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Favola psicoeducativa – Un racconto di Fantapsicologia

La società moderna è sempre più orientata non solo alla ricerca del bello ma anche alla sua ostentazione, ciò ha un effetto sul benessere dell'individuo.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 05 Mar. 2019

Aggiornato il 09 Apr. 2021 14:46

Dove nasce il concetto di bellezza spesso esaltato in molte favole? E per quale motivo è così importante raccontarci che tutti, bambini e futuri adulti, prima o poi raggiungeremo questo ideale di bellezza?

 

Ai bimbi brutti, perché, sia detto per inciso, esistono anche i bimbi brutti che appaiono tali a tutti tranne che alla mamma affetta dal noto bias dello “scarafone” sviluppatosi a protezione della diversità genetica contro l’affermarsi dell’eugenetica fai da te da cassonetto, è da sempre raccontata la consolatoria favola del brutto anatroccolo, il quale comunque i suoi guai li aveva essendo stato abbandonato in un altro nido da mamma cigna, forse perchè frutto di una relazione extraconiugale infrequente nel monogamo mondo dei lunghi colli pennuti.

La favola comunque non mette in discussione il valore assoluto della bellezza ma anzi lo esalta. L’effetto rassicurante che genera nei bambini e nei preadolescenti impegnati negli inquietanti mutamenti del corpo è dovuto a due argomentazioni che sembra suggerire. La prima, evidentemente fallace, suggerisce che la bruttezza sia transitoria come l’influenza che prima o poi passa quando evidentemente non è così: se si è brutti tali si resta e semmai si può anche peggiorare sovrapponendoci le stimmate fisiche e psicologiche della tristezza e della rabbia per la propria condizione ritenuta ingiusta. La seconda, più sofisticata e meno evidente, è che la bellezza è un concetto relativo dipendente dai criteri dell’osservatore che cambiano da persona a persona (“dipende dai gusti”) e ancora più evidentemente da un epoca all’altra e da cultura a cultura.

Insomma non è che i cigni siano belli e le anatre no o viceversa, semplicemente ognuno apprezza i propri simili e tende a rifiutare e maltrattare i diversi soprattutto se arrivano dall’acqua (con ciò non si vuole paragonare Salvini ad un’oca, povere bestie!).

Naturalmente è facile identificarsi con il brutto anatroccolo perché ognuno di noi si sente un po’ brutto e suscita simpatia finché resta tale prima dell’impennata di orgoglio dello scoprirsi cigno che rischia rapidamente di rendercelo odioso.

Nella nostra cultura occidentale dove il narcisismo evaso dalle segregazioni nosografiche si è accasato all’attico dei valori esibiti sarebbe forse meglio raccontare ai bimbi belli e soprattutto alle bimbe belle sottocategoria “I only have it”, la favola della cigna farcita scritta da Kurt Andersen il fratellastro cattivo di Hans Christian cresciuto in orfanatrofio.

“I only have it”: non esiste solo la favola del brutto anatroccolo

Ciù Ciù era una cignetta nata nel nido giusto vezzeggiata da genitori e fratelli per la sua bellezza. Il collo che sembrava tracciato da Modigliani, fingendo modestia, lo nascondeva piegato sotto le grandi ali dalle penne candide e forti che boriosamente arruffate la assomigliavano ad una meringa da divorare. Il profilo del ciuffo di piume sul sedere, degno di una locandina di Tinto Brass, era consapevole fosse l’attrazione principale di tutto lo stagno. Tutti i maschi che la corteggiavano venivano sdegnosamente respinti, nessuno ritenuto degno di nuotarle a fianco, figuriamoci di montarle sopra. Godeva dell’invidia delle compagne per cui rappresentava un odiato benchmark. Le dighe e le canne si aprivano al suo passaggio, le ninfee fiorivano e odoravano in suo omaggio, tutto le era dovuto.

Non doveva preoccuparsi di niente, tutto le si porgeva come doveroso tributo alla sua bellezza. All’inizio ne gioiva ma col tempo le sembrò scontato iniziando ad irritarsi per le piccole mancanze e i ritardi di quanti presupponeva eterni servitori che prese a maltrattare.

Una stagione di siccità che non si ricordava a memoria d’uomo prostrò la contea: uomini e animali patirono la fame. Tutti preoccupati di ben altro trascurarono la bellezza di Ciù Ciù e i servigi nei suoi confronti cessarono. Del resto anche lei era smagrita e le morbide curve del suo corpo si erano inspigolite, la lucentezza delle piume opacizzata e il nero del becco ingrigito. Ovviamente era fieramente single e in una specie assolutamente monogama come quella dei Cigni divenne difficile persino concedersi un’avventuretta con i compagni delle altre che la guardavano in cagnesco per la sua passata spavalderia.

Spinta dalla fame si avvicinò alla fattoria per beccare nella ciotola di Artù il cane del fattore, non le sembrava giusto che avesse tutto quel cibo. Il pastore maremmano non la prese bene e la morse all’attaccatura dell’ala che da quel giorno iniziò a trascinarsi pendente. Ma la sua fiera ribellione, pensò, doveva pur essere servita a qualcosa perchè da allora i contadini preparavano ogni giorno un pappone di segale e granturco soltanto per lei in un piccolo recinto ai bordi dello stagno dove nessuno poteva sottrarglielo.

Non credo per i cigni si usi questo termine, ma il drammatico “insight” lo ebbe i primi di dicembre quando si rese conto che ormai da mesi tutti i tacchini erano stati venduti ai ricchi che potevano permetterseli e il Natale era alle porte. Indurita com’era necessitò di una cottura molto prolungata, che non bastò a evitare la sentenza del piccolo Mario “fa proprio schifo!”.

 

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