Per cinque millenni la Cannabis è stata utilizzata in tutto il mondo a scopo medico, ricreativo e spirituale. Il suo primo utilizzo in campo terapeutico avvenne probabilmente in Asia centrale per poi diffondersi in seguito in Cina, India, Egitto, Persia e Siria. Sue applicazioni sono state riscontrate anche tra i Greci e i Romani, con indicazioni (dolore, vomito, convulsioni e spasticità muscolare) sorprendentemente simili a quelle per cui viene attualmente utilizzata a scopo terapeutico.
Giada Costantini – OPEN SCHOOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto
La cannabis a scopo terapeutico (CTP) ha continuato ad avere un ruolo significativo nella medicina occidentale fino alla fine del diciannovesimo secolo (Bostwick, 2012; Mikuriya, 1969). Il suo utilizzo ha poi subito un lento declino fino ad essere fortemente ostacolato dalla Convenzione Unica sugli Stupefacenti adottata dalle Nazioni Unite nel 1961, che la inserì tra le sostanze della Tabella IV della convenzione, la categoria più severa e restrittiva, destinata a inquadrare le droghe particolarmente soggette ad abuso e responsabili di effetti dannosi per la salute, la cui soggettività non è compensata da sostanziali vantaggi terapeutici (in Petralia, 2009). I notevoli sviluppi in campo medico, la scoperta di nuove sostanze farmacologiche ritenute più sicure (Kalant, 2001; Zuardi, 2006), accanto a fattori sociali, economici e giuridici, hanno dato un importante contribuito al declino della CTP.
Cannabis: scoperte farmacologiche e cambiamenti sociali
Negli ultimi decenni alcune scoperte farmacologiche hanno portato una nuova ondata di interesse sulle proprietà strutturali e fisiologiche della cannabis, interesse che è aumentato anche a seguito della pubblicazione di numerosi studi sui benefici della cannabis (Campbell, et all.,2001; Lynch e Campbell, 2011), indicandola come un agente terapeutico promettente.
L’aumento dell’evidenza clinica della CTP è stato accompagnato in molti Paesi da un aumento delle pressioni sociali e politiche per cambiare i quadri normativi e legalizzarne quindi l’uso medico. Finora ventitre Stati americani e alcuni Paesi, tra i quali Israele, Canada e Paesi Bassi (Belle-Isle et al., 2014), hanno legalizzato la cannabis a scopo terapeutico, mentre altri, tra cui Nuova Zelanda e Australia (Shipton e Shipton, 2014), stanno seriamente valutandone la legalizzazione. Questi cambiamenti delle normative nazionali hanno acceso numerosi dibattiti scientifici e politici riguardanti i possibili effetti (positivi e negativi) della legalizzazione della cannabis a scopo terapeutico a livello sociale (Levinthal, 2008) e una recente revisione sistematica della letteratura ha provato a sintetizzare in modo critico tali effetti, concentrandosi in particolare sull’impatto della legalizzazione della cannabis a scopo terapeutico sull’uso illegale della cannabis, sulla criminalità e in termini di salute pubblica in generale.
Cussen e Block (2000) hanno analizzato gli effetti positivi di un’eventuale legalizzazione degli stupefacenti. Gli autori (ibidem) affermano che un mercato altamente competitivo alla ricerca dell’offerta di miglior qualità andrebbe a diminuire drasticamente la criminalità legata allo spaccio di sostanze stupefacenti e porterebbe benefici individuali e sociali.
Tuttavia, se gli effetti economici a breve termine potrebbero sembrare di primo impatto favorevoli, non bisogna sottovalutare le conseguenze a lungo termine dell’uso di cannabis, causate dagli effetti nocivi della sostanza.
Cannabis: effetti nocivi
Serpelloni et al. (2011) hanno evidenziato come l’uso precoce di cannabis può avere un ruolo importante nella sensibilizzazione cerebrale verso la ricerca e la sperimentazione di sostanze stupefacenti a più alto rendimento farmacodinamico. In molte persone, non in tutte, l’uso precoce può indurre e amplificare un comportamento di ulteriore sperimentazione evolutiva di droghe (ibidem).
Secondo uno studio longitudinale di coorte, eseguito per tre volte su 5468 soggetti di 14-16 anni (Kandel, 1975), il 26% delle persone che hanno consumato cannabis come prima droga di sperimentazione passa successivamente ad un uso di LSD, amfetamina, eroina. Tale valore si riduce all’1% in chi non ha usato cannabis. Similmente, uno studio di Kandel e Yamaguchi del 2002, condotto sulla popolazione generale, mostra che l’86% dei soggetti che usano droghe illecite ha prima usato la cannabis.
Anche uno studio multicentrico condotto sulla popolazione carceraria (Golub e Jhonson, 2001), ha evidenziato che il 91% dei soggetti consumatori problematici ha iniziato a usare droga con la cannabis. Solo l’1% dei soggetti usa direttamente e prematuramente una sostanza attivante (cocaina, eroina, anfetamina). L’effetto gateway è documentato in questi casi per tabacco, alcol e cannabis. La variabile “età di primo uso di marijuana” è quella che ha maggior peso nel passaggio all’uso di droghe più pesanti (Golub e Jhonson, 2002).
Tuttavia, l’effetto della teoria della Cannabis come gateway (Serpelloni et al., 2011) va associata alla teoria della vulnerabilità secondo cui alcune persone, per caratteristiche genetiche, individuali e ambientali, sono più esposte al rischio di sviluppare dipendenza se poste al contatto con sostanze stupefacenti. Alcune persone quindi, sensibilizzate con la cannabis, presentano un rischio evolutivo molto maggiore rispetto ad altre di assumere altre sostanze illecite nel futuro.
Secondo Ameri (1999), la tossicità della marjuana è stata sottovalutata per molto tempo: recenti studi hanno rilevato che il principio attivo della cannabis, il delta-9-THC, induce la morte cellulare con restringimento dei neuroni e la frammentazione del DNA nell’ippocampo.
In particolare, sembrerebbe che gli studi animali hanno riscontrato un aumento dei cambiamenti cellulari associati all’esposizione alla cannabis soprattutto durante l’adolescenza rispetto all’età adulta (Cha et al; 2006; Rubino et al., 2008; Scheinender et al., 1982).
Cannabis in adolescenza
Ad esempio, secondo uno studio (Zalescky et al., 2012) è stato dimostrato come l’uso prolungato di cannabis in adolescenza o nella prima età adulta è pericoloso per la materia bianca cerebrale. Nello specifico, l’autore (ibidem) ha indagato specificatamente il suo impatto sulla connettività delle fibre assonali attraverso la risonanza magnetica. È emerso che la connettività assonale risulta compromessa nelle seguenti aree cerebrali: fimbria destra dell’ippocampo (fornice), splenio del corpo calloso e fibre commissurali che si estendono fino al precuneo. È stata inoltre riscontrata un’associazione tra la gravità delle alterazioni e l’età in cui ha avuto inizio l’uso regolare di cannabis. L’uso precoce e prolungato di cannabis risulta quindi particolarmente pericoloso per la materia bianca del cervello in fase di sviluppo, portando ad alterazioni della connettività cerebrale che, secondo gli sperimentatori, potrebbero essere alla base dei deficit cognitivi e della vulnerabilità ai disturbi psicotici, depressivi e d’ansia dei consumatori di cannabis.
Altri studi epidemiologici e clinici documentano il comportamento impulsivo, i deficit sociali, i danni cognitivi, il consumo di sostanze d’abuso e i disordini psichiatrici quali la schizofrenia, la depressione e l’ansia, in individui adulti che erano stati esposti alla cannabis durante la vita intrauterina e all’inizio dell’adolescenza (Arsenault et al. 2002; Fried e Watkinson, 2001; Huinzik et al. 2006; Kandel 2003; Patton et al. 2002; Prath e Fried, 2005; Richardson et al., 1995).
Cannabis: cosa accade a livello cognitivo, neurofisiolofìgico e dell’umore
Le indagini sugli effetti delle alterazioni cognitive indotte dalla marijuana sono state valutate mediante compiti che richiedono al soggetto una capacità di controllo esecutivo, la capacità d’inibizione e il processo decisionale. In uno studio è stato osservato come le alterazioni di umore e di percezione spesso osservate nei fumatori di marjiuana potrebbero derivare da un alterato sistema di risposta neurale, così come è stato rilevato in uno studio con fMRI (Gruber S.A., 2009) in 15 fumatori cronici di marijuana (MJ) rispetto a 15 soggetti non fumatori (NC), durante la visione di espressioni emotivamente diverse (volti di persone felici o impaurite) mediante tecnica di mascheramento. I volti presentavano una maschera in modo da non rendere consciamente evidente lo stato espressivo. Sebbene le analisi delle misure cliniche e demografiche non evidenzino differenze significative tra il gruppo di fumatori e il gruppo di controllo, i fumatori di marjiuana hanno mostrato una diminuita attivazione neuronale sia nella corteccia cingolata anteriore, che a livello dell’amigdala, durante la visione di stimoli affettivi rispetto ai controlli. Questi ultimi al contrario, hanno mostrato un aumento relativo di attivazione nelle stesse regioni. I risultati indicano che i fumatori cronici di marijuana presentano un’alterata attivazione dei sistemi cerebrali frontali e delle strutture limbiche durante la visione di volti emotivamente espressivi. Le aree cerebrali frontali e limbiche sono caratterizzate da un’alta densità di recettori cannabinodi CB-1. Questi dati suggeriscono differenze di elaborazione affettiva nei fumatori cronici di marjiuana rispetto ai non fumatori, anche quando gli stimoli sono presentati sotto il livello di elaborazione cosciente, e pongono l’accento sulla probabilità che i fumatori di marijuana elaborino le informazioni emotive in modo diverso da quello dei non fumatori. Tale fenomeno può portare a conseguenze negative per la capacità di elaborazione dell’informazione emozionale nei soggetti consumatori di cannabis.
Cannabis: quali coseguenze su attenzione e memoria?
Si sta diffondendo un forte interesse scientifico sulla permanenza dei deficit di attenzione e di memoria descritti in soggetti forti consumatori di marijuana. Alcuni ricercatori si sono chiesti se tali effetti potessero essere reversibili dopo un’astinenza prolungata dalla sostanza. In particolare, non è chiaro se la reversibilità dei deficit cognitivi possa essere considerata un indice di mancata alterazione della droga sul funzionamento dei circuiti cerebrali oppure se, nonostante tali alterazioni, il cervello sia in grado di adattarsi ai cambiamenti indotti dalla sostanza. In uno di questi studi (in Serpelloni, 2011) è stata misurata la variazione del segnale BOLD (stato di ossigenazione del sangue) mediante l’utilizzo di una Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) in 24 consumatori cronici di marijuana (12 astinenti e 12 consumatori attivi) confrontati per età, sesso ed educazione e 19 soggetti di controllo. I partecipanti dovevano eseguire durante la scansione RM in una serie di compiti di visuo-attentivi suddivisi per livelli di difficoltà. L’esame prevedeva inoltre la somministrazione di test neuropsicologici per la valutazione delle funzioni cognitive. I due sottogruppi di soggetti consumatori di cannabis (astinenti e consumatori attivi) non mostravano differenze nel modo di utilizzo della sostanza (frequenza, durata e età di primo utilizzo, consumo medio totale > 2000 assunzioni) o di esposizione totale stimata di Δ-9-tetraidrocannabinolo (THC) (media 168 ± 45 vs 244 ± 135 grammi). Nonostante le simili prestazioni ai test cognitivi e al compito visuo-attentivo rispetto ai soggetti di controllo, i consumatori di marijuana sia astinenti che attivi hanno mostrato una diminuita attivazione della corteccia prefrontale destra, della corteccia parietale dorsale e media e del cervelletto mediale, ma una maggiore attivazione in diverse regioni frontali, parietali e occipitali durante l’esecuzione del compito visuo-attentivo.
Tuttavia, il segnale BOLD rilevato nella corteccia frontale destra e cerebellare mediale si normalizzava quando correlato alla durata dell’astinenza nel sottogruppo di consumatori. I consumatori attivi di marijuana, con test delle urine positivo per il THC, hanno invece mostrato una maggiore e più ampia attivazione delle regioni cerebrali frontali e del cervelletto mediale rispetto agli astinenti, suggerendo un maggiore utilizzo di circuiti neurali di riserva (effetto neuro adattativo). Tra le variabili considerate dallo studio, una precoce età di primo utilizzo della sostanza e una maggiore esposizione cumulativa al THC, si sono dimostrate correlate a segnali funzionali (BOLD) ridotti nella corteccia prefrontale mediale destra e nel cervelletto. Proprio questo pattern alterato di attivazione funzionale, in particolare delle aree coinvolte nel processo attentivo, e l’ipoattivazione del cervelletto suggerisce processi neuro adattativi o addirittura alterati processi di sviluppo cerebrale nei consumatori cronici di marijuana. Questi cambiamenti potrebbero essere legati a fenomeni di alterazione indotti dalla marijuana stessa a livello del volume/flusso ematico cerebrale o dei recettori cannabinoidi (CB1). La maggior attivazione neurale registrata nei consumatori attivi, rispetto ai soggetti astinenti, dimostra la presenza di uno stato neuro adattativo cerebrale durante il consumo attivo di marijuana.
Le conclusioni della ricerca suggeriscono come le modifiche funzionali indotte dalla sostanza possano essere reversibili dopo un periodo prolungato di astinenza dal consumo della sostanza.
Cannabis terapeutica: dal 2013 anche in Italia
Dal 2013, in Italia è possibile prescrivere cannabis terapeutica – sempre a pagamento – in tutte le regioni. La prescrizione a carico del Servizio Sanitario Nazionale, unicamente per uso terapeutico, è praticabile solo in Toscana, Puglia, Liguria, Campania e in Veneto, ma con limitazioni ulteriori rispetto alle regole nazionali. La prescrizione di cannabis a uso medico in Italia riguarda, tra gli altri: il dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla e a lesioni del midollo spinale; la nausea e il vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per Hiv; la stimolazione dell’appetito nella cachessia, anoressia o in pazienti oncologici o affetti da Aids e nell’anoressia nervosa; l’effetto ipotensivo nel glaucoma; la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella Sindrome di Tourette.
Le prescrizioni si effettuano quando le terapie convenzionali o standard sono inefficaci. Tuttavia, le evidenze scientifiche sui benefici, i dosaggi, le modalità di allestimento, la stabilità del preparato somministrato sono solo alcuni dei dubbi che ancora restano sul corretto utilizzo della cannabis a scopi medici: sono necessari nuovi studi sulla questione poiché i farmacisti che si occupano dell’allestimento necessitano di avere punti fermi sulle modalità di preparazione, mediante protocolli rigorosamente standardizzati al fine di garantire la continuità terapeutica al paziente (dati certi sulla stabilità e sul quantitativo di principio attivo di ogni preparazione) e di conseguire un’organizzazione del lavoro più efficiente.