La quotidianità nell’epoca contemporanea è fortemente “rumorosa”: assuefatti al chiacchiericcio costante della TV e della radio in diretta 24h, accerchiati dai sottofondi indistinti della filodiffusione negli ascensori, nelle sale d’attesa, nei ristoranti, spersi nel fracasso dei motori, delle sirene, dei clacson..
Basta chiudere gli occhi in un centro città per rendersi conto di essere prigionieri del fragore della modernità. Il nostro tempo sembra ammalato di una “fobia del silenzio”, si è costantemente in fuga da quello, lo si evita ad ogni costo. Eppure la dimensione del silenzio ci appartiene inesorabilmente, si configura come il principio e la fine di ogni parola, ciò che connette e ad un tempo separa, come le pause per le note.
Sul silenzio…che veicola messaggi nelle relazioni
David Le Breton, nel suo libro Sul silenzio, ci invita ad addentrarci nella polisemia dell’esperienza del silenzio, esaminandone con sguardo antropologico i significati culturali che lo connotano. Con la propensione a trattare l’argomento in modo enciclopedico, David Le Breton adopera uno stile che oscilla tra il didascalico ed il poetico, ci accompagna tra i temi del suono e del rumore, della parola e del gesto, del sacro e del profano. È impossibile giungere ad una definizione univoca del silenzio, il suo significato cambia a seconda del legame sociale nel quale siamo coinvolti; può generare disagio e imbarazzo oppure complicità ed intimità, riflettendo sempre la qualità della relazione in corso tra gli interlocutori. Il silenzio non è da intendere come mera “privazione del suono”, è ben lontano dal configurarsi come assenza. Esso piuttosto, come la pagina bianca, è denso di ogni suono o parola pronunciabile in potenza. La parola è amica del silenzio e quest’ultimo è la condizione stessa che rende possibile il linguaggio: è “respiro tra le parole”. Il suono ha origine dal silenzio ed in esso va a morire, trovando senso proprio in quella sospensione. Neanche l’immobilità è in grado di azzerare il suono, persino il nostro corpo fermo sussulta ai battiti del cuore, si muove con il respiro.
È invece la comunicazione fatica fine a se stessa, che mira solo a mantenere un contatto superficiale con l’altro, ad essere indifferente al significato delle parole, lontana quindi dal silenzio e più simile ad un rumorio sterile e vuoto.
[…] L’ideologia della comunicazione assimila il silenzio al vuoto, alla rovina, non riconoscendo che, talvolta, proprio la parola è la lacuna del silenzio (p. 16).
La capacità di gestire con maestria il saper parlare si accompagna al saper tacere, abilità necessarie per l’amministrazione del potere. Ogni dittatura riduce al silenzio la parola in grado di ostacolarne il predominio. C’è anche un silenzio che indica il limite del linguaggio, quando si incontra l’ineffabilità del sacro. La connessione tra il silenzio, il tempo della notte e quello della morte permea anche la nostra cultura, il nostro immaginario, sino a celebrare la memoria con il “minuto di silenzio” per sospendere gli accadimenti del mondo e generare un’esperienza collettiva, ma al contempo personale, di contatto con il defunto.
Sul silenzio.. in psicoterapia
La riflessione su questa singolare natura del suono e della parola, che hanno per compagno il silenzio, diventa particolarmente interessante se calata nella stanza di analisi. Ogni terapeuta conosce l’importanza ed anche, talvolta, la difficoltà del rimanere in silenzio con il paziente, rompendo con la convenzione sociale che spinge a mantenere il contatto in modo esclusivo con la parola. Il silenzio del terapeuta agevola l’attenzione del paziente a rivolgersi esclusivamente su di sé, a contattare il proprio mondo. Per questo il terapeuta è muto rispetto alla propria storia, ad eccezione degli autosvelamenti orientati però sempre secondo il criterio dell’utile per il paziente. Il segreto professionale esprime già la presenza del silenzio, vincolando immediatamente l’alleanza tra terapeuta e paziente in una vicinanza asimmetrica tra i due. Sa bene, il terapeuta, quanto la gestione delle pause sia necessaria a conferire valore e peso ai propri interventi.
Quanto più una parola desidera toccare l’altro, raggiungerlo in profondità, al punto di modificare il suo pensiero o il suo rapporto con il mondo, affinché la sua libertà ne risulti accresciuta, tanto più quella parola deve essere carica di silenzio. Una simile parola respinge la chiacchiera e, più ancora, l’insignificanza (p. 201).
La pausa indica il tempo in cui avviene l’elaborazione del messaggio, l’interiorizzazione forse di un discorso che dallo spazio esterno del ‘noi’ si sposta in quello privato del ‘me’. Il rapporto che il terapeuta intrattiene con il silenzio è centrale per orientare la sua qualità di presenza che si manifesta nella relazione terapeutica modulando gli aspetti taciti del dialogo. Come quando David Le Breton, riferendosi alle tradizioni legate al culto del sacro, parla del “maestro di senso” così il terapeuta deve poter essere strumento per l’altro, consentendogli di scovare in autonomia la propria verità personale, sorretto e contenuto da una presenza silente in grado di orientare senza dirigere.
Il maestro di senso è compagno di viaggio nella conduzione di una ricerca personale, mentre il maestro di verità insegna un cammino unico di cui il discepolo intende appropriarsi. […] Assumendo una posizione di ritiro attivo, il maestro di senso lascia al proprio allievo un margine di manovra, aprendogli così la via alla curiosità nei confronti del mondo (p. 203 – 204).
Il “ritiro attivo” ricorda il “silenzio attivo” a cui ricorre Le Breton per descrivere il tacere dell’analista, dando forma ad un silenzio gravido di tensione che sostiene la vigilanza del paziente. Si pone attenzione ad una dimensione del sentire che va oltre l’ascolto, che lo contempla soltanto come una parte e che pone in primo piano la comunicazione meno controllabile (come il silenzio) del corpo, quella che si esprime attraverso la mimica, la postura, la gestualità, la gestione dello spazio.
Sul silenzio nel dolore e nella patologia
Disporsi al silenzio significa mutare la velocità dello scorrere del tempo, rallentare il processo, favorire una messa a fuoco in grado di sostare sulle immagini addentrandosi in esse. Anche il malessere può esprimersi attraverso la forma del silenzio, basti pensare al mutismo selettivo o al bambino psicotico mutacico che nel silenzio delinea il ritiro simbolico dal legame sociale. Oppure il silenzio, nella forma del segreto familiare taciuto, può costituire l’origine del disturbo, quando il non-detto continua a perturbare chi sa e non può parlare, con ripercussioni su chi è all’oscuro e cerca, attraverso un sintomo, di colmare un vuoto di senso, una lacuna nella storia che non consente di procedere oltre.
Interagire con il silenzio, esplorare il rapporto privato che si ha con quello, notare la nostra tendenza alla fuga o alla ricerca di quel suono senza parole, diventa centrale per includere nello spazio della consapevolezza una dimensione dell’esperienza intima, privata, fucina della propria identità. David Le Breton è riuscito nell’intento di parlare del silenzio, un proposito che rasenta l’ossimoro, sostando abilmente nei contrasti e nell’ambiguità del tacere.
Il silenzio non è mai una realtà in sé, ma è una relazione, donandosi all’interno di un rapporto con il mondo (p. 240)
Lentamente si scorgono segni che annunciano una riscoperta del valore del silenzio, una rivalsa della lentezza, del gusto pieno dell’esperienza sensoriale, in aperto contrasto con l’imperativo della connessione a tutti i costi, della velocità, del multitasking (la grande illusione del nostro tempo). Le Breton invita a coltivare un silenzio che conferisce senso alle cose, che non ha un luogo d’elezione per essere coltivato. Sembra trattarsi, piuttosto, di un habitus da indossare, di una disposizione dello spirito. Per questo è possibile stare in silenzio anche in mezzo al frastuono della mondanità, senza l’obbligo di evadere dalla contemporaneità.