Relazione terapeutica, empatia, ascolto, collaborazione, stile decisionale condiviso da paziente e terapeuta, non subito e non imposto: tutti elementi indispensabili per un trattamento di successo a lungo termine, attorno ai quali si gioca l’efficacia della psicoterapia e l’aderenza stessa al trattamento farmacologico, nelle patologie a carattere psicotico.
Questo il focus delle relazioni che si sono succedute il 29 Ottobre scorso nella cornice sontuosa del Mondello Palace Hotel, a Palermo, all’interno del Convegno dal titolo “La Relazione terapeutica in psichiatria”, promosso, tra le altre, dalla Società Italiana di Psichiatria sociale.
Un momento di alto valore scientifico utile per riflettere sull’importanza della relazione umana, prima ancora che sull’utilizzo di specifiche tecniche riconducibili a specifici orientamenti terapeutici. Emblematiche a tal proposito le relazioni di apertura dell’evento a cura di Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania “L. Vanvitelli”, Napoli e Serafino Di Giorgi, Dipartimento Salute Mentale ASL di Lecce, dedicati al ruolo della relazione terapeutica nel trattamento della schizofrenia.
In una prospettiva di psichiatria centrata sul cliente, la relazione terapeutica, elemento alla base di ogni atto medico, basata su ascolto ed empatia, svolge un ruolo centrale nel successo terapeutico, in quanto fattore aspecifico, trasversale alle differenti tecniche specifiche di un approccio, che influenza maggiormente la compliance ai trattamenti. In definitiva, è chiaro come non sia la psicoterapia con specifiche tecniche a essere efficace, quanto l’ascolto per il paziente e le sue esigenze, il suo coinvolgimento in ogni step della cura, soprattutto per gli interventi complessi, necessari in patologie gravi come la schizofrenia e il disturbo bipolare.
Un rapporto empatico e fiduciario che si salda attraverso una comunicazione aperta delle proprie esigenze, in cui la continua rivalutazione dell’efficacia dei trattamenti e delle “scelte” avviene alla luce di decisioni condivise, discusse e partecipate, nella cornice ideale di un decision making condiviso.
Esistono due tipologie di decision making clinico, parte integrante del processo di cura, che possono riguardare vari ambiti, dal lavoro alle relazioni sentimentali, alla gestione della terapia farmacologica. Da una parte le decisioni di tipo paternalistico, basate su raccomandazioni e informazioni, prese fondamentalmente dall’alto, utili in specifiche occasioni in cui, per esempio, le abilità o risorse del paziente siano lacunose, poiché questi si trova in un momento particolarmente intenso della sintomatologia, e un decision making condiviso, in cui la decisione sul trattamento deriva dalla concertazione dei punti di vista di paziente e terapeuta, e dal coinvolgimento dei familiari – sottolinea Gaia Sampogna, Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli – Adottare uno stile condiviso equivale a offrire al paziente la migliore assistenza, nel rispetto delle sue preferenze e valori, di modo che la responsabilità della decisione ricade tanto sull’operatore che sul paziente. È da sottolineare come le decisioni adottate utilizzando uno stile condiviso, importante per instaurare una buona relazione con i pazienti affetti da schizofrenia, si associno a un ridotto tasso di drop out e a esiti migliori a lungo termine, soprattutto in termini di funzionamento personale e sociale.
Una relazione terapeutica che diventa, quindi, asse portante dell’intera efficacia del trattamento, una fiducia da costruire con gli strumenti dell’ascolto e dell’empatia, nella co-costruzione di quelle scelte che definiscono la ri-costruzione funzionale di una vita orientata al benessere e all’accettazione, da generalizzare nei differenti contesti di vita, al di là dei limiti spaziali e temporali propri del setting terapeutico, lungo l’arco di vita della persona.