre “perché?”. Perché il terrorismo?

 

Era un venerdì, quel 13 novembre 2015. Anche a Parigi era una sera che si affacciava sul fine settimana, quando tutti cominciano a rilassarsi. Chi allo stadio a seguire una partita di calcio, chi a cena fuori con gli amici, chi a godersi un concerto.
Ma niente è andato come avrebbe dovuto andare.

Le televisioni di tutto il mondo hanno seguito in diretta gli sviluppi di quella follia di cui tutti ci siamo trovati ad essere attoniti spettatori.

L’effetto del terrorismo su ciascuno di noi

Davanti a queste immagini che scorrono sui teleschermi la domanda è sempre “perché?”. Perché il terrorismo? Cerchiamo di dare una risposta basandoci sul contributo del dottor Marco Cannavicci, psichiatra e criminologo, per conto del CEPIC (Centro Europeo Psicologia Investigazione e Criminologia).

L’atto terroristico, attraverso gesti eclatanti, spaventosi, volti a suscitare forti reazioni emotive, ha come obiettivo non tanto le singole vittime quanto tutta la comunità, tutta la popolazione che in qualche modo si identifica con le vittime. Vuoi per motivi di nazionalità, di cultura, di appartenenza religiosa. L’atto compiuto, amplificato dai media che diventano complici più o meno involontari di un progetto ben studiato, colpisce tutti noi modificando le nostre abitudini, le nostre reazioni, minano le nostre certezze, facendoci sentire insicuri anche a casa nostra.

La routine quotidiana viene spezzata e sostituita da un’insicurezza volta a minare i valori stessi della nostra società. Istintivamente si diventa più diffidenti, sospettosi, ostili verso quello che viene avvertito come una potenziale minaccia. E più avvertiamo che i rischi sfuggono al nostro controllo, più ci sentiamo minacciati, in pericolo, amplificando il nostro disagio. E soddisfacendo le aspettative di chi ha pianificato le aggressioni.

L’atto terroristico provoca in chi lo subisce una sottovalutazione del proprio ruolo e della propria possibilità di reazione e una parallela sopravvalutazione della forze e del potere di chi lo attua.

La suggestione inibisce il ragionamento

Di fronte alla prorompente ondata emotiva scatenata dall’atto terroristico si produce in chi ne resta coinvolto, anche solo come inerme spettatore, un condizionamento psicologico che dà luogo ad una suggestione collettiva, ossia un convincimento indotto da una forza esterna alla quale non si riesce ad opporsi con sufficiente fermezza.

Come ci spiega il filosofo John Dewey, la suggestione è una risposta istintiva, che sfugge al nostro controllo, e che si innesca in una situazione di sconvolgimento generando un’idea di soluzione che ci tolga dagli impicci.

Per arrivare ad una soluzione pratica, alla suggestione deve poter subentrare un processo di intellettualizzazione che approfondisca il pensiero iniziale osservando e mettendo a fuoco il problema. Da qui nascerà l’idea che anticipa la possibile soluzione. E’ il ragionamento che, verificando le ipotesi sulla base delle esperienze acquisite, indicherà quali conseguenze si verificheranno se l’idea verrà adottata.

Cosa fare?

Sempre dagli studi effettuati dal dottor Cannavicci (2019) emerge come la reazione più efficace agli atti terroristici sia di mantenere il più possibile la nostra quotidianità, le nostre abitudini, non consentendo che paura e smarrimento condizionino la nostra vita.

Difficile, certo, ma possibile. Un modo di affrontare la tragica notte di Parigi, e altre che le sono tristemente affini, ce lo propone una canzone, “Bataclan” appunto, che proprio quella sera ha preso vita e che ci viene raccontata dal suo autore.

Massimo Priviero racconta il suo “Bataclan”

 Accadde una sera di metà novembre. E avevo un concerto giusto il giorno dopo che, diversamente da quel che accadde per il novanta per cento dei casi, decisi di non annullare. Mi portai a casa l’emozione fragile e commossa di quella sera mentre cuore e testa continuavano a girare intorno all’attentato che c’era stato a Parigi. Parigi dolcissima. Carica di ricordi splendidi dei miei vent’anni quando ad esempio più volte mi era capitato di andarci e di mantenere i miei viaggi a prezzo ridotto suonando a qualche fermata di metropolitana. Dopo l’attentato, mi ritrovai a scrivere questa canzone quasi inevitabilmente e in modo del tutto naturale. Tuttavia non volevo che scoppiasse alcuna bomba. Mi sembrava stupido che questo accadesse quanto mi arrivava inutile una qualsiasi condanna che potevi facilmente fare riferendoti a un qualche criminale suicida. La dolcezza di un sentimento doveva vincere su qualsiasi morte, anche la più terribile, anche la più ingiusta. Vidi in televisione i genitori di Valeria (Solesin, la giovane vittima italiana), li sentii parlare della figlia con una nobiltà e con una serenità che mi commosse come poche volte mi era accaduto. Pensai che nessun accadimento avrebbe mai potuto vincere simile nobiltà. Pensai a quanto imbattibile è l’amore che lega una madre ad un figlio. Dunque delle bombe e degli spari non mi importava proprio più niente come non mi importava niente considerare quali mai potessero essere le misure giuste da prendere per fermare dei pazzi criminali. Non avevo conoscenza al riguardo. A quali potessero essere i modi migliori per arginare certe cose ci avrebbe pensato chi era preposto a farlo, inevitabilmente sbagliando come spesso i fatti hanno dimostrato. Tuttavia, amor vincit omnia è stato scritto. Oh, non mi riferisco all’amore da dare al fratello che ti spara in fronte, non credo neppure che sarei capace di farlo. Intendo ancora l’amore che nessuna morte può uccidere finché solo un frammento di questo potrà sopravvivere fors’anche in un angolo di memoria. Così pensando scrissi questo dialogo leggero tra Valeria e la sua mamma, così pensando mi venne di provare a fissare un sorriso bellissimo di una giovane donna partita senza paura per giocarsi le proprie carte di vita lungo un boulevard. Credo davvero che, in qualche modo, questa giovane vita non sia finita in una sera dentro ad un locale di Parigi. Immagino che questa continui, come se fosse stata fatta propria da tante altre giovani vite che si muovono per gli stessi boulevard in modo simile al suo. Un modo forte, bellissimo, carico di sole e desideroso in qualche misura di stringere la mano di chi si muove vicino a te. No, non credo affatto che la vita di Valeria Solesin sia finita una sera a Parigi in un locale chiamato Bataclan.

 

BATACLAN – LA CANZONE DI MASSIMO PRIVIERO:

 

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