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Neurobiologia dell’ingiustizia. Cosa succede nel nostro cervello quando siamo vittime o spettatori di un comportamento ingiusto?

In una recente ricerca sono stati indagati i meccanismi psicologici e neurologici alla base delle scelte punitive o riparative espresse a seguito di un’ ingiustizia, un tema così profondamente legato all’esperienza umana, ma ancora poco indagato dal punto di vista neurobiologico.

Di Ilaria Cosimetti

Pubblicato il 17 Apr. 2018

Aggiornato il 17 Set. 2018 09:37

Un gruppo di ricercatori olandesi sì è posto l’obiettivo di indagare i meccanismi psicologici e neurologici che accompagnano le scelte punitive o riparative espresse a seguito di un’ ingiustizia, cercando di dare un contributo ad un tema così profondamente legato all’esperienza umana, ma ancora poco indagato dal punto di vista neurobiologico.

 

La ricerca si è posta come primo obiettivo quello di riuscire ad individuare i meccanismi neurologici alla base delle decisioni di punire i trasgressori e risarcire le vittime. Sulla scia delle ultime ricerche in materia, che hanno evidenziato come dietro ad un comportamento punitivo non ci sia un processo unitario ma un sistema articolato in diverse sottocomponenti, i ricercatori hanno poi voluto far luce sulla reazione di questo sistema a seguito di un’ ingiustizia a cui si è assistito o che ci ha coinvolti in prima persona.

Il recente interesse per la dimostrata influenza degli ormoni sui processi cognitivi, li ha indotti infine ad esplorare il ruolo dell’ossitocina non solo nelle situazioni in cui si soccorrono le vittime, avendo già altre ricerche individuato il ruolo facilitante di questo ormone nell’ambito di comportamenti prosociali, ma anche nelle circostanze che ci vedono impegnati a punire i trasgressori.

Per raggiungere questi obiettivi, il team di ricerca ha adottato un approccio esplorativo e multi-metodologico: la risonanza magnetica funzionale (fMRI), l’impiego farmacologico di ossitocina e quello che hanno chiamato Justice Game, un racconto con compiti di decision-making.

Il campione di ricerca ha visto coinvolti efficacemente 53 uomini con un’età media di 21 anni, 27 dei quali hanno ricevuto la dose di ossitocina e gli altri un placebo contenente tutti i principi attivi del farmaco ad eccezione del solo neuropeptide.

Il primo obiettivo di riuscire a comprendere meglio i meccanismi neurologici alla base della decisione di punire i trasgressori o di risarcire le loro vittime è stato raggiunto constatando che l’aumento dell’attività dello striato ventrale è correlata più con la decisione di punire chi si è comportato ingiustamente che con la volontà di ricompensare chi si trova svantaggiato. Inoltre la decisione di astenersi da condotte punitive è risultata correlata positivamente con un aumento di attività nella giunzione temporo-parietale, un’area coinvolta nell’empatia e nella capacità di mettersi nei panni altrui.

Il secondo obiettivo intendeva paragonare le ragioni psicologiche e l’attività del cervello ad esse associate, sottostanti la decisione di punire, e quanto severamente farlo, sia che si sia vittime dirette di un comportamento ingiusto sia che esso sia diretto ad un terzo. L’area del cervello dell’insula anteriore è risultata associata alla decisione di punire ma in misura maggiore se chi punisce è chi ha subito direttamente il torto. Nell’esperienza sociale l’insula è risaputo essere coinvolta nel processamento della violazione alle norme, pertanto i ricercatori sono giunti alla conclusione che la volontà di punire possa dipendere da questo tipo di considerazioni che assumono un carattere di maggiore severità nelle vittime piuttosto che negli osservatori.

In quest’ultimo caso i risultati della ricerca hanno invece evidenziato il possibile coinvolgimento di un’altra area cerebrale nelle decisioni punitive, la corteccia prefrontale dorsolaterale, che sommerebbe alle pure considerazioni di giustizia dell’insula anche informazioni addizionali circa le variabili del contesto in cui si verifica l’episodio di violazione delle norme. Così come in ricerche precedenti, anche in questo caso i ricercatori hanno evidenziato il coinvolgimento dell’amigdala in questo tipo di scenario, supportando l’ipotesi che questa regione del cervello codifichi l’arousal emotivo associato con il danno procurato a terzi.

Per quanto riguarda il ruolo dell’ossitocina, essa non è risultata aver alcun ruolo facilitatore, riscontrabile a livello neurologico e comportamentale, nell’ambito dei comportamenti di soccorso alle vittime, disconfermando i risultati di altre ricerche che descrivono il neuropeptide come un generale potenziatore di empatia e decisioni prosociali e altruistiche ma tale dato potrebbe anche dipendere dal ridotto campione di comportamenti positivi esaminati nell’ambito della ricerca.

L’ossitocina invece ha dimostrato di influenzare l’attività cerebrale e il comportamento di chi decideva di agire in senso punitivo: a livello comportamentale l’ossitocina ha aumentato la frequenza di punizioni di lieve entità, diminuendo la volontà di punire duramente sia nelle vittime dirette che negli spettatori.

Benchè la percezione di ingiustizia sia il precursore non solo di discussioni da bar tra amici di vecchia data ma anche di conflitti di larga portata tra culture diverse, ancora poco si sa riguardo a come il cervello elabori l’ ingiustizia e quali sue aree e fattori esterni contribuiscano ai processi decisionali che ne derivano. Questa ricerca offre indubbiamente un prezioso contributo a colmare questa lacuna.

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