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Nulla sfugge ai social: una spinta gentile per ricordarlo

Oggi le persone sono perennemente connesse a internet, immersi in un costante flusso di foto, video e chat. La cura di tutti questi dati personali è affidata a internet, che opera una condivisione di informazioni in cui la distanza scompare e i dati sono in realtà allo scoperto, come la nostra privacy.

Di Marianna Vaccaro

Pubblicato il 17 Apr. 2018

Siamo nell’era della privacy assoluta, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato su internet.

 

La pioggia di dati prodotta da internet è inarrestabile e sta inesorabilmente cambiando le nostre vite, le nostre relazioni, l’amore, la nascita, la morte, la politica e l’economia. Attualmente si parla di una popolazione “data driven”, ovvero “guidata dai dati”, un fiume in piena che noi stessi produciamo.

I rapporti sono mediati da piattaforme, i processi decisionali dai computer più che dai dirigenti. Siamo nell’era della privacy assoluta, in cui si chiede che venga rispettato il diritto alla riservatezza della propria vita privata, eppure nulla sfugge ai social e tutti i dati sono condivisi nell’immediato.

Il 1° gennaio 2004, in Italia, è entrato in vigore il cosiddetto “Testo Unico sulla Privacy”, ovvero il Codice che raccoglie le disposizioni in materia di protezione dei dati personali (Codice in materia di protezione dei dati personali, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196). Il Codice garantisce che il trattamento dei dati si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, assicurando un elevato livello di protezione, nel rispetto dei principi di semplificazione, armonizzazione ed efficacia delle modalità previste per il loro esercizio, ma i comportamenti emessi dalla popolazione risultano essere contrari e incompatibili alla tutela richiesta (Citta & Della Banca, 2003).

I giovani espongono sui social i loro segreti più intimi, perché bisognosi della considerazione sociale di ciò che accade nelle loro vite, condividono fotografie per gioco o per rendere pubblica una relazione d’amore; i genitori inesperti della rete pubblicano foto di minori, installano senza consapevolezza sui propri smartphone applicazioni, allettati dalla parola “gratuita”. I professionisti mettono a rischio i loro contatti di lavoro attraverso lo scambio d’informazioni via e-mail con colleghi e clienti e scansioni di atti. L’uso delle più recenti tecnologie rende i dati sensibili indifesi di fronte ad attacchi esterni e spesso soggetti a incidenti informatici che compromettono il loro recupero. Tra amici o compagni di scuola si fanno strada molestatori e cyberbulli che, convinti di essere protetti dall’anonimato, colpiscono le persone più deboli.

In che modo internet sta ridisegnando la vita delle persone

Luciano Floradi, filosofo nell’Università di Oxford, in un’intervista speciale del TG1 andata in onda il 29 Gennaio 2017, pone l’attenzione sulle modalità attraverso cui internet sta ridisegnando in Italia le nostre vite, personali e pubbliche. Gradualmente, l’introduzione di device mobili nelle nostre vite sta conducendo verso un’identità perennemente “on line”.

La frequenza con cui si è connessi alla “rete delle reti” (internet) sta crescendo progressivamente: in qualsiasi contesto o momento del giorno e della notte, indipendentemente dall’età, si è perennemente on line (ISTAT, 2013). Internet viene utilizzato da fermi o in mobilità, portando l’uomo verso uno sviluppo di relazioni tra macchine più che tra persone, mediante applicazioni di messaggistica istantanea quali WeChat, WhatsApp, ecc..Nel marketing, attualmente, si parla di e-commerce, una forma di commercio i cui prodotti vengono venduti mediante Internet, il quale permette di raggiungere in modo veloce e a basso costo gli acquirenti, ma questa modalità di commercio ha portato a non incontrare neanche più i clienti (Gefen & Straub, 2004). A scuola il bambino viene monitorato in entrata e in uscita mediante il registro elettronico, gli insegnanti utilizzano la LIM (lavagna interattiva multimediale), su cui vengono proiettati contenuti digitali; telecamere appositamente posizionate all’interno delle istituzioni scolastiche monitorano la vita dei ragazzi. A Singapore, webcam e sensori invisibili sono sparsi per tutta la città, registrano e tracciano movimenti e comportamenti su autobus e nella vita quotidiana.

Una traccia rimane ovunque anche se tradisci il tuo partner, tra uomini e oggetti (acquisto di un regalo), tra oggetti e oggetti (es. le camere in hotel sono tutte controllate tramite smartcard). Tasse, proprietà, codici di accesso per visionare parti della propria vita, definiscono il valore professionale e personale dell’individuo.

Secondo alcuni antropologi che studiano i nativi digitali, in aeroporto la presenza di telecamere digitali permette di scansionare i volti, definisce il genere e l’etnia della persona e spesso vengono fermati i soggetti, sulla base di ciò che decide l’algoritmo. Nessuno si lamenta del controllo, viviamo in una società pragmatica, ma quanto siamo consapevoli che il diritto di privacy davanti alle relazioni in rete perde valore?

Anti fragilità vs fragilità delle relazioni reali

L’aver scelto un’identità sempre on line ha reso la popolazione dei nativi digitali più “controllante”: se si perde lo smartphone, grazie al segnale gps è possibile localizzarlo; in un posto in cui il collegamento dei mezzi è scarso, una connessione internet permette di localizzare l’auto più vicina grazie al servizio di car sharing. La Braun Research, società di ricerca di mercato, nel 2016 ha esplorato per conto della Bank of America le tendenze e i comportamenti di utilizzo dello smartphone con un sondaggio telefonico su 1004 persone di età superiore ai 18 anni in possesso di un cellulare. Il 59% dei soggetti intervistati afferma di possedere più di un dispositivo mobile.

L’uso che si fa dello smartphone è legato all’interazione con i propri figli, ottenere indicazioni, prendere appuntamenti, controllare le proprie finanze, prenotare viaggi, fare shopping e ordinare cibo. Questi comportamenti in realtà stanno portando la società in direzione contraria ai principi di anti fragilità (Taleb, 2013) e ciò non stupisce: le relazioni digitali comportano una fragilità nelle relazioni reali. La tecnologia e i dati aiutano a capire chi siamo e orientano l’uomo su dove andare, ancorandolo alla zona di comfort piuttosto cha spingerlo verso la scoperta autonoma dei pro e dei contro. I device digitali, via di accesso alla realtà della rete, dovrebbero essere di supporto e non sostituti.

Oggi il numero degli amici su Facebook è uno degli indicatori più significativi nella vita della persona, con la conseguenza di mettere implicitamente in secondo piano l’effettiva rete di relazioni intessute da un soggetto. Ciò va sommandosi a un altro elemento di fragilità ontologica ossia la mancanza di ridondanza: la quasi esclusività del mezzo digitale toglie di fatto all’individuo l’occasione di sperimentare le implicazioni ripetute della vita reale, le sollecitazioni improvvise ed esterne e non controllabili, necessarie alla crescita e al miglioramento personale. In alcuni casi può accadere che gli aspetti del reale e del virtuale si sovrappongono a tal punto che l’autonomia delle parti necessaria per una socialità anti fragile viene a mancare. In quest’ultimo caso, infatti, il virtuale non supporta il reale ma lo sincretizza diventandone causa di indebolimento: se muore una parte anche l’altra non sussiste. La mancata ridondanza nelle modalità di accesso e di contatto con la dimensione sociale rende il singolo oltremodo fragile. Ed è così che lo smartphone riesce a diventare indispensabile nelle nostre vite che non sono pronte ad affrontare un evento improvviso, un cigno nero (Taleb 2007), che inaspettatamente può far saltare il sistema, cambiando la routine vissuta dall’uomo.

L’era delle “face down people” e delle relazioni “filtrate dalla tecnologia”

La condizione della società contemporanea è descritta dal regista e animatore Steve Cutts, nel nuovo video di Moby & The Void Pacific Choir, nel brano “Are you lost in the world like me?”, uscito il 14 ottobre 2017.

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In questo video la coppia Moby-Cutts denuncia la dipendenza umana dagli schermi, con uno sguardo desolante. Le immagini rivelano come la centralità dell’individuo nella propria vita ha ceduto il posto alle relazioni “guidate dai dati”, in cui comportamenti come baciare, abbracciare, sorridere ecc. sono stati sostituiti da emoticon che comunicano sensazioni alterate e talvolta ambigue. Siamo nell’era delle “face down people”, persone che mantengono lo sguardo rivolto verso il basso, sullo schermo del telefono e si muovono immersi nello smartphone.

Wallace (2014) riporta alcuni casi limite. In Cina, due studenti hanno giocato a un gioco online per due giorni consecutivi: poi, una volta usciti di casa, nell’attraversare i binari nella vita reale, senza rendersi conto del cambiamento, sono stati uccisi da un treno che sopraggiungeva. Una giovane coppia in Korea si è occupata della figlia virtuale trascurando quella vera, che infine è morta. L’uso eccessivo di Internet porta progressivamente a difficoltà soprattutto nell’area relazionale dell’individuo, il quale viene assorbito dalla propria esperienza virtuale, rimanendo “agganciato” alla rete (Jamison, 2000).

È possibile pertanto parlare di dipendenza? Jerald J. Block (2008), in un articolo recente sull’American Journal of Psychiatry, afferma che l’Internet Addiction è un particolare tipo di disturbo compulsivo-impulsivo, il quale si manifesta attraverso i seguenti sintomi: desiderio irrefrenabile di connettersi al web (o comunque di stare davanti a un pc, tablet, smartphone) per chattare, giocare, mandare e-mail, frequentare siti porno. Il soggetto privo di internet diventa irritabile, nervoso e agitato e può facilmente cadere in forme di depressione: una vera e propria sindrome da astinenza. L’assuefazione a internet si manifesta nella forma di una progressiva permanenza davanti al pc/tablet sempre più lunga e ininterrotta, e nella ricerca di dispositivi hardware e software sempre più potenti e innovativi. Facebook è basato su un algoritmo simile a quello di Google, dà avvio a chat e relazioni, nelle quali la persona è immersa; l’algoritmo le ordina e le ripropone, tutto ridisegnato dal web. La relazione è filtrata dalla tecnologia. La velocità della chat brucia le relazioni: si crea la relazione prima che realmente avvenga. Le storie sentimentali da private diventano pubbliche.

La tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative indotta dalla diffusione di device e app digitali può essere un fattore di rischio trasversale per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.

Le app finora create (es. WhatsApp che permette di controllare gli accessi di ciascun utente) contribuiscono al sorgere di relazioni perverse, ipercontrollanti, che fanno sorgere nella mente del partner domande del tipo: “Cosa fa? Con chi chatta se non sta scrivendo a me? Come mai è ancora sveglia/o? Perché non mi scrive? Vuole escludermi dalla sua vita?”

Secondo alcune moderne teorie su pensiero e linguaggio, come l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, Strosahl & Wilson, 1999) e la Relational Frame Theory ( Hayes, Barnes-Holmes, & Roche, 2001), le strategie di controllo che avrebbero l’obiettivo di eliminare i disagi personali, hanno un ruolo centrale nell’esasperare la fisiologica sofferenza connessa all’essere umani. La psicopatologia sorgerebbe, quindi, nel momento in cui finalità e desideri di vita significativi a lungo termine, ad esempio persone e valori importanti, vengono sostituiti dall’obiettivo a breve termine di sentirsi bene, apparire bene e di difendere, nell’immediato, il proprio sé concettualizzato. Guidati da questi scopi a breve termine, effimeri per loro natura, i pattern comportamentali si restringono e si allontanano dai reali valori dell’individuo (Hayes et al., 1999).

Quanto affermato nei paragrafi precedenti evidenzia come l’attuale comunità sociale/verbale favorisca, anche attraverso la diffusione di device e app digitali, proprio queste strategie di controllo, che rappresentano una soluzione a brevissimo termine (ad esempio so sempre che cosa sta facendo il mio partner, i miei amici, ecc.) e un grave problema nel medio-lungo termine (l’assenza della possibilità di monitorare costantemente le attività altrui mi fa sentire perso, disorientato, instabile, sopraffatto, e mi spinge ad agire in modo discontrollato e pericoloso per me e per gli altri, ecc.). Questo eccesso di controllo sulle esperienze interne negative viene chiamato evitamento esperienziale e si traduce in tutti quei comportamenti che la persona mette in atto per allontanare da sé emozioni e sensazioni difficili, indipendentemente da quanto questi comportamenti impediscano alla persona di perseguire scopi significativi e gratificanti più ampi.

La ricerca scientifica mostra come la tendenza pervasiva a controllare ed evitare esperienze negative possa essere un fattore di rischio trasversale per la salute psicologica. Solo per citare alcuni dati, le persone con elevato evitamento esperienziale tendono a sviluppare con maggior probabilità i sintomi del disturbo da stress post traumatico dopo un’esperienza traumatica (Marx e Sloan, 2005). La loro qualità di vita nel corso degli studi universitari risulta peggiore (Hayes et al., 2004); presentano un maggior numero di disturbi psicologici e rischiano di commettere più errori in ambito lavorativo (Bond e Bunce, 2003).

La capacità di aprirsi e accettare pensieri e sentimenti difficili, e di impegnarsi in azioni efficaci e di valore, sembra quindi predire il successo in diversi aspetti della vita degli esseri umani. Viceversa, l’evitamento esperienziale costituisce un importante fattore di rischio in termini di salute psicologica (Biglan, Hayes e Pistorello, 2008). In molti modi, quindi, incluso l’utilizzo pervasivo di rete, social e device, la nostra società rischia di creare un terreno fertile per l’insorgenza di disturbi del comportamento e di psicopatologia in generale.

Foto, video, chat sono tutti elementi che lasciano dati sensibili ovunque. La cura dei dati è affidata a internet che, come una grande tribù priva di presenza fisica, opera una condivisione di informazioni. La distanza scompare, e come nelle caverne il corpo rimane nudo: i dati sono allo scoperto. Si tratta di tribù virtuali che condividono i loro corpi sotto forma di dati e quando i singoli componenti si ammalano anche la tribù si ammala perché ogni cosa è condivisa online. Le app sono diventate gradualmente applicazioni capaci di accomunare persone che hanno gli stessi interessi (cene, viaggi..), i “gruppi chiusi” di Facebook e i gruppi WhatsApp stanno creando una forma di tribalismo istantaneo, in cui l’identità dell’individuo si scioglie in quella collettiva: si verifica uno scambio di emozioni forti, di pensieri condivisi e il bisogno di relazione porta a chattare, fare battute, innamorarsi in un mondo virtuale. I comportamenti delle persone appartenenti ai social seguono regole ben precise: c’è un influencer e tutti lo seguono, il cosiddetto capobranco al quale ci si affida nei “like” o in votazioni relative a specifiche tematiche.

Il libro The Filter Bubble (Pariser, 2011) porta l’attenzione sui principali servizi web, dal motore di ricerca Google alle notifiche degli amici di Facebook e fa notare al lettore come questi hanno la tendenza a offrire all’uomo una visione su misura del mondo, personalizzata in base alle proprie aree di navigazione e interessi, manifesta in maniera diretta o dedotta in automatico dal sistema. Se da un lato tutto ciò rappresenta un vantaggio, dall’altro lato è un rischio. Il rischio, di cui parla il testo, è che l’uomo finisca per chiudersi in una bolla. Una bolla che ha l’effetto di isolare l’uomo dalla società, facendogli perdere la percezione della collettività nel suo insieme, orientandolo verso la costruzione di relazioni personali ideali più che reali. La società, informata solo in apparenza, pian piano si sta chiudendo all’interno di una bolla guidata da algoritmi che difficilmente permettono l’accesso al caos, rischio, incertezza, avventura e disordine, elementi che permettono all’uomo di crescere ed evolversi. Si è fragili e poco resilienti agli shock. La ridefinizione dei contesti e della frequenza di utilizzo dei propri dispositivi mobili potrebbe permettere all’uomo di uscire da questa bolla esponendosi alla realtà che lo circonda, compiendo scelte utili e funzionali per sé e per chi lo circonda.

Una “protesi cognitiva” semplice e veloce per aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online Daniel Kahneman, psicologo Israeliano e Premio Nobel per l’Economia nel 2002, ha messo in luce nel suo lavoro come l’ambiente in cui ci si muove possa  esercitare un’importante influenza sulle scelte dell’uomo, che ne sia consapevole o meno (Kahneman, 2012). Un’ipotesi di intervento in tal senso che permetta agli individui di ricordare l’importanza della privacy e la tutela dei propri dati è l’applicazione del nudging, l’insieme di principi basati sulle scienze del comportamento, che spinge gentilmente le persone nel processo decisionale verso scelte coerenti con i propri valori individuali e collettivi. Il nudging lavora sull’ “architettura delle scelte” ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo. Aumenta la probabilità di emissione di un comportamento lavorando sugli antecedenti; influenza un comportamento prevedibile senza utilizzare punizioni o incentivi economici (Sunstein & Tahler, 2008).

Lo studio condotto da Castleman e colleghi (2013) in contesto universitario ha mostrato l’efficacia dei remainder nell’incremento delle iscrizioni. Il remainder è una “protesi” cognitiva che ci ricorda, in momenti specifici, la possibilità di compiere una scelta (ad esempio condividere o meno specifiche informazioni). Esso è utile quando i comportamenti non sono influenzati da un’elevata motivazione, o quando la persona deve processare diverse informazioni e può aumentare la probabilità che essa dimentichi di compiere una determinata azione.

Sarebbe utile e funzionale pertanto inserire come screen del proprio smartphone, pc/tablet un reminder contenente l’immagine di un lucchetto o la dicitura “nulla sfugge ai social” per ricordare alle persone l’esistenza e l’importanza della privacy, per aumentare la consapevolezza che tutto ciò che viene caricato online e reso disponibile alla grande tribù digitale di appartenenza, rimarrà per sempre nel web. Attraverso questo intervento le persone sono orientate verso il compiere o meno una scelta: condividere o no qualunque tipologia di foto, video, conversazione ecc.. in tempo reale. Tale intervento non richiede costi esosi, è semplice e veloce da applicare ma potrebbe aiutare l’intera collettività a ridurre la quantità di dati condivisi online, tutelando sé stessi, gli altri e il concetto di privacy.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Biglan, A., Hayes, S.C., Pistorello, J. (2008). Acceptance and commitment: Implications for prevention science. Prevention Science, 9, 139-152.
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