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Il gaming disorder è considerato una patologia, ma i videogiochi hanno anche dei vantaggi

La decisione di riconoscere il gaming disorder come patologia ha provocato un profondo dibattito ancora irrisolto all’interno della comunità scientifica

Di Marco Lazzeri

Pubblicato il 25 Nov. 2019

La decisione dell’’Organizzazione Mondiale della Sanità di inserire ufficialmente il Gaming Disorder all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze comporta il riconoscimento formale della dipendenza dai videogiochi come una vera e propria malattia che necessita di una cura.

 

Il Gaming Disorder

Esiste davvero un’emergenza videogiochi? Durante la 72a World Health Assembly tenutasi a Ginevra al solo scopo di aggiornare l’undicesima versione dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di inserire ufficialmente il Gaming Disorder all’interno della sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze. Che cosa comporta questo? Il riconoscimento formale della dipendenza dai videogiochi come una vera e propria malattia che necessita di una cura. In vigore, però, solo a partire dal 2022, la scelta di riconoscere tale patologia ha provocato un profondo dibattito ancora irrisolto all’interno della comunità scientifica sia per quanto riguarda la delicatezza della sua definizione sia per le evidenze empiriche a sostegno di ciò che, allo stato attuale della ricerca, sono pressoché scarse. Gli unici studi importanti a sostegno di tale diagnosi si riferiscono unicamente alle realtà asiatiche dove il problema è di certo più acuto vista la profonda simbiosi tra i videogames e la loro cultura. Come si presenta quindi tale patologia? Secondo l’OMS il Gaming Disorder si configura attraverso

una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da: un mancato controllo sul gioco, una maggiore priorità data al gioco a discapito delle attività quotidiane nonché gli interessi personali ed infine una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative in ambiti personali, familiari, sociali, ecc…

Inoltre i comportamenti descritti devono presentarsi per una durata di 12 mesi, anche in maniera discontinua. Tale definizione applicata al gaming offline, prende spunto da una diagnosi molto simile (ovvero l’Internet Gaming Disorder), inserita nel 2013 dall’American Psychiatric Association nella quinta edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali. Secondo il DSM 5 sono ben nove i criteri comportamentali utili per inquadrare il paziente affetto da IGD. Senza stare ad elencarli tutti, dei nove criteri comportamentali evidenziati dal manuale diagnostico troviamo l’assuefazione (cioè l’aumentare progressivo del tempo passato a giocare), la provata difficoltà a staccarsi da un gaming convulso con la conseguente perdita del lavoro (nel caso degli adulti) e delle relazioni interpersonali. Tuttavia, visti i dati limitati inerenti l’eziologia del disturbo e il decorso clinico (Kuss et al. 2017), i critici hanno sostenuto che sono ancora necessari ulteriori chiarimenti riguardo alle caratteristiche distintive del disturbo; mentre il requisito che siano presenti solo cinque sintomi su nove crea un gruppo diagnostico eccessivamente eterogeneo. A confermare quanto sia debole la sintomatologia descritta nel DSM 5 ci pensa inoltre la Dott.ssa Viola Nicolucci che, in occasione di un’intervista rilasciata sul portale di OggiScienza, ci racconta come Christopher Ferguson, esperto dei media della Stetson University, abbia dimostrato alla Conference of Psychological Sciences avvenuta a marzo di quest’anno, quanto fosse fragile la sintomatologia descritta nel manuale diagnostico. A complicare ulteriormente il quadro clinico, è anche l’alto tasso di comorbilità tra IGD e altri disturbi, in particolare la depressione, l’ansia, il disturbo ossessivo compulsivo e il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (Liu et al. 2018; Gonzalez- Vega Bueso et al. 2018). Andrew Przybylski, psicologo sperimentale e direttore di ricerca presso l’Oxford Internet Institute, aveva presentato assieme a un gruppo di 35 ricercatori internazionali di cui fa parte Adriano Schimmenti, uno dei maggiori esperti italiani nell’ambito delle dipendenze comportamentali, una lettera aperta all’OMS in cui esprimevano forti perplessità e preoccupazione in risposta al possibile inserimento del Gaming Disorder nell’ICD-11 (Van Rooij. A., et all. 2018). Secondo la loro opinione, le persone che giocano ai videogiochi senza svilupparne un uso patologico sarebbero poi state stigmatizzate in modo inappropriato (Aarseth E, Bean AM, Boonen H, et al., 2017). In un articolo apparso sulla rivista Professional Psychology: Research and Practice dal titolo Videogame addiction: the push to patologize videogames (2011), Anthony Beam e collaboratori, tra cui lo stesso Ferguson, cercano di esaminare se la dipendenza da videogiochi si qualifichi o meno come un disturbo mentale, dal momento che molti aspetti dell’IGD rimangono concettualmente controversi tra ricercatori e clinici. Non è chiaro se i sintomi che implicano comportamenti problematici dovuti dall’interazione con i videogiochi debbano poi essere considerati come un nuovo disturbo o siano espressione di condizioni mentali sottostanti. Gli attuali approcci per comprendere la gaming addiction sono radicati nella ricerca sull’abuso di sostanze che non si traducono necessariamente in consumo dei media. L’articolo solleva inoltre importanti domande circa la validità delle prove, la stabilità del costrutto proposto e di come tale patologia clinica possa essere associata a dei normali comportamenti di routine esperiti con i videogiochi. (Beam A, et al., 2017). Infine, tramite la divisione Society for Media Psychology and Technology, la stessa American Psychology Association ha espresso diverse perplessità circa la decisione presa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in quanto le ricerche condotte nel tempo sulla dipendenza da videogiochi non hanno portato a nessun tipo di chiarezza definitiva. Senza alcun dato scientifico a supporto, la diagnosi di Gaming Disorder sembra perciò nascere dal terrore immotivato della gente verso questo strumento.

Le ricerche attuali

In passato, la maggior parte della ricerca fatta sui videogiochi si era concentrata a individuarne solo i potenziali effetti negativi. A oggi, invece, troviamo anche degli studi che si prefiggono di capire come un videogioco possa migliorare la salute, potenziare la flessibilità cognitiva (Glass. D. B., et al., 2013) o essere utile per alleviare la sintomatologia in alcuni disturbi come il PTSD (Kessler. H., et al., 2018).

Cosa ci spinge però a videogiocare? La risposta a tale quesito ce la provano a dare Richard M. Ryan, C. Scott Rigby e, ancora una volta, lo stesso Andrew Przybylski. Rifacendosi alla Self-determination theory o SDT (Deci e Ryan, 1985) i tre ricercatori hanno delineato, nello studio intitolato A Motivational Model of Video Game Engagement (2010), un modello empirico teorico motivazionale utile per comprendere e valutare quali sono i processi che spingono l’utente a giocare ai videogames oltre a stabilire le modalità in cui il coinvolgimento dei videogiochi può influenzare il loro benessere psicologico. Quanto dimostrato dai ricercatori suggerisce che sia l’appeal esercitato dai videogiochi che gli effetti provocati dal loro utilizzo si basano sulla loro capacità di soddisfare i bisogni di competenza, autonomia e relazionalità. La teoria dell’autodeterminazione difatti sostiene che, per poter essere felice, l’essere umano (inteso come organismo in grado di realizzare le sue capacità) deve poter soddisfare i tre naturali bisogni psicologici di base appena citati. Nel dettaglio, la ‘competenza’ evidenzia la padronanza nonché l’appagamento naturale che si ottiene nel sentirsi esperti e capaci in qualcosa. Nel mondo dei videogames questo aspetto lo ritroviamo ovunque…dal semplice shooter fino al classico Tetris. Con ‘autonomia’ intendiamo invece la capacità di decidere autonomamente, senza alcuna imposizione proveniente dall’esterno. Decidere con la propria testa ci fa sentire in armonia con il nostro Sé, la nostra identità, il nostro Io. Nei videogames ogni scelta che dobbiamo compiere è, pertanto, una scelta autonoma, decisa in totale libertà. Quest’abilità di poter influire autonomamente sull’ambiente virtuale mentre si sta giocando viene definita agency ed è un costrutto che ritroviamo nella teoria sociale cognitiva di Albert Bandura. Nei videogiochi pensati secondo la modalità dell’interactive storytelling in cui ogni nostra scelta comporterà una diversa conseguenza della storia, tale capacità è forse più evidente. È il caso di Detroit Become Human o della serie Life is Strange. Infine, l’ultimo bisogno da soddisfare, ovvero il bisogno di ‘relazionalità’, si riferisce alla necessità di sentirsi parte di un gruppo dove poter intrecciare relazioni e portare il proprio contributo. Tale aspetto è caratteristico dei videogiochi massively multiplayer online game (MMOG oMMO). I giochi MMO, in grado di gestire migliaia di giocatori connessi simultaneamente tramite la Rete, permettono ai giocatori di competere o interagire significativamente con altre persone in tutto il mondo. Qualche esempio? Infinite Crisis, League of Legends, Dota 2 o Fortnite, videogioco ideato dalla psicologa Celia Hodent.

I videogiochi e la salute: l’esempio di Pokémon Go

Come si sa, di videogiochi esistono tipologie e forme estremamente diverse. Pertanto, pensare al videogioco solo come forma di semplice intrattenimento sarebbe davvero molto riduttivo (Bittanti, 2004) perché si rischierebbe di non coglierne il reale significato e valore d’uso. Sono sempre più numerosi i titoli utilizzati a fini formativi o a supporto dei processi di apprendimento. Inoltre, in forte crescita, vi sono videogiochi che hanno come obiettivo la promozione del benessere fisico della persona. A proposito della salute, il grande beneficio offerto da questi artefatti elettronici sta proprio nella capacità di unire la componente ludica all’esercizio motorio, al contrario delle terapie tradizionali che richiedono esercizi monotoni e ripetitivi. In Superare le difficoltà psicologiche è un (video)gioco da ragazzi! Fare Play Therapy attraverso i videogames vi avevo già spiegato come molteplici aziende investano nei videogiochi a livello sanitario. Tra i tanti casi vale la pena ricordare (perché continua a fare notizia) l’utilizzo di Pokémon Go presso l’ospedale pediatrico C.S. Mott Children’s Hospital negli Stati Uniti. Il gioco in questione viene usato come terapia incoraggiando i bambini ricoverati (pazienti affetti da cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc…) a usare il videogioco negli spazi pubblici dell’ospedale, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti. Il suo uso, all’interno della struttura, è volto a migliorare le condizioni dei bambini: muovendosi dal proprio letto, infatti, viene impedito agli arti dei giovani degenti di atrofizzarsi e, al contempo, viene favorita la creazione di relazioni sociali che, oltre a evitare che si sentano soli, allevia stati psichici come l’ansia o la depressione.

UTILIZZO DI POKEMON GO PRESSO IL C.S. MOTT CHILDREN’S HOSPITAL:

L’uso dei videogiochi in ambito didattico e sociale

Oltre l’ambito riabilitativo, i videogiochi possono avere anche altri importanti impieghi. Dall’apprendimento utile a fini didattici, il videogioco può anche esercitare una forte influenza pro sociale o fungere da cassa di risonanza per venire a contatto con le proprie emozioni. Per cercare di rendervi più chiaro quanto ho appena detto, vorrei riprendere alcuni estratti tratti dal libro Dentro il videogioco. Viaggio nella psicologia dei videogiochi e nei suoi ambiti applicativi edito da Ananke lab. In questo libro il collega Francesco Bocci, offre, assieme al supporto di altri autori e di Horizon PsyTech & Games una testimonianza concreta e operativa (merito anche alle ricerche convincenti) sulla tanto discussa pericolosità dei videogiochi. La visione che ne emerge è pertanto ottimistica. Ebbene, come può un videogioco insegnare? A differenza del classico libro, il videogame consente alla persona che gioca di fare esperienza diretta dei propri contenuti sebbene con alcuni limiti dovuti alla mediazione di uno schermo e all’uso del joystick. Tra i videogiochi più rappresentativi della condivisione di apprendimenti tra ambito videoludico e accademico troviamo, come ci suggerisce Francesco Italiano, Age of Empires una serie di videogiochi di genere strategico a tema storico che, in tempo reale, cala il giocatore in battaglie tra civiltà antiche. Con questo gioco viene permesso di imparare la storia ‘giocandola’. Un altro esempio molto interessante da citare riguardo l’apprendimento didattico è di sicuro Assassin’s Creed Origins in cui, grazie alla modalità Discovery Tour, si può usufruire di un’esplorazione interattiva dell’Antico Egitto ai tempi di Cleopatra. Recentemente, con Assassin’s Creed Odyssey, la modalità Discovery è stata estesa anche all’Antica Grecia. Senza alcun vincolo i giocatori potranno viaggiare attraverso 29 regioni del territorio ellenico.

LA MODALITA’ DISCOVERY TOUR IN ASSASSIN’S CREED:

L’apprendimento che si può esperire dall’interazione con i videogiochi non si ferma, però, qui. Un videogame può allenare anche una serie di skill: incrementare l’efficacia del processo decisionale, favorire lo svilupparsi dell’intelligenza emotiva o portare alla luce temi sensibili quali il suicidio, l’eutanasia, il bullismo oppure la consapevolezza della propria identità sessuale. In tutti i casi, il punto di forza dei videogiochi è comunque quello di rendere ludico l’apprendimento, stimolandone così la motivazione degli utenti e il loro coinvolgimento. L’aspetto motivazionale è molto importante per interiorizzare contenuti poiché l’interesse verso un ambito o uno stimolo rende il suo apprendimento molto più semplice e rapido (Antonietti, A., 1998).

Per quanto concerne lo studio degli effetti pro-sociali dell’interazione con i videogiochi, Luca Milani, l’autore del capitolo Il valore pro-sociale dei videogiochi, ci spiega come tale ricerca sia stata presa in considerazione dal punto di vista scientifico solamente verso i tardi anni Ottanta-metà anni Novanta. Interessante è il riferimento che il collega fa alla ricerca del 2012 di Greitmeyer e collaboratori. Nel loro studio intitolato Acting prosocially reduces retaliation. Effects of prosocial videogames on aggressive behavior, i ricercatori hanno evidenziato come giocare ai videogiochi con fini pro-sociali non solo sia in grado di diminuire il livello di aggressività, ma anche di promuovere l’empatia e l’effettivo comportamento pro-sociale di chi vi gioca. Questi risultati sono stati ottenuti con differenti versioni di giochi a contenuto pro-sociale e si sono sempre dimostrati significativi nei diversi esperimenti condotti da Greitmeyer e colleghi. Di particolare rilevanza poi è il fatto che i risultati ottenuti non fossero dipendenti né dal genere del giocatore né dalla predisposizione empatica o aggressiva dei partecipanti. L’uso di giochi pro-sociali può promuovere pertanto comportamenti positivi indipendentemente dalle caratteristiche del giocatore. In qualche maniera collegata alla ricerca di Greitmeyer è lo studio Playing prosocial video games increases empathy and decreases schadenfreude (Greitemeyer, T., Osswald. S., Brauer. M., 2010). Nello studio in questione i ricercatori hanno scoperto che quando i partecipanti coinvolti giocavano con simpatici personaggi chiamati Lemmings erano molto più propensi a sentirsi meno schadenfreude nei confronti delle altre persone. Per chi non lo sapesse con il termine schadenfreude (Heider, 1958) si intende una particolare forma di piacere che si prova di fronte alle disgrazie altrui. La ricerca ha quindi dimostrato e supportato l’ipotesi che l’esposizione ai contenuti di videogiochi con contenuti prosociali sia correlata positivamente all’aumento dell’empatia interpersonale e dei comportamenti prosociali, con la conseguente diminuzione della schadenfreude (Greitemeyer & Osswald, 2009, 2010).

Provare emozioni con i videogiochi

Prima di avviarmi verso la conclusione, rimane da trattare ancora la capacità dei videogiochi di suscitare delle emozioni. Come si può definire un’emozione? L’emozione è una manifestazione psico-fisiologica conscia che, oltre ad essere piacevole o spiacevole, regola anche l’interazione dell’individuo con l’ambiente. Come sostiene lo psicologo Gabriele Barone nel capitolo Videogiochi ed emozioni, il processo emotivo si può considerare come un costrutto multicomponenziale che si sviluppa per mezzo di cinque differenti costrutti. Il primo, detto arousal, consiste nel complesso di modificazioni corporee suscettibili alla risposta emotiva. Il secondo, detto appraisal, si riferisce alla componente cognitiva che si attiva per valutare la situazione in cui vi si trova. In merito a quest’ultima Frijda, (1989) Lazarus e Folkmann (1984) sostengono, però, che ce ne siano ben due tipi: il primary appraisal e il secondary appraisal. Il terzo costrutto, inerente alla motivazione o alla propensione all’azione, prepara l’organismo ad agire sull’ambiente che lo circonda. Il quarto riguarda gli strumenti espressivi come, ad esempio, quelli facciali mentre il quinto considera la componente soggettiva dell’analisi cognitiva. A discapito dell’intrattenimento piatto e lineare caratteristico della televisione, i videogiochi sono degli artefatti interattivi. E, in quanto tali, l’utente sperimenta su di essi una certa influenza. Tuttavia non è solo l’influenza diretta del giocatore nel videogioco a scatenare in lui un certo tipo di emozione, ma anche la tipologia stessa dei videogames con cui interagisce assieme ad alcune sue peculiarità. La dimensione di sfida, l’incalzare della musica in una determinata scena, l’identificazione con i personaggi (come ad esempio il personaggio di Kate in Life is Strange), gli aspetti grafici o l’immedesimazione nella storia sono tutti elementi che, abbinati tra di loro, possono produrre un feedback emotivo in noi molto diverso. Giocare a un videogioco ci può far commuovere, ci può rendere felici, ma ci può suscitare anche una profonda rabbia o, perché no, della frustrazione. Secondo Tan (1996), giocare ai videogiochi può causare nei giocatori tre tipi di emozioni: le F. emotions, le G. emotions e le A. Emotions.

  • F emotions (Fiction emotions)

Le emozioni chiamate F emotions o fiction emotions sono legate al mondo immaginario e a tutto ciò che scaturisce al suo interno. Anche se il giocatore sa di essere al sicuro e di non correre alcun rischio reale, non significa che l’esperienza di gioco non abbia su di lui un impatto emotivo molto forte. Pensate ai quartieri malfamati presenti in qualunque GTA o alle ambientazioni di Resident Evil. Le fiction emotions, di natura empatica, sono definite anche witness emotions (emozioni da testimoniare) e sono collegate alle preoccupazioni e/o agli interessi dei personaggi protagonisti del gioco. Secondo Tan, le situazioni che vivono i personaggi di un videogame non possono essere completamente comprese dai giocatori. In Max Payne per esempio, benché non si possa fare nulla per evitare l’omicidio della moglie e della figlia del protagonista, il giocatore sarà portato comunque a sperimentare la rabbia di Max e a impegnarsi con lui per vendicarsi. Sebbene questo videogioco sia forse il caso più significativo per spiegare al meglio le witness emotions, esistono molti altri videogiochi come Alan Wake, la serie Batman: Arkham o LIS che permettono al videogiocatore di sperimentarle.

  • G. emotions (Gameplay emotions)

Il gameplay è una caratteristica dei videogiochi che rappresenta la qualità dell’esperienza dell’interazione del giocatore con il gioco. Il termine è un neologismo inglese che letteralmente significa ‘giocare il gioco’ e in italiano viene reso generalmente con ‘esperienza di gioco’. Spesso confuso con la giocabilità, il gameplay è, al contrario, un concetto più ampio che comprende anche la trama del gioco e tutto ciò che coinvolge il giocatore. Le G. emotions o gameplay emotions non sono altro che le emozioni suscitate dalle nostre azioni condotte durante il gameplay e dalle conseguenti reazioni del gioco alle nostre mosse. Nello studio Why We Play Games: Four Keys to More Emotion Without Story ( Lazzaro, N. 2004) effettuato su un campione di 15 hardcore gamer, 15 giocatori occasionali e 15 non giocatori ci viene mostrato come, a partire dal tipo di gameplay, sia possibile sperimentare momento dopo momento una gamma di emozioni conosciute (come l’eccitazione, la frustrazione o la paura) nonché insolite (quali il disgusto, la fierezza/orgoglio o la schadenfreude) . Concentrandosi sulle 45 ore di registrazioni video dei primi due campioni (ed in particolare sull’osservazione dei segnali emotivi esperiti dalla mimica facciale e dal linguaggio verbale, non verbale e paraverbale degli stessi) i ricercatori hanno individuato l’esistenza di 4 chiavi che, se presenti all’interno del gameplay, possono sbloccare nel videogiocatore emozioni completamente indipendenti da quelle elicitate dalla storia. Le 4 chiavi in questione sono: hard fun, easy fun, altered states e the people factor.

  • A emotions (Artifacts emotion)

Il terzo gruppo di emozioni è relativo a tutte quelle manifestazioni emotive che derivano dall’estetica dell’artefatto in termini di caratteristiche tecniche (fluidità dei movimenti, grafica, dettagli etc.). Un videogioco tecnologicamente avanzato, con una grafica curata e magari accompagnato da visori per la VR, permetterà una maggiore immersività e ciò susciterà nei giocatori emozioni più forti e realistiche. Pensate a Blood and Thruth VR, Splinter Cell, Until Dawn o ancora a Resident Evil. Secondo Tan, più l’emozione esperita risulterà  intensa, molto più facilmente un giocatore realizzerà che sta vivendo un’esperienza speciale, anche se ben consapevole che è di fronte ad un artefatto.

Conclusioni

Per quanto sia opinabile per alcuni pensare che un videogioco possa fare bene o essere fautore di una dipendenza, partire prevenuti è, secondo la mia personale opinione, oltremodo sbagliato. Nonostante l’OMS abbia assicurato attraverso le parole di Shekhar Saxena, direttore del Dipartimento di salute mentale, che il Gaming Disorder riguarderebbe solo una minoranza delle persone che giocano sono purtroppo ancora poche le evidenze scientifiche capaci di supportarne la diagnosi. La dipendenza di alcuni ragazzi verso determinati videogiochi, come ad esempio Fortnite, potrebbe essere il sintomo di qualche malessere più profondo (Markey, P. M., Ferguson, C. J., 2017) e non esserne a priori la causa. Continuare a demonizzare questo medium senza conoscerne anche i pregi e le opportunità che esso offre potrebbe rivelarsi inibente nonché causare dell’inutile panico morale.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Ludografia
  • Age of Empires (Ensemble Studios, 1993-2019)
  • Alan Wake (Remedy, 2010)
  • Assassin’s Creed Odyssey (Ubisoft Québec, 2018)
  • Assassin’s Creed Origin (Ubisoft Montreal, 2017)
  • Batman: Arkham (Rocksteady Studios, 2009, 2011, 2015)
  • Blood and Thruth VR (SCE London Studio, 2019)
  • Detroit Become Human (Quantic Dream, 2018)
  • Dota 2 (Valve Corporation, 2013)
  • Fortnite (Epic Games e People Can Fly, 2017)
  • GTA (Rockstar Games, 1997)
  • Infinite Crisis (Turbine, Inc., 2015)
  • League of Legends (Riot Games, 2009)
  • Lemmings (DMA Design, 1991)
  • Life is Strange 1 (Dontnod Entertainment, 2015)
  • Max Payne (Remedy Entertainment, 2001)
  • Pokémon Go (Niantic , 2016)
  • Resident Evil (Capcom, 1996)
  • Splinter Cell (Ubisoft, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2010, 2013)
  • Tetris (Aleksej Leonidovič Pažitnov, 1984)
  • Until Dawn (Supermassive Games, 2015)
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