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Il problema di San Paolo – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Sia in terapia che nella vita quotidiana spesso si ripetono comportamenti dannosi nonostante se ne conoscano i rischi e ciò provoca rabbia o tristezza.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 19 Set. 2017

E’ di facile osservazione in psicoterapia e, per non andare lontano, nella nostra vita quotidiana la presenza di comportamenti che si ritengono utili ma, nonostante si sia effettivamente convinti della loro bontà e giustezza, non si riescono a mettere in atto. Al contrario ce ne sono altri che, pur valutati inutili e dannosi, non si riesce ad interrompere.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il problema di San Paolo (Nr. 24)

Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Romani 7,18-19).

 

La difficoltà di interrompere comportamenti dannosi

Sia gli uni, il buono che non si pratica, sia gli altri, il cattivo che non si abbandona attraversano il territorio della patologia come quello della normale vita quotidiana. Ne sono classici esempi: non seguire una dieta o non fare attività fisica nonostante lo si ritenga importante, non smettere di fumare, bere o assumere cibi o sostanze dannose e, più in generale non abbandonare tutte le cosiddette cattive abitudini e non praticare quelle che all’opposto si ritengono buone. Non interrompere relazioni o progetti che provocano danni e sofferenza e non intraprenderne altri evidentemente vantaggiosi.

Se poi si entra nel campo della psicopatologia appartengono a questa categoria tutti i sintomi (un evitamento fobico, un rituale ossessivo, un’abbuffata, ecc.) tant’è che il paziente intraprende una terapia proprio per eliminare comportamenti che lui stesso ritiene negativi e viceversa per assumerne altri che ritiene virtuosi.

Al danno poi si aggiunge la beffa quando il soggetto se la prende con se stesso (rabbia) o si svaluta (tristezza) per non riuscire a fare ciò che ritiene buono e giusto raggiungendo quel doppio stato di sofferenza che gli autori di scuola salernitana defininiscono come il mood del “cornuto e mazziato”caratterizzato da tutti quei rimproveri che si fanno a se stessi per non essere o comportarsi come si vorrebbe e che in terapia cognitiva si definiscono “problemi secondari” per intendere che diventa un problema pure avere il primo problema (fonte ispiratrice della fortunata serie “senza pace”).

E’ da comprendere meglio per poterlo superare lo iato esistente tra il capire e l’agire di conseguenza che nella vita di tutti i giorni o in terapia ci viene riferito o raccontiamo a noi stessi con frasi del tipo “ non ce la faccio!”, “E’ più forte di me!”, “Vorrei, dovrei, ma non posso, non riesco”. Insomma, il materiale di cui sono fatte le buone intenzioni destinate a rimanere tali per essere utilizzate per la pavimentazione delle strade che conducono ai nostri inferni privati.

I comportamenti negativi hanno dei vantaggi immediati ai quali non si intende rinunciare

In primo luogo bisogna capire che anche il comportamento giudicato negativo comporta dei vantaggi e delle ricompense immediate, non è dunque senza senso: solo prendendolo sul serio, trattandolo con rispetto e ascoltando i suoi motivi si può gestirlo, non certo bollandolo come folle, insensato e, peggio, fuori dal nostro controllo. Ciò è importante perché i bisogni a cui, pur malamente e con troppi effetti collaterali, risponde andranno pur soddisfatti in qualche altro modo. L’alcol e la nicotina come pure gli evitamenti e le compulsioni procurano nell’immediato una piacevole riduzione della tensione ansiosa. Insomma funzionano e come!

Esaminiamo i modi di funzionare innati nella specie umana che ci impediscono di passare dallo stato attuale, reputato negativo allo stato desiderato.
Tutti i processi di scelta sono guidati da un automatico e rapidissimo bilancio costi/benefici delle varie alternative e la scelta cade infine su quella che ha più vantaggi e meno costi. Il più delle volte e soprattutto per le questioni più importanti tale bilancio è attuato a livello sottocorticale, fuori dalla consapevolezza e si fonda su apprendimenti antichissimi sia nella filogenesi che nell’ontogenesi. Insomma è decisivo quello che hanno imparato i nostri lontani progenitori e noi stessi da piccolissimi.

Tre bias intervengono però a inficiare questo processo se non viene fatto a freddo a tavolino ma in diretta nell’impellenza del vivere.
Il primo è che il peso emotivo negativo delle perdite è pari esattamente al doppio di quello positivo di un guadagno della stessa entità. Lo spread tra i due è molto elevato (oltre 200 punti base). Il chè se è stato evolutivamente vantaggioso facendoci prudenti e attenti soprattutto a non prenderle, ci rende anche tendenzialmente conservatori e diffidenti del cambiamento perché ciò che si perderebbe lasciando il comportamento attuale è soppesato con la valuta pesante delle perdite mentre i vantaggi dello stato desiderato hanno il cambio svalutato dei guadagni.

Il secondo è che mentre il danno della perdita è sicuro e soprattutto immediato, il vantaggio dello stato desiderato è spostato nel futuro e neppure assolutamente certo. Il fondatore della psicoterapia cognitiva Aaron Beck esprimeva questo concetto centrale con la sua celebre frase “ the egg is here and now, the chicken perhaps tomorrow but I don’t know” che riporto controvoglia in inglese perché la traduzione in italiano è meno pregnante ma sta a significare che la certezza rappresenta un fattore importante nel determinare la preferenza di qualcosa rispetto a qualcos’altro. Il piacere di una buona bevuta, di una sigaretta, una canna o una scopata come Dio comanda, è immediato e certo, mentre la cirrosi, il cancro al fegato o ai polmoni, i sensi di colpa e le legnate del di lei marito non sono affatto certi e comunque non imminenti e con l’ottimismo infondato che anima la nostra specie circa la nostra possibilità di controllo sugli eventi tendiamo a pensare che non capiterà di certo a noi e comunque tocca anche a chi non fuma, non beve e si comporta secondo codice penale e galateo.

Il terzo è che per cambiare il corso naturale degli eventi sono necessari più motivi (circa il doppio) di quanti ne servano per lasciare le cose come sono. Solo un intervento attivo sembra comportare la responsabilità mentre a rigor di logica, la passività è altrettanto responsabile. Sono ben noti gli esperimenti sulla difficoltà ad azionare uno scambio sulle rotaie di un treno impazzito che causerà la morte di un certo preciso individuo pur salvandone altri. Sembra che alla fin fine si tenti di scongiurare più la propria responsabilità che i fatti in sé (gli ossessivi insegnano).

Cosa fare?

Come si può risolvere il problema di Paolo da soli o con l’aiuto di un terapeuta senza necessariamente fondare una religione ed una Chiesa che nella convulsa vita moderna è poco pratico?

Il primo passo è riappropriarsi dell’agentività sul comportamento problematico evidenziando gli scopi che persegue e i vantaggi che comporta per vedere se siano ottenibili in altri modi più egosintonici. Non dirsi scempiaggini tipo “lo faccio per danneggiarmi”, “ perché sono masochista”, “ perché non mi voglio bene”. Un comportamento può avere effetti collaterali dannosi e financo letali ma sono appunto costi indesiderati del perseguimento di qualcosa giudicato molto importante anche se non è evidente immediatamente alla consapevolezza.

Il secondo passo è descrivere lo stato attuale in termini di perdite che comporta immediatamente nel presente piuttosto che di costi o minacce future che forse implicherà. Smetterò di fumare non per il possibile cancro ai polmoni ma per gli amplessi che il mio partner oggi mi nega se puzzo di nicotina o per la cattiva immagine che do di me stesso comportandomi da dipendente oppure per le perdite di viaggi, spettacoli e luoghi cui debbo rinunciare per non poter stare senza sigarette. Anche l’utilizzo di rinforzi positivi da associare ai comportamenti virtuosi e punizioni ai comportamenti negativi hanno efficacia solo se in un ambito temporale molto ristretto e certi. Il malessere che provoca il disulfiram dopo l’assunzione di alcol è efficace per smettere più dello spettro di una morte per cirrosi perché si manifesta subito, non è una possibilità spostata in un incerto futuro. Nel fare i bilanci che orientano le scelte siamo particolarmente miopi e partiamo da due assunti appartenenti alla tradizione stoica secondo cui “oggi ci siamo e domani vai a sapere!” ed epicurea che ci ricorda che “ogni lasciata è persa”.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

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