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L’ empowerment del paziente

Una delle caratteristiche fondamentali dell’empowerment è la partecipazione del paziente, che presuppone un maggiore coinvolgimento del paziente nel processo decisionale di cura. Le decisioni possono riguardare la condizione di malato, i trattamenti o anche il possibile sviluppo del servizio.

Di Giulia Marton, Laura Vergani

Pubblicato il 25 Ott. 2018

Aggiornato il 25 Giu. 2019 12:45

Negli ultimi anni il concetto di empowerment è passato attraverso molteplici e composite trasformazioni e, recentemente, ha acquisito un ruolo di crescente importanza all’interno della letteratura dedicata.

Giulia Marton, Laura Vergani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

A partire dall’anno 2000, il termine empowerment è stato usato nella stesura di 800 articoli e già nel 2017 il numero degli articoli dedicati all’argomento superava i 2500. In ambito medico si è riscontrato un aumento dell’uso del costrutto che è andato di pari passo con una maggior fruibilità di nuove ed inedite definizioni.

Le numerose sfaccettature del concetto rendono difficoltoso lo sforzo degli autori nel trovare una definizione che sia al contempo onnicomprensiva e condivisibile. 
Nonostante queste evidenti difficoltà classificatorie, la World Health Organization (WHO) nel 2012 ha cercato di fornire una sua definizione del concetto di empowerment che fosse condivisibile dai diversi autori. Secondo la WHO, l’ empowerment è un processo attraverso il quale le persone possono acquisire un maggiore controllo sulle decisioni e sulle azioni che riguardano la loro salute (World Health Organization. Regional Office for Europe, 2012a).

Il concetto è meglio spiegato dalla frase pronunciata da Robert Johnstone in occasione della prima conferenza europea sull’ empowerment dei pazienti tenutasi a Copenaghen nell’aprile del 2012:

Ciò che deve accadere è che i dottori scendano dal loro piedistallo e che i pazienti si alzino dalle loro ginocchia.

La conferenza ha conseguito una notevole risonanza internazionale: ben 260 le persone partecipanti, provenienti da 35 diversi paesi.

Secondo la World Health Organization, il concetto di empowerment è di fondamentale importanza per quanto riguarda le malattie croniche, di cui è affetto il 77% dei pazienti appartenenti ai paesi europei rappresentati dall’organizzazione (World Health Organization. Regional Office for Europe, 2012b). La U.S. National Center for Health Statistics afferma che una patologia, per essere definita cronica, deve avere una durata maggiore di 3 mesi (Center for Health Statistics, 2013). Le malattie di questo tipo non possono essere soggette a prevenzione tramite l’utilizzo di vaccini, non possono essere curate con procedure mediche e se non curate non presentano un decorso naturale spontaneo. Le malattie croniche più diffuse comprendono l’artrite, le malattie cardiovascolari, i tumori, il diabete, l’epilessia, l’obesità e la salute orale (MedicineNet, 2016).

Essendo l’ empowerment rivolto in special modo a questo problema, la sua diffusione può portare ad un cambiamento significativo nell’organizzazione dei sistemi sanitari e nell’assistenza offerta al loro interno oltre che ad un ripensamento del ruolo ricoperto dal paziente.

In particolare, l’ empowerment ha un grande impatto sulla gestione della condizione dei pazienti oncologici. Infatti, una delle tematiche emerse durate il “Forum Internazionale Sull’empowerment Del Paziente Oncologico”, tenutosi nel 2017 e promosso dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con Fondazione Umberto Veronesi, è che i pazienti oncologici sono i primi ad esprimere un desiderio di essere maggiormente coinvolti nel processo di cura.

Il tema dell’ empowerment in oncologia può anche essere considerato nell’ambito della prevenzione. Un atteggiamento più proattivo da parte del paziente e un coinvolgimento maggiore nella propria salute, infatti, può portare ad un’attenzione maggiore al piano di prevenzione. In una ricerca condotta dall’Istituto di Ricerche SWG viene evidenziato un dato allarmante: solo il 4% dei pazienti oncologici riceve una diagnosi durante una visita di controllo.

Durante la conferenza, Guja Tacchi dell’Istituto Ricerche SWG, pone l’attenzione proprio su questo aspetto:

Alla comparsa dei sintomi 8 malati su 10 si rivolgono al medico, di cui il curante nel 60% dei casi è la prima figura di riferimento, mentre per il 47% l’oncologo è il professionista più adatto a comunicare la diagnosi. Riguardo l’ empowerment, la partecipazione attiva alla cura è percepita molto importante da 7 pazienti su 10, tuttavia meno della metà (47%) degli intervistati dichiara di essere pienamente consapevole del proprio percorso terapeutico, contro oltre un quarto che lo è poco o affatto.

È proprio questa mancanza di consapevolezza che evidenzia come il sistema sanitario in Italia e, insieme, l’atteggiamento dei pazienti debbano ancora essere coinvolti in una presa di consapevolezza.

La situazione italiana, in particolar modo, risulta preoccupante: l’Italia si classifica infatti solo penultima tra i paesi che affrontano in questo modo la malattia, seguita solo dalla Spagna. Il dato risulta particolarmente interessante se si considera che l’approccio ad una patologia diffusa come il cancro sta subendo importanti miglioramenti: in Italia la sopravvivenza è aumentata passando dal 39% negli anni ‘90 al 54% del ventennio successivo in un campione maschile di pazienti. Un incremento minore ma significativo è avvenuto nel campione di pazienti donne, dal 55% al 63% (AIOM, AIRTUM Fondazione, 2017). Questo accrescimento è dovuto a un incremento dei progressi scientifici che hanno alzato il tasso di sopravvivenza a 5 anni in più rispetto agli altri paesi europei.

Importanti, a questo proposito, le parole di Gabriella Pravettoni, direttore della divisione di psiconcologia all’Istituto Europeo di Oncologia e professore ordinario di psicologia delle decisioni presso l’Università degli Studi di Milano

Oggi, quando si intraprende un percorso di cura occorre condividerlo con la persona che si ha di fronte a prescindere dal sesso, dall’età e dalle sue conoscenze in ambito medico. Comunicare è fondamentale, anche perché sempre più spesso dal cancro si guarisce. L’essere ascoltati, seguiti e accuditi dai propri familiari favorisce l’autoefficacia e riduce i livelli di ansia e preoccupazione collegati alla malattia.

Questo profondo cambiamento, per la sua insita radicalità e per la natura stessa della procedura, è necessario che si compia gradualmente e in un arco temporale piuttosto lungo per permettere un adattamento progressivo del sistema e del personale coinvolto.

Il processo di empowerment

Una delle caratteristiche dell’ empowerment che trova d’accordo i diversi autori (Castro, Regenmortel, Vanhaecht, Sermeus, & Hecke, 2016) è che la partecipazione del paziente è l’elemento focale di questo cambiamento.

Tritter (2009) identifica cinque diversi livelli di partecipazione del paziente: (1) partecipazione del paziente a decisioni riguardanti il trattamento; (2) il paziente può essere coinvolto nello sviluppo dei servizi; (3) può integrare con la sua prospettiva le valutazioni dei servizi; (4) può partecipare al training e alla formazione e (5) può decidere di partecipare in modo attivo alle attività di ricerca proposte nell’istituto.

La partecipazione dei pazienti è inoltre caratterizzata da un coinvolgimento maggiore nel processo decisionale alla loro cura a loro prescritta. Le decisioni possono riguardare, nello specifico, la propria condizione di malato e quindi i trattamenti da seguire (processo che si svolge anche attraverso il consenso informato) o anche decisioni riguardanti il possibile sviluppo del servizio. La partecipazione del paziente al processo decisionale potrebbe portare ad un impegno attivo (Castro et al., 2016).

Un ruolo più attivo del paziente richiede un duplice impegno, sia da parte del paziente che da quella dei professionisti della salute. Molti autori della comunità scientifica, infatti, sostengono che per promuovere la partecipazione del paziente al processo di cura sia necessario un lavoro che coinvolga tutto il team medico che deve considerare il paziente come un esperto (Tambuyzer, Pieters & Van Audenhove, 2014). Anche nel dialogo e nella comunicazione questa considerazione del paziente non può essere messa da parte e le esperienze e la conoscenza del paziente devono essere considerate in modo tale da formare una relazione di rispetto e fiducia reciproca. Passare da una prospettiva fortemente incentrata sul ruolo predominante del medico ad un modello co-relazionale – dove anche la narrazione di malattia del paziente e le sue preferenze riescano a trovare una loro importanza nell’assegnazione della cura – è senza dubbio un grande passo verso nuove prospettive di rinforzo e valorizzazione del paziente stesso.

Ma come può un paziente, in modo attivo, aumentare la sua partecipazione al processo di cura? Lyons (2007) identifica diverse modalità in cui il paziente può essere più partecipe al processo di cura: il paziente può fornire informazioni sulla propria storia clinica, può dimostrarsi motivato e interessato al raggiungimento di un risultato positivo e per concludere, deve essere partecipe anche fisicamente durante ogni passo del processo di cura e dei suoi trattamenti.

La seconda componente del patient empowerment, secondo le linee guida imposte dalla WHO, sono le abilità del paziente, come l’autoefficacia e la health literacy (World Health Organisation (WHO), 2009).

Il concetto di autoefficacia viene trattato e definito per la prima volta da Bandura (1994) che lo definisce come “convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo in modo da raggiungere i risultati prefissati. Le convinzioni di efficacia influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e agiscono”.

Il concetto di autoefficacia è utile perché i soggetti con un alto livello di autoefficacia per un determinato compito sono più predisposti ad intraprenderlo, sono più motivati e di solito svolgono compiti più impegnativi rispetto agli individui con bassa autoefficacia.

In una revisione della letteratura l’autoefficacia e l’ empowerment sono visti come concetti dalle caratteristiche molto simili, in parte sovrapponibili. Diversi autori considerano l’autoefficacia come un risultato del processo di empowerment mentre altri, tra cui le linee guida della WHO, propongono che sia acquisita durante il processo e in quanto elemento necessario per la partecipazione del paziente al processo decisionale, vista come il risultato finale dell’ empowerment (Cerezo, Juvé-Udina, & Delgado-Hito, 2016).

Essendo due concetti strettamente collegati risulta importante prestare attenzione a come migliorare questa componente. Bandura a questo scopo identifica quattro metodi: esperienze di mastery, l’esperienza vicaria, la persuasione sociale e stati fisiologici ed affettivi.

La prima esperienza, considerata come la più importante, si riferiscono al fatto che i precedenti successi aumentano l’autoefficacia. L’esperienza vicaria si riferisce all’aumento della propria autoefficacia grazie alla testimonianza di altre persone che hanno svolto il compito con successo. La terza fonte, la persuasione verbale, si riferisce all’impatto dell’incoraggiamento sulla percezione di efficacia di un individuo. Infine, anche risposte fisiologiche come stati d’animo, stati emotivi, reazioni fisiche e livelli di stress la influenzano (Bandura, 1994).

Oltre all’autoefficacia, risulta importante anche prestare attenzione ad un’altra componente relativa alle abilità del paziente: la Health Literacy. Questa è definita come la capacità di comprendere le informazioni sanitarie e di utilizzare tali informazioni per prendere decisioni sulla propria salute e assistenza medica (Nielsen-Bohlman, Panzer, Kindig, & Institute of Medicine (U.S.). Committee on Health Literacy., 2004).

Un esempio utile per capire meglio questo concetto è ciò che è accaduto presso l’ospedale di Baltimora. È il caso di una donna di 29 anni, afroamericana che viene portata in ospedale dopo aver passato tre giorni con dolori addominali e febbre. Dopo una breve valutazione, le venne comunicato che avrebbe avuto bisogno di una laparotomia esplorativa. Alla notizia, la donna reagì con una forte agitazione e con la richiesta di essere riportata a casa. Quando venne avvicinata dal personale sanitario, urlò “Sono venuta qui per il dolore e tutto quello che volete farmi è “esplorarmi” (in inglese “all you want is to do is an exploratory on me”) Non mi tratterete come una cavia da laboratorio”. Si rifiutò di acconsentire a qualsiasi procedura e in seguito morì di appendicite (Nielsen-Bohlman et al., 2004).

L’Health Literacy è fondamentale per l’ empowerment dei pazienti. Questa tematica è affrontata dagli autori che scrivono materiali di educazione sanitaria chiarendo la terminologia. Il tentativo di risolvere il problema non è stato risolutivo. L’Italia è stata individuata come uno dei paesi con minore alfabetizzazione sanitaria in Europa: un dato che potrebbe essere correlato al fatto che circa il 30% della popolazione italiana ha un limitato accesso al web, secondo una ricerca dell’ISTAT nel 2016. Ma l’intervento sulla health literacy non si riduce con la trasmissione dell’informazione.

Le abilità dei pazienti, in sintesi, sono collegate all’autoefficacia e alla Health literacy, entrambe attività che richiedono un cambiamento comportamentale.

Il terzo elemento che, secondo la WHO, compone il processo di empowerment dei pazienti è la creazione di un ambiente favorevole, cioè un ambiente che possa favorire nel paziente lo sviluppo dell’ empowerment. Diversi autori hanno cercato di enunciare una serie di caratteristiche che rendono un ambiente favorevole per l’ empowerment (World Health Organisation (WHO), 2009). Hawks (1992), ad esempio, in uno suo scritto risalente agli inizi degli anni ’90, evidenzia in particolare la fiducia, l’onestà, l’accettazione, il rispetto, il valore, la cortesia, la condivisione tra pazienti e professionisti: sono queste le peculiarità che deve avere un ambiente, che deve essere inoltre “alimentato e curato”. Parlando di ambiente favorevole, o facilitante, la WHO illustra in particolare il ruolo dei professionisti della salute. Tre i prerequisiti che lo staff deve avere in relazione a questo obiettivo: un ambiente di lavoro che abbia le strutture necessarie per favorire l’ empowerment, la fiducia nelle proprie capacità di essere empowered e la consapevolezza che la comunicazione e la relazione con i professionisti della salute possa essere uno strumento estremamente potente (World Health Organisation (WHO), 2009).

Gli operatori sanitari, però, non possono da soli rendere empowered i pazienti: non si può rendere empowered un altro individuo, è un processo che deve necessariamente partire dall’individuo stesso. La cooperazione tra i pazienti e gli operatori socio sanitari può aiutare a sviluppare il processo di empowerment. Secondo Gibson, infatti, gli operatori sociosanitari possono favorire un senso di autoefficacia e di controllo nei pazienti grazie ad un ambiente di mutuo rispetto e che li possa sostenere. Grazie a queste accortezze da parte dell’équipe, l’ambiente empowered si sviluppa.

Affiancata all’ambiente favorevole la WHO specifica un’altra componente dell’ empowerment: la “positive deviance” (World Health Organisation (WHO), 2009). La “positive deviance” spiega quel fenomeno per il quale, a volte, sembra che certi individui facciano esperienza di risultati più positivi rispetto agli altri. Infatti, nella maggior parte degli ambienti pochi individui a rischio sviluppano abitudini positive non comuni che portano appunto ad outcome più positivi paragonati a individui con rischio simile (Marsh & Schroeder, 2002; Marsh, Schroeder, Dearden, Sternin & Sternin, 2004). Il riconoscimento di questi individui e l’identificazione del loro raro comportamento consentono la progettazione di cambiamenti comportamentali che possono portare all’adozione di comportamenti benefici più diffusi. Un esempio di questo processo è l’aumento della compliance alle cure grazie ad un ambiente che possa identificare i problemi (mobilitazione sociale). Questo può essere fatto radunando gli individui che possano avere un interesse nel problema. Anche la raccolta di informazioni può offrire un’opportunità per trovare modalità con cui coinvolgere i pazienti e gli operatori sociosanitari (World Health Organisation (WHO), 2009).

Per concludere, appare sempre più evidente la necessità di operare un profondo ripensamento su più livelli dell’attuale concezione sottesa al sistema sociosanitario in modo da coinvolgere nel processo di epowerment gli operatori sanitari e i pazienti allo stesso modo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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