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Riscrivere le memorie funziona: un aiuto – vero – dalle neuroscienze

Un recente esperimento definisce le basi e i processi neuronali che supportano l’uso di tecniche immaginative nel trattamento delle memorie traumatiche.

Di Guest

Pubblicato il 14 Mar. 2019

Affinché sia possibile l’elaborazione di un trauma, è importante che la traccia originale delle memorie traumatiche, localizzata nel nucleo dentato dell’ippocampo, venga riattivata perché si possa verificare la riduzione della paura remota ad essa connessa. In terapia questo trova applicazione nell’uso di tecniche immaginative con il paziente.

Delia Lenzi

 

Un esperimento del gruppo di Neuroscienze di Losanna guidato dal Prof. Johannes Gräffur definisce le basi e i processi neuronali che supportano l’uso di tecniche immaginative (Khalaf et al. Science, 2018) e ne dimostra l’efficacia. In questo esperimento sono state usate tecniche molto sofisticate capaci di localizzare prima e di studiare poi, in-vivo, i singoli neuroni del nucleo dentato dell’ippocampo dei topi, l’area coinvolta nella funzione di codifica, richiamo e riduzione della paura.

I topi sono stati geneticamente modificati inserendo nel loro DNA un gene “reporter”, cioè una proteina fluorescente (i geni sono le istruzioni per produrre proteine), che produce un segnale identificabile e misurabile ogni volta che il neurone si attiva. I ricercatori hanno quindi sottoposto i topi a una serie di stimoli dolorosi (shock elettrici) per indurre memorie traumatiche a lungo termine e hanno identificato la sottopopolazione di neuroni del nucleo dentato coinvolta nell’immagazzinamento di questo tipo di memorie.

A seguire, i topi sono stati sottoposti ad un training di riduzione della paura, simile a quello di esposizione utilizzato nei soggetti umani: passavano alcune sessioni nella gabbia dove erano stati “traumatizzati” ma senza lo stimolo doloroso.

Sorprendentemente, quando i ricercatori hanno guardato nuovamente nel cervello dei topi, hanno riscontrato che quelli che guarivano più velocemente erano i topi che durante l’esposizione avevano attivato maggiormente i neuroni contenenti la memoria del trauma.

Questo dato ha fatto ipotizzare che tale popolazione di neuroni fosse coinvolta sia nell’immagazzinamento che nel processo di attenuazione delle memorie traumatiche. Come controprova i ricercatori hanno ridotto selettivamente l’eccitabilità di questi neuroni contenenti la memoria traumatica durante la terapia espositiva e riscontrato che questi topi non mostravano attenuazione della paura (misurato in secondi di freezing), cosa che invece avveniva nei topi non modificati. Come controllo è stata ridotta l’eccitabilità di altre aree dell’ippocampo e questo effetto non si verificava. Infine, aumentando l’eccitabilità dei neuroni durante l’intervento terapeutico, il topo mostrava un’aumentata riduzione della paura.

Questo insieme di esperimenti ha dimostrato, in sintesi, che la traccia originale mnemonica della paura, localizzata nel nucleo dentato dell’ippocampo, deve essere riattivata affinché si possa verificare la riduzione della paura remota ad essa connessa.

Si tratta di dati che, è importante sottolineare, appaiono solidi e nitidi come di rado accade nell’ambito delle neuroscienze cognitive, dove spesso le difficoltà dovute alle infinite variabili e alla localizzazione di ciò che studiamo rendono gli studi sperimentali così complessi da essere difficilmente riproducibili.

Che implicazioni hanno questi risultati per la psicoterapia?

Negli umani, le memorie traumatiche – principalmente di tipo relazionale – sono la causa trasversale di numerose patologie psichiatriche; è stimato che circa un terzo della popolazione mondiale soffrirà di disordini legati allo stress o alla paura durante la loro vita.

Le immagini mentali legate ad esse sono componenti fondamentali dell’esperienza interna del paziente e ci forniscono dati importanti per la comprensione della sofferenza emotiva ma soprattutto sono un accesso vivo al sistema dei significati ad esse legati. Per questo le tecniche espositive ed immaginative con riscrittura delle memorie traumatiche sono tra le più efficaci e recentemente sono tornate in auge nella comunità cognitivista. (Hackmann, Bennett-Levy e Holmes, 2014; Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, 2019).

L’imagery consiste nel fare rievocare al paziente con l’immaginazione ricordi dolorosi del passato per poterli rielaborare e reinterpretare. In Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI) le tecniche di immaginazione sono uno strumento molto utilizzato per condurre il paziente verso la costruzione di schemi interpersonali più adattivi. La potenza di questa tecnica deriva dal fatto che può essere applicata a diverse fasi della terapia e all’interno di diverse procedure (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore 2019).

Quando in TMI (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) raccogliamo uno o più episodi narrativi facciamo una prima operazione di ricostruzione degli schemi disfunzionali alla base della sofferenza. L’episodio narrativo è un evento preciso, localizzato nel tempo e nello spazio, che ci permette di far emergere in modo chiaro e non distorto da generalizzazione ed intellettualizzazioni cosa il paziente prova in quel tipo di situazioni e in relazione agli altri. Ciò che ci interessa dell’episodio è la componente interpersonale: sulla scena appare il paziente, con un desiderio attivo (es. vorrei sentirmi amato), e l’Altro che nello schema patogeno solitamente risponde al desiderio in maniera disfunzionale (es. non è interessato), creando nella memoria del paziente previsioni “se… allora” del tipo: se desidero essere amato… incontro un Altro che non mi ama.

Utilizzare le tecniche immaginative sulle memorie relazionali che corrispondono agli schemi disfunzionali porta il paziente prima ad individuare in modo chiaro le varie componenti che li compongono: l’immagine di sé e le emozioni ad esse connesse e poi permette di modificare l’immagine di sé all’interno dello schema e non ultimo ad identificare risorse e parti sane che promuovono la comprensione della mente altrui e il decentramento. Questi sono gli elementi fondamentali per la costruzione di schemi interpersonali più funzionali e adattivi.

Detto in termini neurobiologici ipotizziamo – forti dei risultati dell’esperimento descritto – che attraverso l’immaginazione guidata stiamo riattivando i neuroni del nucleo dentato del paziente, custodi della memoria relazionale traumatica, per ridurre l’attivazione ansiosa ad essa connessa e preparare il campo per una nuova memoria relazionale.

E non stupiamoci se l’immagine che abbiamo di noi in questo momento è di un chirurgo sul campo operatorio.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., (2013). Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore G,. (In Press, 2019). Corpo immaginazione e cambiamento. Terapia Metacognitiva Interpersonale. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Hackmann, A., Bennett-Levy, J., Holmes, E.A. (2014). Le tecniche immaginative in psicoterapia cognitiva. Firenze: Eclipsi.
  • Khalaf, O., Resch, S., Dixsaut, L., Gorden, V., Glauser, L., Gräff. J. (2018). Reactivation of recall-induced neurons contributes to remote fear memory attenuation. Science, 2018; 360 (6394): 1239.
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