Cosa attira le persone sui Social Network? Quali sono i rischi psicologici profondi? Relazioni sociali e identità mediate sui Social dal punto di vista psicodinamico.
Facebook, Instagram ed altri Social Network sono ormai utilizzati quotidianamente in maniera più o meno assidua e hanno dilagato in poco tempo conquistando dai più piccoli ai più anziani. È interessante provare a capire che cosa ha attirato le persone su questi Social Network, ma anche quali sono i rischi psicologicamente più profondi, oltre ai ben più noti vantaggi, da un punto di vista psicodinamico.
Iniziamo con il dire che un Social come Facebook concede una possibilità unica nel suo genere: avere un profilo consente di essere parte di un “tutto sociale” senza investire in un contatto reale, vìs à vìs. La parola “virtuale”, in effetti, significa che esiste in potenza ma non si è ancora realizzato: siamo sul tagliente orlo della logica del “potenzialmente sì ma di fatto no”.
Social Network e relazioni: sé – sé virtuale – altro virtuale
Se si parte da questa premessa si può dedurre quale tipo di relazione con l’altro si instaura: una relazione che lo implica solo nella misura in cui questo fa da pubblico, da supporto all’Io, senza uno scambio relazionale vero e proprio. Un utilizzo dell’altro esclusivamente in funzione di oggetto e non di soggetto, in un contesto virtuale che trasforma le emozioni e reprime molte delle responsabilità etiche (per esemplificare basti pensare agli ormai numerosi casi di cyberbulling che sono tragicamente sfociati in suicidio).
Su Facebook ci si può esprimere senza avere l’obbligo di considerare ciò che esprimono gli altri, interpretare frasi e immagini secondo la propria esperienza e lo stato umorale del momento. L’autoreferenzialità è un aspetto dominante e produce quello che M. Franchi e A. Schianchi (2011) chiamano un rischio di isolamento solipsistico. Il rischio di isolamento è infatti alto ed è la quotidianità ad insegnarlo: basta osservare un qualsiasi contesto sociale ordinario per vedere come la nuova tecnologia cellulare sembri parte integrante del corpo; in altre parole, ironicamente, l’articolazione superiore non finisce con la mano, ma con lo Smartphone, lo sguardo è basso e l’attenzione è focalizzata lì. Si osservano persone raggruppate ma sole, ritirate in un mondo di “sé-sé virtuale-altro virtuale”.
Social Network e identità
Bruckman (1992) definisce i cyberplace come Facebook dei puri simulacri autoreferenziali. Questo spazio virtuale viene utilizzato spesso come un laboratorio per la propria identità, quello che l’autrice definisce “Identity Workshop”. Che cosa significa?
Se ci pensiamo, Facebook permette di incorniciare il Sé in un quadro che è possibile abbellire e levigare, smussandone con acquarello o candeggina gli aspetti inaccettabili. I Social Network come Facebook danno in effetti la facoltà di scegliere accuratamente il modo in cui presentarsi su questo “palcoscenico digitale”, tramite immagini, frasi, video, che vengono date in pasto al pubblico;
L’ aspetto narcisistico presente in ogni persona viene a patti con il voyeurismo di chi guarda la pagina profilo (E. Menduini, G. Nencioni, M. Pannozzo, 2011)
La componente voyeurista, e la sua gemella esibizionista, suggeriscono qualcosa nell’ordine di quella che in psicoanalisi viene chiamata perversione: sostanzialmente il paradosso dell’avere un bisogno viscerale di qualcosa dall’altro, ma volerlo ottenere senza passare dall’altro come soggetto.
Su questa linea notiamo che esiste una solida ed adesiva identificazione tra il Sé e l’Ideale, che trasforma il Soggetto in oggetto: questo risulta non soltanto dalla tendenza a pietrificarsi nell’immagine illusoria e perfetta del proprio profilo Social (che a sua volta tenta di copiare quella del canone sociale), ma anche dall’intenzione di voler proporre questo Sé come oggetto, nella sua massima esposizione sregolata di cui, inconsciamente si auspica, l’altro possa godere. Questo processo avviene in maniera prevalentemente ego-sintonica: se prendiamo ad esempio i profili Instagram più cliccati, proporre immagini di sé sessualmente esplicite è divenuto un vanto ed una qualità che vorrebbe incarnarsi. Probabilmente l’idea che questi soggetti hanno, e vorrebbero far passare, è che l’immagine profilo costituisca la realtà, o meglio, che quella sia la verità sul corpo e sulla loro identità. Questo serve a potersi dire “è così che sono”.
Social Network e immagine di sé perfetta
In alcuni casi la serie delle immagini proposte è serialmente tutta uguale: questo richiama qualcosa della ripetizione come godimento (inteso Lacanianamente come ripetitività spasmodica del sintomo) un voler essere ripetitivamente, ritualmente, statuariamente perfetti, non accettando la minima variazione che, umanamente, il corpo subisce di ora in ora per condizioni interne ed esterne. I cosiddetti “filtri” delle nuove applicazioni fotografiche servono proprio a questo: a togliere, forse denegare nei casi più gravi, ogni sbavatura, ogni differenza dall’Ideale. Il sembiante della foto perfetta viene confuso, mescolato con l’essere reale del soggetto.
L’annullamento della differenza tra essere e sembiante, tra ciò che un soggetto è e come esso viene rappresentato dalla catena dei significanti sociali a cui aderisce, […] avviene […] per un eccesso di identificazione, per una cristallizzazione della maschera sociale, per una adesione inerte, per un suo incollamento conformistico. È ciò che Cristopher Bollas nomina come caratteristica principale delle personalità normotiche, nelle quali l’espressione della sofferenza individuale non avviene come esplosione delirante e anarchica della soggettività ma come distruzione del fattore soggettivo. (M. Recalcati, 2010).
Da un punto di vista psichico strutturale, l’Immaginario dell’individuo in questi casi è sovra saturo, carico del peso dell’immagine identificatoria e ideale che non può né scalfirsi né modificarsi: il costo sarebbe quello di un crollo narcisistico, probabilmente depressivo.
Social Network e narcisismo
L’esasperazione dell’immagine, sempre più a ridosso del limite pornografico, sembra voler disperatamente gridare: “Guardami!”. L’ipotesi è, come accennato, che sia fortemente in gioco l’integrità narcisistica e, di conseguenza, esistenziale: Narciso, in fondo, specchiandosi in una fonte non cerca se stesso, ma se stesso arricchito dallo sguardo (…). Il mito di Narciso ricorda che, in alcuni soggetti psichicamente più fragili, esiste un legame tra l’amore e la conferma della propria esistenza: je t’aime = aime-moi ; je t’aime = j’existe (J. McDougall, 1976). L’impressione è che questi individui rischino la vita, che necessitino lo sguardo su di sé a tutti i costi, o il costo sarebbe quello della disintegrazione narcisistica. Tristemente, ma secondo la parte istintuale della nostra natura, l’ipersessualizzazione dell’immagine costituisce la via che attecchisce più facilmente, la via che può attirare più velocemente e più voracemente lo sguardo dell’altro.
Per dei motivi che andrebbero indagati più a fondo, questo interessa soprattutto il genere femminile:
Il corpo alla moda è il corpo che una donna deve avere per esistere come donna di fronte al sistema del grande Altro contemporaneo e al suo sguardo onnipervasivo. Sottolineo i due verbi: dovere e avere (M. Recalcati, 2010).
Il primo verbo servile ha a che fare con un imperativo categorico che non appartiene alla potenza del Super-Io, ma alla predominanza dell’Es come pura spinta al godimento. Il secondo, avere, è in contrapposizione con l’essere del Soggetto: egli non la possibilità di essere a partire dalla mancanza, ma solo di avere come direttiva di esistenza che si basa sul possedimento di un oggetto, il quale, una volta perso, lascia un vuoto che non può essere significato, simbolizzato, pensato o mentalizzato.
Per meglio comprendere la questione sul corpo si può partire dalla
[…] figura clinica dell’isteria, che non insegna solo che il corpo parla e parla là dove soffre, nei sintomi, nelle cifrature enigmatiche scritte sulla carne del corpo, ma anche che il corpo sfugge sempre ad ogni disegno della padronanza dell’Io. Il corpo isterico rivela, infatti, una plasticità camaleontica, metamorfica, imprevedibile che l’Io non può affatto governare. Questo aspetto del corpo isterico ci pone di fronte non a una patologia ma ad una verità: il corpo non è mai una proprietà del soggetto. È l’illusione filosofica di una certa fenomenologia – e in gran parte ormai della donna moderna – pensare che io sono il mio corpo e che il mio corpo è ciò che io più profondamente sono, ovvero pensare che io non ho ma sono il mio corpo (M. Recalcati, 2010).
In questo modo si spiega lo spasmodico utilizzo del corpo come strumento goduto e godibile, di cui una delle conseguenze risulta molto spesso la mancanza, riscontrabile nella clinica, di sintomi che siano metaforici; il “sintomo dell’avere” non parla, devasta direttamente il corpo somatico, senza mediazioni rappresentative.
Se tutto ciò può dare uno spunto al lavoro psicologico e terapeutico, vale la pena considerare il ruolo che può avere l’utilizzo dei Social Network in persone psicologicamente già fragili da un punto di vista strutturale e narcisistico, oltre a cogliere precocemente i campanelli di allarme di un utilizzo scorretto di queste piattaforme virtuali soprattutto nei giovanissimi e negli adolescenti.