La fine di una relazione d’amore può essere causa di una sofferenza immensa, capace di attivare nel cervello le stesse aree cerebrali coinvolte nella dipendenza e nel dolore fisico. Se si riesce ad andare oltre la sofferenza, la fine di una storia può costituire anche un prezioso momento di scoperta di sé.
“Voglio guarire da una delusione d’amore e tornare quella che ero”. Sguardo tagliente, 30 anni, Chiara ha una richiesta ben precisa.
Sono tantissimi i pazienti che nelle strutture pubbliche e private si rivolgono allo psicoterapeuta per sintomi depressivi dovuti a un lutto amoroso, ovvero alla fine di una relazione d’amore. Perché disamare, dimenticare chi lascia, è devastante. Come testimonia la ricerca con sempre maggiore evidenza, il rifiuto da parte del partner può condurre a una sofferenza immensa, assimilabile a quella del tossico-dipendente che non può accedere alla sostanza. Fisher (Rutgers University, 2010) ha studiato come, dopo una rottura, anche solo pensare all’amato attivi aree del cervello coinvolte nella dipendenza e nel dolore fisico: l’area tegmentale mediale del mesencefalo (che controlla la motivazione), il nucleus accumbens e la corteccia prefrontale (parti del sistema di ricompensa della dopamina associate alla dipendenza da sostanza) e la corteccia insulare e cingolata (associata al dolore fisico). Quando subiamo un abbandono o un rifiuto soffriamo con l’intero corpo, ci sentiamo incapaci di proseguire la stessa vita che ora ci appare svuotata, faticosa o impossibile.
Ma soprattutto, come testimonia la ricerca (Slotter, Gardner e Finkel, 2009), la rottura di una relazione d’amore conduce a una perdita di identità.
La storia di Chiara
Chiara vive da sola e lavora nel mondo dell’editoria, ha un modo di fare assertivo e deciso. Ha un corpo minuto ma sensuale, e si muove senza indugi, come se nella vita non dovesse chiedere permesso o scusa a nessuno.
Nelle prime fasi della terapia mi appare leggermente sfidante. Il primo giorno mi dice: “La immaginavo più alta e coi capelli meno rossi”. Mi studia accuratamente e a volte tenta di imporre qualche piccola regola (cambiamenti di giorno, di orario). Inizialmente la assecondo: so quanto è difficile fermarsi su quella sedia nella stanza di terapia. Col tempo capirò che per lei tentare di dominare tutto è un tentativo di non soccombere.
Quasi subito rimango colpita dal suo acume e dall’ironia. È una ragazza dinamica, intraprendente e impulsiva.
Mi racconta le tante relazioni amorose vissute dall’adolescenza in poi. Storie da cui, a suo dire, è sempre uscita “vincente”: è sempre stata lei a lasciare. Ho a volte la sensazione che mi racconti le sue vicende intime, ricche di dettagli sessuali, per mettermi alla prova e vedere se mi scandalizzo o la giudico. Mentre ne parla mi studia con occhio quasi clinico, sta cercando di capire se potrà fidarsi di me. Mi racconta che da ragazza capisce quanto il sesso è un’arma potente per ottenere ciò che vuole: attenzioni, regali, viaggi, dedizione.
Le chiedo: Dove hai imparato che non è possibile chiedere senza dover dare qualcosa in cambio?
Lei ha già la battuta pronta: “I maschi vanno solo usati”, e lo dice mostrandomi orgogliosa una borsa costosa regalatale da un suo ex amante.
Poco più di un anno fa, nel corso di un “aperitivo di lavoro”, incontra Lorenzo, un po’ più grande di lei, sposato. Ma la cosa, dice, non la turbava: “Niente che non avessi già fatto prima o che non sapessi gestire. Credevo”.
Mi racconta con aria trasognata dei primi incontri, dei battibecchi per chi dovesse scegliere la musica da ascoltare in macchina perchè “lui aveva gusti orribili, Baglioni e altra roba melensa che giusto alle fiere di paese”. Prosegue: “Litigavamo anche per la tv! Mi è toccato vedere un sabato sera un documentario pesantissimo sulla Resistenza, ma le pare? Eppure abbracciata a lui stavo così bene… persino in questo quadretto da pensionati! Chi me lo doveva dire a me che sono sempre stata l’anima delle feste… Vedesse certe mie foto ai tempi d’oro!” La sua risata è nervosa, ma sempre contagiosa. È così che dopo alcuni mesi si rende conto di “essersi innamorata follemente, come non era mai capitato prima”. Si sente travolta, fino alla paura e all’annullamento di sé : “Facevo di tutto per vederlo, guidavo anche un’ora per beccarlo 5 minuti nella sua pausa caffè dal lavoro. Appena lui era libero io mollavo tutto ovunque fossi. Ho smesso di andare in palestra perchè temevo di perdere i suoi messaggi mentre ero in sala attrezzi. A un certo punto non ce l’ho fatta più. Ho cominciato a pregarlo di lasciare la moglie. Lui per un po’ mi ha fatto credere che lo avrebbe fatto”.
La relazione d’amore con Lorenzo è durata un anno. Ormai non si vedono più da un paio di mesi: quando Chiara si era fatta insistente e “pressante” lui ha interrotto ogni contatto e l’ha bloccata sul telefono. Lei si è comprata una seconda scheda da cui controlla i suoi ultimi accessi su whatsapp per l’illusione di avere ancora qualche contatto con lui. Guardando la schermata, se lui è online o meno, lei prova a immaginare dov’è Lorenzo, che fa. Mi dice che una settimana fa lui ha messo come immagine profilo una foto in cui è abbracciato alla moglie. Mentre parla il suo sguardo diventa di colpo opaco, il respiro accelera, gli occhi appaiono febbricitanti, ha un tremore. Il pianto si fa inconsolabile.
La vedo disarmata e nuda, e capisco quanta fatica ci vuole giorno per giorno a tenere dentro di sé questa angoscia, provando a schiacciarla e comprimerla con questi modi scanzonati, ironici, beffardi. Sento tutta la sua delusione, la sua rabbia, l’umiliazione di essere rifiutata e gettata via come una giacca che non ti piace più, fuori moda o fuori stagione.
Esplorando la sua storia di vita – e, lavorando in ottica sistemica, esplorando anche il trigenerazionale – apprendo che sua nonna era nota in famiglia come una donna “dominante”, che teneva suo marito “al guinzaglio”, e che Chiara si è sempre rivista in lei con fierezza. Mi parla invece di sua madre come di una “succube”, che non si è mai ripresa da quando il marito l’ha lasciata per un’altra, quando lei aveva circa 10 anni. “Ma ha fatto bene, mia mamma era una lagna”. Mi parla di sua madre con toni svalutanti, insofferenti, sarcastici. Del padre invece parla con ammirazione, anche se non lo vede di frequente. Con un velo di idealizzazione che però un giorno viene squarciato: “Quando ho compiuto 13 anni mio padre mi promise di portarmi a una mostra di Van Gogh, che adoravo. Mi preparai con molta cura. Lo aspettai con emozione, a lungo. E invece lui se ne era dimenticato”. In quel momento i suoi occhi si fanno lucidi e sfuggenti, cerca di trattenersi ma ormai è tardi, il trucco nero sbava sul viso impastato alle lacrime. Poi si riprende : “Quello che mi ha fatto più male però fu lo sguardo di mia mamma. Balbettava nel dirmi che papà non sarebbe venuto, inventava scuse per lui. Non voleva vedermi ferita. Quando ci penso mi sento in colpa: mi voleva proprio bene”.
Lungo la terapia Chiara dovrà entrare in contatto col dolore provocato dall’abbandono del padre, così come con la rabbia che non si è mai concessa di provare contro di lui. Non voleva sentirsi vulnerabile, abbandonata. Preferiva condannare la madre, che quasi “se l’era meritata”.
Eppure avevo la sensazione che dietro la rabbia sbandierata verso questa donna ci fosse altro. Forse il voler fuggire da una relazione d’amore all’altra senza mai rimanere nel rapporto (almeno fino a Lorenzo) tenendo – apparentemente – le redini di queste relazioni, non è solo un modo di incarnare il modello “vincente e dominante” della nonna contro quello “perdente” della madre. Potrebbe trattarsi, ad esempio, di un comportamento in qualche modo protettivo verso quest’ultima: come a dire che, in fondo, la relazione d’amore non è niente di desiderabile o comunque niente che possa essere gratificante a lungo termine, e che sua madre non si è persa chissà cosa. E anche la scelta di Lorenzo, un uomo sposato, si inserisce in questa scelta inconsapevole: lui non avrebbe mai potuto darle quello che lei vuole, e Chiara prima o poi si sarebbe ritrovata sola e delusa, proprio come sua madre.
Chiara fa un sogno ricorrente che spiega molte cose: cammina lungo un corridoio buio cercando trafelata qualcuno, e percorrendolo apre delle porte, una dopo l’altra. Dietro ogni porta trova uno specchio, cerca il suo riflesso ma lo specchio le restituisce un’immagine in cui lei non c’è: una stanza vuota. Continua, porta dopo porta, specchio dopo specchio, finché al termine del corridoio apre l’ultima porta, ma nello specchio non trova il suo riflesso bensì l’immagine di Lorenzo. Poi lo specchio si rompe e la stanza si trasforma in un burrone. Penso a quelle porte come alle sue relazioni. Storie vissute come tentativi di vedere se stessa e riconfermarsi nella sua immagine di donna “vincente” e protagonista, ma capaci solo di restituirle assenza e solitudine. Allo specchio dell’ultima porta, invece, vede Lorenzo. Come se nella relazione d’amore lei potesse cercare o solo se stessa o solo l’altro, non lei con l’altro.
Trovare se stessi nella fine di una relazione d’amore
Chiara – come tutti noi di fronte a una crisi che mette in gioco la nostra identità – sta imparando a scoprire chi è, aldilà dei ruoli che le hanno attribuito o delle caratteristiche che lei si è cucita addosso per non ascoltare quella sommersa e irrazionale credenza, legata al suo passato, che l’amore è pericoloso è che è meglio giocare e addomesticarlo. Credenza che poi – come i presagi più insidiosi del nostro inconscio – ha voluto dolorosamente confermare.
Costruiamo con lei uno spazio riflessivo in cui è possibile fermarsi e pensare, non solo agire. Attraverso i momenti di ipnosi che intervallano i nostri colloqui, navighiamo nelle acque del suo inconscio, sempre fervido e prolifico di immagini da scandagliare.
Proviamo a ritagliare uno spazio in cui è possibile ammettere di avere dei bisogni, come quello di essere amata, di appartenere a qualcuno. Quando si è piccoli e questi bisogni vengono delusi, infatti, è frequente che crescendo li si neghi del tutto a causa di un sentimento di vergogna e inadeguatezza.
Quando ci si riprende da un lutto d’amore, come nel caso di Chiara, si tratta in gran parte di un lavoro di integrazione: tra il bambino bisognoso d’amore che è in noi e l’adulto adattato e indipendente, o tra tutte quelle parti di sè che la persona sente di aver sperimentato per la prima volta con l’amato. Parti di sè che in realtà erano dentro di noi, che l’altro ha solo attivato. Parti o emozioni che abbiamo confinato nel rapporto con l’altro e che temiamo di non sentire più, mondi di cui riappropriarci. E parte del lavoro è anche perdonarci: crediamo che si è trattato di soccombere, ma forse è stato un modo per esplorarci, per andare a cercare queste nuove parti di noi. Chiara ha infatti scoperto la rabbia, che può essere una forza creatrice; la tristezza, che può dare un nuovo sguardo di profondità sulle cose; la tenerezza, quella che può provare e quella che può ricevere.
L’EMDR è un metodo standardizzato che ben si presta a lavorare con problematiche di lutto amoroso o dipendenza affettiva come quella di Chiara: attraverso la stimolazione dei movimenti oculari, questa tecnica permette di attenuare la carica emotiva dei ricordi. Si “desensibilizzano” dunque i ricordi felici (e oggi più dolorosi) con la persona amata e, attraverso la stimolazione bilaterale, si attenua il loro impatto emotivo, rendendoli più sfocati e apparentemente più lontani nel tempo. Mentre parallelamente si esplora ciò che per la persona ha significato la vicenda, si favorisce l’elaborazione dell’informazione grazie a questa tecnica che permette la sincronizzazione degli emisferi.
In una delle ultime fantasie guidate, attraverso l’ipnosi, Chiara immagina di rivivere quel sogno ricorrente e mi restituisce una bellissima immagine. Aprendo l’ultima porta di quel corridoio, questa volta allo specchio non vede nè il vuoto di quella solitudine insieme cercata e temuta, nè il volto di quell’uomo. Questa volta vede riflessa se stessa. Una Chiara che è ancora ironica e dissacrante – uno dei suoi lati più belli – ma si può soffermare a guardarsi. Può ammirare il suo sguardo tagliente, la bocca sottile, i tatuaggi che raccontano la storia che ha vissuto ma soprattutto quella che è ancora tutta da scrivere.
Nella vicenda di Chiara possono ritrovarsi tante e tanti di noi: un percorso doloroso dall’annullamento alla ri-definizione di sè. Alla ri-appropriazione della propria mente e del proprio corpo. Una liberazione da ricordi che erano trappole, una transizione e un affrancamento che riaprono il nostro respiro al mondo.
Nessuno sa dirlo come i poeti: è così, ad esempio, che chiude i conti Julio Cortazar:
Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
nè ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
nè qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
nè là fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.