A chi appartiene il bambino ricoverato in ospedale? Questo interrogativo, un po’ provocatorio, è rimasto sullo sfondo degli interventi che nell’edizione 2017 del jENS hanno approfondito gli aspetti della Family Centered Care.
A chi appartiene il bambino ricoverato in ospedale?
Questo interrogativo, un po’ provocatorio, che sembra sondare l’ovvio, è rimasto sullo sfondo degli interventi che nell’edizione 2017 del jENS (Congress of joint European Neonatal Societies) hanno approfondito gli aspetti relazionali e comunicativi connessi al ricovero in ospedale di un bambino malato e della sua famiglia.
Senza ovviamente la pretesa di scandagliare le connotazioni legali ed etiche (il concetto di “appartenenza” di un essere umano ad un altro non va proprio a braccetto con le nozioni sui diritti umani) è abbastanza condivisa l’idea che la tutela del minore, anche quando questo è malato e ricoverato, rimane affidata ai suoi genitori.
La Family Centered Care al jENS di Venezia
Eppure, nonostante appaia come un concetto acquisito, resta a quanto pare ampio spazio al dibattito, se per due giornate si è discusso di Family Centered Care, di come favorire il coinvolgimento dei genitori nei processi di cura, dei progressi fatti rispetto alle neonatologie di inzio ‘900 e di quanto però resta ancora da fare (tanto) per risolvere le criticità esistenti nel rapporto tra famiglie e staff sanitari.
Immagine 1- Reparti di Neonatologia a inizio ‘900
L’approccio Family Centered Care si basa sull’idea centrale che la famiglia è la costante e principale fonte di supporto e stabilità nella vita di un bambino e che i genitori sono i massimi esperti della sua cura e debbano quindi essere sistematicamente coinvolti nelle decisioni mediche, nelle attività assistenziali, nella valutazione degli esiti del servizio sanitario fornito.
Nella realtà però il rapporto tra genitori e operatori è tutt’altro che semplice e si regge su una serie di equilibri delicati e potenziali attriti; può ad esempio accadere che entrambi siano rispettivamente convinti di avere maggiormente a cuore il benessere del bambino e che si contendano il diritto di decidere come meglio tutelarlo, a discapito però dell’alleanza terapeutica, indispensabile nel processo di cura.
Immagine 2 – Slide dal convegno: i potenziali attriti tra genitori e personale sanitario
Il professor Latour, dell’Università di Plymouth, ammette che i principi della Family Centered Care, benché riconosciuti e implicitamente condivisi, sono tuttora poco praticati nelle realtà di reparto, per una quantità di ragioni, sia individuali che organizzative.
La ricerca sta cercando di raccogliere evidenze che dimostrino come una separazione precoce e forzata dei neonati dai loro genitori, soprattutto in caso di nascita prematura o con patologie, abbia poi ripercussioni a lungo termine sullo sviluppo cognitivo e comportamentale; dimostrare questo darebbe senz’altro un forte impulso alla piena accoglienza delle famiglie negli ospedali, se non altro in un’ottica di prevenzione di costi assistenziali sul medio e lungo periodo (perché non va dimenticato che gli ospedali, al di là degli intenti filantropici, sono prima di tutto Aziende).
Alcune ricerche stanno dando risultati interessanti, ma quest’ipotesi è tuttora piuttosto controversa. Esistono però indicatori già assodati che giustificano l’urgenza di rendere le famiglie protagoniste attive della cura; la dimissione è più veloce quando i genitori acquisiscono precocemente il proprio ruolo, il contatto pelle a pelle favorisce la regolazione fisiologica dei piccoli e ne migliora la tolleranza alle procedure dolorose, la vicinanza fisica incoraggia e promuove l’allattamento al seno, il linguaggio genitoriale è fondamentale per promuovere le prime vocalizzazioni, l’ingaggio delle madri nella cura riduce il rischio di insorgenza di depressione post parto.
Mats Eriksson dell’Università di Orebro e Bonnie Stevens dell’Università di Toronto richiamano inoltre all’importanza della stretta collaborazione con i genitori per la misurazione e il trattamento del dolore; i genitori sono infatti i massimi esperti anche nell’interpretazione dei segnali di sofferenza o di sollievo del loro bambino.
Malgrado ciò molti operatori restano convinti che coinvolgere i genitori nelle procedure dolorose sia in realtà fonte di estrema angoscia e quindi pensano, escludendoli, di esercitare un desiderio di protezione. C’è l’idea che allontanare i genitori in certi momenti li protegga da un ulteriore carico emotivo e permetta allo staff di esercitare una propria responsabilità, ossia quella di assumersi il carico di gestire la situazione quando il genitore, troppo coinvolto emotivamente, non sarebbe in grado di farlo.
In questo emerge il rischio che la Family Centered Care si riduca ad una sorta di benevolente paternalismo dove, malgrado le migliori intenzioni dell’operatore, il ruolo dei genitori si riduce a quello che l’infermiere permette loro di fare.
Questo anche perché è ancora diffusa tra gli operatori una convinzione di base secondo cui i genitori non dovrebbero occuparsi di attività inerenti l’assistenza infermieristica, bensì limitarsi allo stare vicini al bambino, coccolandolo e garantendo un accudimento di base; tutto ciò collude anche con il bisogno dell’operatore, talvolta inespresso, di sentirsi riconosciuto nel proprio ruolo di esperto e di mantenere inalterati alcuni confini.
Anna Axelin, del Dipartimento di Scienze Infermieristiche dell’Università di Turku, ribadisce invece come la facilitazione da parte degli operatori a favore del ruolo attivo dei genitori resti la componente chiave per trasferire in maniera funzionale sulle famiglie la responsabilità della cura dei bambini, soprattutto in un’ottica di ritorno alla vita a casa.
L’aspetto psicoeducativo viene riconosciuto come cruciale, anche considerando che l’esigenza di informazioni adeguate, corrette e comprensibili rimane tra quelle prioritarie espresse dalle famiglie.
Non sono mancate le raccomandazioni di rito a mantenere costante un atteggiamento empatico e comprensivo, precursore di qualunque relazione terapeutica efficace.
Immagine 3 – Slide dal convegno: l’importanza di un atteggiamento empatico
Questo ovviamente vale non soltanto nei confronti delle famiglie (due genitori all’apparenza aggressivi non dovrebbero mettere l’operatore automaticamente sulla difensiva, bensì in ascolto della loro sofferenza) ma anche degli operatori (va ricordato che medici e infermieri non sono degli aitanti robot, bensì persone normali che portano a loro volta nella relazione il proprio bagaglio personale di seccature quotidiane, inquietudini, problemi famigliari, lutti e frustrazioni).