Una delle varie versioni sull’origine dell’espressione “guerra fredda” risale ad un articolo di George Orwell scritto dopo la Conferenza di Mosca del 1946 in cui si sanciva l’irreparabile scissione tra blocco americano e sovietico.
A fini di puro divertimento teorico, ci verrebbe da dire che l’uscita dell’ICD-11 (2018), dopo le polemiche successive all’uscita del DSM-5 (2013), ha sancito una sorta di guerra fredda tra sostenitori dei modelli sulla personalità basati sui tratti ed i loro avversari, ben rappresentati da coloro che parteggiano per modelli di funzionamento basati su schemi.
Il Dilemma della Diagnosi
Partiamo dal problema centrale. Per quanto la tiriamo per le lunghe con domande e questionari, si arriva al punto di capire se e in che termini formulare una diagnosi e condividerla col paziente. Da un lato infatti sembra impossibile, se non controproducente, abbandonare un linguaggio comune nel parlare di problematiche psicopatologiche (Craddock & Mynors-Wallis, 2014). Dall’altro, la categoria diagnostica è necessariamente vincolata ad un sistema culturale nel quale si definisce e quindi sancisce cosa sia patologico e cosa no (Laing, 1960). Dal nostro punto di vista, tutte le possibili alternative di assessment servono nella misura in cui aiutano il clinico ad una formulazione il più possibile accurata e sensatamente condivisa col paziente stesso del suo funzionamento (Dimaggio, Ottavi, Salvatore e Popolo, 2019).
Ed il funzionamento della personalità è tanto vasto quanto l’esperienza umana e pertanto difficilmente riconducibile a categorie stringenti ed univoche. E qui abbiamo un primo caveat sui tratti (e gli schemi, le dimensioni, i processi, etc.), laddove definiti come ingredienti immutabili e statici.
Le Grandi Sfide Irrisolte del DSM-5 e dell’ICD-11
Nel tentativo di superare il paradigma nosografico categoriale i due maggiori sistemi di classificazione hanno proposto modelli sicuramente non conclusivi. Il DSM-5 (APA, 2014; First, Williams, Benjamin & Spitzer, 2017; First, Skodol, Bender & Oldham, 2018) offre un insieme estremamente variegato di alternative, potendo spaziare dal categoriale classico (le 10 diagnosi di personalità nella sezione II del DSM-5), a tre modelli alternativi di diagnosi presenti nell’Alternative Model of Personality Disorders – AMPD (sezione III del DSM-5) basati rispettivamente sulla scala dimensionale di funzionamento (suddivisa in 1 dominio del sé ed 1 interpersonale), sul sistema dimensionale puro con 5 domini patologici e 25 tratti, ed infine sul categoriale rivisto che prevede solo 6 diagnosi categoriali (schizotipico, narcisista, borderline, antisociale, evitante, ossessivo-compulsivo) lette alla luce dei due precedenti modelli.
L’ICD-11 ha invece optato per un modello presentato come totalmente innovativo, dove però troviamo nelle specificazioni vecchi nomi solo in parte rivisti (l’ossessivo-compulsivo diviene anancastico), ma soprattutto nei pattern definiti per tratti resta in mezzo alle nuove formulazioni il disturbo borderline bellamente invariato (WHO, 2018). Nel caso dell’ICD-11 infatti la diagnosi offre una valutazione del funzionamento diviso in tre categorie di severità (lieve, moderata e severa) più un’immancabile “severity unspecified”. Si definiscono poi 6 tratti o pattern prominenti di personalità di cui 5 (negative affectivity, detachment, dissociality, disinibhition, anakastia) ambiscono a rappresentare dimensioni sovraordinate a diverse sintomatologie, 1 scientemente mantiene immutata (disturbo borderline di personalità).
I tratti per come formulati in particolare nell’ICD-11 sembrano declinati in termini astratti con indicazioni estremamente generaliste (Dimaggio & MacBeth, 2019). Si pensi come ad esempio la definizione di negative affectivity rimandi ad un range di emozioni negative, suscettibilità emotiva e attitudine negativistica. Rispetto alle concettualizzazioni cliniche di uno schema cognitivo-interpersonale (Dimaggio ete al., 2019; Safran & Muran, 2000) le descrizioni offerte lasciano il clinico sprovvisto di un supporto operativo. Quel che sembra evidente è uno scollamento tra un filone di ricerca su base epidemiologica e psicometrica focalizzato sui tratti ed uno su base clinica e descrittiva che converge su schemi cognitivo-interpersonali.
La Guerra Fredda tra Schemi e Tratti
E qui giungiamo alla guerra fredda. Da un lato abbiamo una nutrita schiera di clinici che vanno da Otto Kernberg a Ueli Kramer passando per molti autori nostrani che criticano fortemente le basi teoriche ed applicative del modello a tratti. Tali critiche sembrano corroborate dall’uso nell’ICD-11 di una sorta di labelling volutamente generico non dissimile dalle descrizioni presenti in un studio di analisi fattoriale e quindi ben lontano dalla pratica clinica. Dall’altro lato autori come Cristopher Hopwood e Robert Krueger dedicano da oltre 15 anni un’attenzione costante ad integrare i dati emersi dagli studi psicometrici con modelli clinici raffinati. Se pensiamo ad esempio al razionale dell’AMPD troviamo concettualizzazione ben lungi da riflessioni statistiche come il modello circomplesso di Pincus (2005) ed evolutivo di Blatt (2008).
Il reciproco posizionamento tra questi due opposti schieramenti ricalca un po’ le dinamiche di una guerra fredda e si sviluppa a partire dalla pubblicazione del DSM-5 e dell’ICD-11. Nel 2013, l’APA giunse ad una sorta di concordato tra opposte fazioni che da un lato volevano il mantenimento del vecchio sistema diagnostico, dall’altro propugnavano un nuovo sistema dimensionale, dall’altro ancora chiedevano un maggior peso di modelli clinici piuttosto che statistici. La presenza di fazioni in forte belligeranza portò alla definizione di un modello standard in cui le innovazioni erano minime (sezione II) ed uno innovativo (AMPD; sezione III). La guerra tra schieramenti nella World Health Organization (WHO) ha invece portato a rimandare di mese in mese e di anno in anno l’uscita del nuovo sistema diagnostico erroneamente presentato come risolutivo (ICD-11). La vittoria della fazione dei tratti-sti sugli schemi-sti ha richiesto un costo enorme in termini di chiarezza operativa e di scelte a dir poco politico-diplomatiche: dal mantenimento del disturbo borderline di personalità all’uso di descrittive così vaghe da esser assai poco utilizzabili da un clinico.
Presente e Futuro dell’AMPD
Confessiamo che anche tra le quattro mani che scrivono le idee non sono del tutto concordi! Lasciamo al lettore chi sia a favore dei tratti e chi contro! Su almeno tre punti però pensiamo si possa trovare una base comune per portare avanti la ricerca sulla personalità ed i suoi disturbi.
Studi psicometrici, epidemiologici, psicodinamici, cognitivisti, ‘terzondisti’ ed integrativi sembrano concordare su un punto: è necessario aver ben chiaro un livello di funzionamento globale della personalità da cui partire per effettuare una diagnosi. Non solo, se confrontiamo il modello I dell’AMPD basato sul funzionamento del sé ed interpersonale, con le origini teoriche a cui fa riferimento (Blatt, 2008; Pincus, 2005), con approcci clinici come le psicoterapie metacognitive (Dimaggio et al., 2009; Lysaker & Klion, 2019; Morritz et al., 2011) e con costrutti generali di psicopatologia presenti in tutta la Terza Onda della CBT (e.g. mindfulness; compassion; etc.) non possiamo non scorgere un trait d’union. Per formulare una diagnosi si deve comprendere come la persona si relaziona a se stessa ed agli altri senza troppi preconcetti o stereotipi.
Secondo, a prescindere dalle diverse fazioni e schieramenti, se sleghiamo la formulazione del caso dal vissuto del cliente e dal suo funzionamento, usando label astratti e considerati statici ed immutabili a ben poco servono tratti e schemi. Le componenti di una personalità sono elementi dinamici, in continuo mutamento, per natura transitivi e transitori. Pertanto la diagnosi non è un processo di scoperta di un dato oggettivo, quanto un’osservazione partecipe di un funzionamento al contempo personale ed interpersonale.
Terzo, il sistema diagnostico dell’AMPD offre una buona base di partenza che, per quanto complessa, può favorire sia una formulazione integrata del disturbo, sia l’avvio di ricerche finalizzate a interconnettere quanto già sappiamo con quanto ancora è ben lontano da esser compreso. La complessità di funzionamento della nostra personalità è tale da non poter essere indagata attraverso modelli o prospettive univoche, quanto piuttosto attraverso l’integrazione di paradigmi molteplici (Hopwood, Mulay & Wauhg, 2019). Se pensiamo ad esempio al criterio a, ovvero al modello I dell’AMPD, ne possiamo riconoscere subito la valenza transdiagnostica e transteoretica. Si ipotizza un continuum nel funzionamento di personalità che va da nessuna compromissione ad estrema compromissione (punteggi 0-4), apparentemente affine al modello dell’ICD-11. Diciamo apparentemente perché poi tale livello di gravità si declina lungo 4 domini, che mirano a comprendere se la persona manifesti un mondo psicologico sufficientemente complesso ed integrato. Da un lato il funzionamento del sé si articola nei domini dell’identità (ovvero del poter vivere un’esperienza unitaria di sé) e dell’autodirezionalità (ovvero quanto l’esperienza sia goal-oriented). Dall’altro il funzionamento interpersonale comprende l’empatia (definita come la capacità di comprendere l’altrui esperienza) e l’intimità (definita in termini di profondità e significatività dell’esperienza interpersonale). Possiamo quindi facilmente riconoscere come il criterio a sia originato e quindi facilmente declinabile nei più noti e moderni modelli dei disturbi di personalità (Hopwood, Mulay & Wauhg, 2019). Chiunque sia abituato a trattare con i disturbi di personalità sa che la comprensione del funzionamento passa necessariamente dalla comprensione degli schemi interpersonali, del proprio funzionamento interiore e della propria capacità di agency. E fattori generali ed ampiamente validati come la metacognizione e la mentalizzazione sono facilmente declinabili utilizzando i 4 domini del criterio a dell’AMPD.