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Aspetti psicologici della diagnosi prenatale

Sottoporsi a procedure di diagnosi prenatale in gravidanza può essere motivo di ansia e stress per la futura mamma, la coppia e il bambino in arrivo.

Di Francesca Falco

Pubblicato il 26 Ago. 2019

Lo screening prenatale rappresenta solo una parte degli esami che possono essere eseguiti durante la gravidanza e si affiancano agli esami specifici, effettuati solo in casi di rilevato rischio diagnostico. Decidere di eseguire test invasivi durante la gestazione, non è una scelta facile: i genitori si trovano a considerare l’esecuzione di indagini diagnostiche che potrebbero danneggiare il bambino, a vivere uno stato di ansia ed apprensione per la procedura in sé e per i possibili riscontri diagnostici.

Francesca Falco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La gravidanza rappresenta un momento di forte cambiamento nella vita della coppia e della donna: il corpo si modifica per fare spazio ad una nuova vita, ci si abitua gradualmente alla presenza di un bambino, che si fa sentire tra movimenti nella pancia e sintomi legati alla gestazione, come mal di schiena, gambe doloranti e frequente minzione, si inizia a pensare al concetto di famiglia, oltre quello di coppia, ed i partner iniziano ad assumersi un nuovo ruolo, che si affiancherà a quello di individuo e di compagno/a, quello del genitore.

Nonostante i numerosi cambiamenti nel corpo e nello stile di vita, il pensiero della futura mamma e del futuro papà è rivolto a creare uno spazio, oltre che fisico, anche psicologico ed affettivo al nuovo membro della famiglia, che tra ecografie e movimenti, inizia a farsi conoscere e ad alimentare un’immagine che nella mente dei futuri genitori si forma pian piano per tutta l’attesa del parto: l’immagine del proprio figlio.

La gravidanza ha una durata indicativa di 40 settimane, che compongono i 9 mesi di attesa, generalmente divisi in trimestri. Ogni fase della gestazione ha le sue peculiarità, che comprendono la fase di sviluppo del bambino, le modificazioni fisiologiche del corpo della mamma e le fasi diagnostiche della gestazione: durante tutto il periodo della gravidanza, infatti, vengono prescritti dei test, che potremmo definire ordinari, che accertano il normale progredire della gestazione e dello sviluppo del bambino e che monitorano la salute della gestante. Questi test sono importanti sia a fini diagnostici sia a fini preventivi in quanto esistono diverse procedure di intervento che permettono, in casi di diagnosi precoce, di intervenire tempestivamente su madre e bambino.

Esistono poi, oltre ai test ordinari, diverse procedure diagnostiche specifiche che vengono prescritte soprattutto quando si sospettano patologie e/o malformazioni del feto o della madre, o in situazioni in cui la gravidanza è considerata “a rischio”, ma si tratta di procedure che potrebbero mettere a rischio la vita del piccolo.

Screening prenatale: quali test e quando farli

Cos’è la diagnosi prenatale? Si tratta di una serie di indagini strumentali e di laboratorio finalizzati a monitorare alcuni aspetti dello sviluppo del bambino dalle prime fasi di vita embrionale alla nascita. Sono considerati test di screening poiché non forniscono una vera e propria diagnosi, ma danno un’indicazione della probabilità che il feto presenti o meno un’alterazione cromosomica, una malformazione congenita o di altre malattie. Lo screening eseguito mese per mese, quindi, consente di monitorare la salute non solo della gestante, ma anche del bambino, fornendo indicazioni su eventuali approfondimenti diagnostici necessari da eseguire solo in condizione di probabilità rilevata o caratteristiche specifiche dei genitori biologici (es. età della madre, familiarità con una determinata anomalia cromosomica, etc.).

Lo screening prenatale rappresenta solo una parte degli esami che possono essere eseguiti durante la gravidanza e si affiancano agli esami specifici, effettuati solo in casi di rilevato rischio diagnostico. A questo proposito, si possono distinguere due grandi categorie di esami prenatali: quelli non invasivi e quelli invasivi.

Del primo gruppo fanno parte tutte quelle procedure sicure al 100% sia per la madre, sia per il bambino, che forniscono una probabilità di presenza di una patologia, malformazione o anomalia cromosomica. Sono i test sui quali si basa la scelta di eseguire eventuali approfondimenti diagnostici di tipo invasivo. Attualmente le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità prevedono l’esecuzione di alcuni test non invasivi per ogni gravidanza:

  • Esami del sangue e delle urine per la gestante, utili ad individuare gruppo sanguigno e fattore Rh, presenza di malattie e infezioni, stato di salute generale della donna. Si eseguono fin dal primo trimestre e possono essere riproposti nei trimestri successivi in caso di rischio diabete (esame della curva glicemica), assenza di immunità per rosolia e toxoplasmosi, sospetta infezione della gestante.
  • Ecografia, effettuata fin dal primo trimestre per confermare la gravidanza, è l’esame che accompagna la gestante ed il suo bambino per tutta la durata della gravidanza. Ad ogni ecografia, vengono effettuate delle misurazioni per confermare o meno il corretto sviluppo del feto e per identificare, eventualmente, la necessità di sottoporre la donna ad ulteriori indagini. Alcune ecografie hanno obiettivi specifici e rappresentano uno specifico strumento di screening, come avviene ad esempio per l’ecografia morfologica o per l’ecocardiografia fetale.

Tra i test invasivi, invece, ci sono una serie di indagini diagnostiche consigliate in maniera mirata a coppie che riportano familiarità per determinate anomalie cromosomiche, che presentano una gravidanza geriatrica (ossia quando la futura mamma ha superato i 35 anni di età), o che hanno ricevuto dallo screening prenatale indicazioni di alto rischio per il feto, e mirano a verificare la presenza di anomalie cromosomiche specifiche. Tra i test invasivi maggiormente diffusi si hanno:

  • Villocentesi: si tratta del prelievo dei villi coriali, che avviene attraverso l’inserimento di un ago nell’addome della gestante, sotto la guida dell’ecografia. Si può eseguire a partire dalla decima settimana e permette l’analisi del DNA fetale.
  • Amniocentesi: prevede il prelievo di liquido amniotico (circa 20cc) attraverso l’inserimento di un ago nell’addome della donna, sotto la guida dell’ecografia, nel quale è possibile trovare cellule del feto. L’analisi di tali cellule permette di individuare il cariotipo del bambino, ossia la presenza di eventuali anomalie cromosomiche. È un test che può essere effettuato durante il quarto mese di gravidanza.
  • Cordocentesi: consiste nel prelievo di sangue del feto attraverso il cordone ombelicale. Essendo uno dei test invasivi più rischiosi per il bambino, viene effettuato solo in casi particolari, come ad esempio l’aver contratto un’infezione grave durante la gravidanza. Il test si effettua a partire dalla sedicesima settimana.

Si tratta di test che comportano un rischio di aborto a causa della procedura di raccolta del materiale biologico da esaminare, per cui necessitano di una buona informazione dei futuri genitori circa i rischi che la procedura comporta. Decidere di eseguire test invasivi durante la gestazione, non è una scelta facile: i genitori si trovano a dover considerare l’esecuzione di indagini diagnostiche che potrebbero danneggiare il bambino, a vivere uno stato di ansia ed apprensione sia per la procedura in sé, sia per i possibili riscontri diagnostici, vivendo così una gravidanza emotivamente difficile.

Alcuni Autori parlano dell’offerta di diagnosi prenatale come di una “decisione non voluta” (Wertz, Fletcher, 1993) che viene rimandata principalmente alla madre, in osservanza del diritto di scelta, ma che rappresenta per loro un vero e proprio momento di difficoltà. Una ricerca di Browner, Preloran e Cox (1999) ha evidenziato come tra le donne appartenenti a minoranze etniche, le ragioni maggiormente adottate nella scelta di procedere con la diagnosi prenatale siano principalmente la possibilità di prepararsi ad un eventuale bambino malato, la speranza di poter intervenire sul bambino, la necessità di essere rassicurate dal medico o di poter ricevere consiglio su come procedere, l’influenza del partner nella decisione e il desiderio di abortire qualora la diagnosi venisse confermata. Altri studi, invece, evidenziano come alla base della decisione di rifiutare la diagnosi prenatale, vi siano sia fattori culturali e religiosi (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008) sia un elevato investimento nella gravidanza, che si affianca al rifiuto di riconoscere che il feto potrebbe non essere sano (French, Kurczynski, Weaver, Pituch, 1992).

È fondamentale, in quest’ottica, informare attentamente i futuri genitori su pro e contro di ogni accertamento prenatale, analizzando insieme i fattori di rischio, le motivazioni alla base della scelta e le possibili implicazioni. Se da una parte la diagnosi prenatale permette di intervenire tempestivamente su alcune condizioni, dall’altra potrebbe porre la coppia di fronte a decisioni molto più estreme, come dover ricorrere all’aborto a causa di malformazioni del bambino incompatibili con la vita o interventi di chirurgia prenatale, rischiosi anche per la gestante.

Aspetti psicologici delle procedure di diagnosi prenatale

Come precedentemente accennato, il solo sottoporsi ad una procedura diagnostica, invasiva o non invasiva, può rappresentare un motivo di ansia e stress. Alcune ricerche sembrano dimostrare che le donne tendono a provare una maggiore ansia prima del test da effettuare, un maggiore preoccupazione nell’attesa dei risultati ed una diminuzione dell’ansia di fronte all’esito negativo del test (Adler, Keyes, Robertson, 1991). Diversi studi hanno dimostrato come le donne sottoposte a test di diagnosi prenatale mostrino livelli di ansia significativamente più elevati di quelli di donne che non vi si sottopongono (Allison et l., 2011) e che i livelli di stress tendono a scendere con le rassicurazioni dei medici circa un esito negativo o con la spiegazione di interventi possibili per la salute del bambino (Marteau et al., 1989; Sarkar et al.,2006; Sarkar et al.,2008).

L’importanza dello stress e dell’ansia, risiede soprattutto negli effetti che questi possono avere sia sul rischio di parto pretermine, sia sullo sviluppo del feto. Alcuni Autori, infatti, hanno avanzato l’ipotesi per cui lo stress in gravidanza possa causare un parto pretermine: da una parte, potrebbe accadere a causa dei cambiamenti immunologici che lo stress produce nella gestante (Ruiz, Pearson, 1999), dall’altra a causa della maggiore suscettibilità alle infezioni dovuta ai cambiamenti immunologici prodotti dallo stress (Wadhwa et al., 2001). Inoltre, è stato dimostrato come lo stress sia in grado di ridurre i livelli di ormoni progestinici, che supportano la gravidanza, e di aumentare le prostaglandine, responsabili delle contrazioni uterine (Gennaro, Hennessy, 2003; Knackstedt, Hamelman, Arck, 2005).

Inoltre, gli studi dimostrano come l’esposizione del feto allo stress materno rappresenti un fattore di rischio nello sviluppo del bambino. È stata riscontrata una riduzione della formazione di sinapsi nell’ippocampo nei feti sottoposti a stress materno (Hayashi et al., 1998), una maggiore predisposizione ai disturbi mentali, principalmente depressione, ipersensibilità allo stress e difficoltà nella regolazione emotiva (Ruiz, Avant, 2005) e difficoltà temperamentali già a 10 settimane e 7 mesi di età, in bambini che, durante il terzo trimestre di gravidanza, sono stati esposti ad ansia materna (van der Bergh, 1992).

Un altro aspetto importante si riferisce al concetto di gravidanza provvisoria (tentative pregnancy) di Rothman (1986), per cui alcune donne aspettano ad investire emotivamente nella gravidanza fino a quando non sono pronti i risultati del test. È un aspetto molto interessante, poiché sembrerebbe incorporare, all’interno del concetto di maternità, il diritto di abortire, come se, evitando di investire emotivamente sul bambino in arrivo, si conservasse tale diritto, riducendo i rischi psicologici di un lutto prenatale terapeutico. Questo concetto deriva da ricerche che hanno dimostrato come, in alcune donne sottoposte ad amniocentesi, ci fosse la tendenza ad aspettare ad investire affettivamente nella gravidanza fino a quando non ci fosse il responso del test (Adler, Keyes, Robertson, 1991).

La gravidanza provvisoria si riferisce ad un concetto più ampio, che vede nella relazione materno-fetale un importante fattore predittivo: si tratta dell’Attaccamento Prenatale, caratterizzato da una serie di comportamenti che rappresentano interazione e coinvolgimento affettivo da parte della gestante verso il bambino che attende (Cranley, 1981). Questa interazione madre-bambino così precoce, assume notevole importanza in quanto è stato dimostrato che, già a partire dal secondo trimestre di gravidanza, il bambino è in grado di apprendere e di interagire con gli stimoli provenienti dal corpo della madre e dell’ambiente (Righetti, Sette, 2000; Della Vedova, Imbasciati, 2005). L’ipotesi avanzata da Rothman circa la sospensione dell’investimento affettivo, ha trovato riscontro anche nella letteratura scientifica: l’attaccamento prenatale è risultato essere inferiore nelle donne che decidono di sottoporsi a test prenatali invasivi, rispetto a quello rilevato nelle donne che rifiutano tali test (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008).

Da non sottovalutare è l’aspetto religioso e culturale, che può rappresentare un ostacolo alla presa di decisione delle procedure diagnostiche, poiché si configurano come dogmi assoluti da rispettare: si pensi ad esempio alla fede religiosa, alle posizioni pro vita, alla paura di complicazioni o di poter, tramite le procedure diagnostiche, ferire il bambino. Queste convinzioni, possono ostacolare la consapevolezza della decisione di scegliere o meno una procedura diagnostica (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008).

I risultati della diagnosi prenatale: le reazioni psicologiche

E se il test è positivo?

Dopo la difficile scelta di approfondire le indagini diagnostiche, i futuri genitori potrebbero trovarsi di fronte al responso di cui avevano tanta paura: la formulazione della diagnosi. In genere questa prevede, accanto alla denominazione del problema e alla sua spiegazione, una serie di possibilità di intervento sul bambino o sulla gravidanza, che vanno dalla terapia farmacologia (ad esempio, in caso di infezioni), alla chirurgia fetale (ad esempio, in casi di malformazioni operabili), all’aborto terapeutico (ad esempio, in caso di gravi malformazioni del feto che lo rendono incompatibile con la vita), all’accettazione incondizionata (ad esempio, in caso di feto affetto da trisomia 21, anomalia cromosomica compatibile con la vita, ma con un elevato numero di patologie in possibile comorbilità).

Ognuna di queste decisioni comporta non solo un momento di grande difficoltà emotiva, ma anche la necessità di prendere una decisione importante alla quale non tutti sono in grado di rispondere. Informare correttamente la coppia, supportarla nella scelta e fornire un adeguato sostegno psicologico, sono aspetti fondamentali della restituzione della diagnosi fetale e della decisione terapeutica che ne consegue.

In un recente studio che indaga l’impatto della diagnosi prenatale sulla coppia, è emerso che il risultato positivo del test provoca forte preoccupazione e shock nei genitori, e che lo stress diminuisce con un servizio di counseling nei giorni immediatamente successivi al responso del test (van der Steen, et al., 2016). Un altro studio ha dimostrato che i genitori che hanno ricevuto diagnosi prenatale di patologia fetale, riportano elevati livelli di ansia e stress al momento del parto, ma che esperiscono anche gratitudine per aver avuto il tempo di imparare di più sulla patologia del proprio figlio (Brosig, 2007).

I livelli di ansia e depressione delle madri che hanno ricevuto diagnosi di anomalie fetali, sono inoltre paragonabili a quelli di pazienti con episodio depressivo maggiore (Leithner et al., 2004).

Conclusioni

Conoscere le possibili implicazioni psicologiche delle procedure diagnostiche e dei risultati che ne conseguono rappresenta un dato importante non solo dal punto di vista scientifico, ma soprattutto dal punto di vista pratico: il susseguirsi di studi sul tema e le scoperte che ne sono scaturite, evidenziano da una parte la necessità di conoscere l’impatto psicologico di queste pratiche non solo per gli psicologi, ma anche e soprattutto per le figure professionali che gravitano intorno alla donna in attesa, dall’altra forniscono numerosi dati sui quali è possibile impostare sia dei programmi di prevenzione della salute psicologica, sia di intervento mirato alle situazioni in cui si manifesta una difficoltà conclamata. Un intervento che integri informazione, sostegno e contenimento emotivo, potrebbe rappresentare un valido strumento di supporto alla coppia in attesa (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008).

Conoscere questi aspetti dovrebbe avere come diretta conseguenza una serie di servizi mirati da inserire all’interno delle strutture che si occupano della salute della gestante e del bambino. In particolare sarebbe interessante sviluppare:

  • Un programma di supporto della coppia nella fase di screening, che li aiuti a prendere una decisione consapevole, fornendo loro tutte le informazioni necessarie e supportandoli in qualsiasi scelta prendano
  • Un programma di screening psicologico della coppia e della gestante, che focalizzi l’attenzione sugli aspetti psicologici delle decisioni diagnostiche e dell’eventuale diagnosi, mirando a indirizzare chi ne manifesta la necessità ad un professionista della salute psicologica
  • Un programma di intervento psicologico mirato alla coppia e alla donna che, ricevuta la diagnosi, decide di intervenire sul feto o di interrompere la gravidanza
  • Un programma di supporto alla genitorialità e alla coppia che decide di portare a termine la gravidanza, nonostante l’handicap del proprio bambino.

L’auspicio è proprio quello di arrivare a garantire una migliore assistenza psicologica delle gestanti e delle coppie in attesa, al fine di ridurre al minimo il rischio psicopatologico e la sofferenza emotiva in generale sia durante le fasi di screening e di diagnostica, sia dopo l’eventuale esito positivo, mettendoli in condizioni di scegliere nel modo più consapevole possibile come intervenire sul bambino e come, eventualmente, affrontare la loro vita con o senza di lui.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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