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Al di là della paura: la psicologia del terrorismo

Spesso chi commette atti di terrorismo non ha personalità sadica o psicopatica, bensì è una persona ordinaria che viene condizionata da dinamiche di gruppo

Di Giulia Grigi, Guest

Pubblicato il 23 Ago. 2017

Aggiornato il 05 Set. 2019 12:40

Dopo gli avvenimenti del Settembre del 2001 il terrorismo è diventato una minaccia incombente e quotidiana che ha turbato la serenità collettiva. Negli ultimi anni le paure ad esso connesse hanno raggiunto l’apice storico.

Giulia Grigi, Carmine Rescigno – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Dopo gli attentati recenti in Francia, in Belgio e in Inghilterra, l’Europa e il Mondo sono ripiombati nuovamente in un clima di sgomento e di terrore. Il terrorismo è divenuto uno di quei temi con i quali ci ritroviamo a fare i conti quotidianamente, quasi costretti a confrontarci con questa nuova realtà sempre più incalzante.

Terrorismo, adolescenti e internet

Sempre più giovani adolescenti, vengono reclutati tra le fila degli aspiranti attentatori. Dounia Bouzar, antropologa impegnata in Francia in un lavoro di decondizionamento delle menti dei giovani, sedotte da questo ideale, fa notare che soltanto uno stimolo emozionale, e non cognitivo, legato alla ragione può liberare questi giovani dalla chiamata alle armi. La Bouzar avverte i genitori riguardo la necessità di avvertire i propri figli riguardo i pericoli nascosti in Internet, piattaforma per il reclutamento delle nuove giovani leve al servizio della Jihad contro il mondo occidentale.

Il web rappresenta un vero e proprio nodo cruciale nella strategia di ISIS che è fondata principalmente sulla diffusione virale dei propri contenuti online. I social network come Facebook, Youtube, Twitter diventano parte integrante di un marketing del terrore che assume sempre più i toni di una propaganda mondiale, forte soprattutto dell’abile utilizzo da parte degli estremisti della lingua inglese.

Psicologia del terrorismo: cosa accade nella mente di un attentatore

A questo punto nasce spontaneo interrogarsi sulla psicologia del terrorismo, in particolare sulla psicologia della mente di un attentatore.

Innanzitutto quali meccanismi rendono qualcuno un fanatico? Una ipotesi è stata avanzata dagli psicologi sociali Stephen D. Reicher e S. Alexander Haslam (2016), i quali suppongono che in molti casi i terroristi non siano personalità sadiche o psicopatiche come saremmo portati a pensare, bensì persone ordinarie che vengono condizionate da dinamiche di gruppo nel commettere degli atti di efferata atrocità in nome di una percepita giusta causa.

Reicher e Haslam ci spiegano che queste dinamiche tendono ad influenzare anche noi, in quanto le nostre paure e le nostre reazioni esagerate possono produrre dei livelli più elevati di estremismo, dando vita ad un ciclo che è stato denominato “co-radicalizzazione”. Un’altra importante questione ci porta a riflettere e a porci degli interrogativi riguardo al come possono dei terroristi, esseri umani, trattare con tanta crudeltà altri esseri umani, e soprattutto come questo possa risultare fascinoso sui giovani e cosa hanno in mente questi, quando scelgono come obiettivo dei civili innocenti?

Molti potrebbero saltare a conclusioni affrettate, solamente dei sadici o degli psicopatici – individui del tutto diversi da noi – potrebbero indossare un giubbotto imbottito di esplosivo o imbracciare un fucile e fare fuoco all’impazzata. Ma purtroppo questa prospettiva pare errata. Grazie agli esperimenti fatti tra il 60 e il 70 in psicologia sociale siamo venuti a conoscenza che individui sani e senza nessuna particolare psicopatologia erano in grado di poter infliggere senza provare alcuna forma di rimorso danni molto gravi ad altre persone. Questo viene dimostrato nel celeberrimo esperimento tratto dallo studio di Millgram (1978) sull’obbedienza all’autorità che dimostra che il suo campione di soggetti dei test era pronto a infliggere quelle che ritenevano essere delle scariche elettriche letali semplicemente perché questo veniva espressamente chiesto da ricercatori in camice bianco.

Successivamente un altro esperimento di Zimbardo (1972) ha dimostrato che gli studenti a cui veniva assegnato il ruolo di guardie carcerarie erano disposti a infliggere qualsiasi sorta di umiliazione e a commettere ogni genere di abuso sugli studenti che impersonavano i prigionieri. Questi studi appena citati hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani può commettere atti di violenza se si trova in una determinata condizione. E vale lo stesso discorso per i terroristi. Da un punto di vista della psicologia del terrorismo, tutti coloro che aderiscono a gruppi estremisti non sono dei mostri, ma come afferma l’antropologo Scott Atran studioso di questa tipologia di assassini,  ma gente ordinaria. Quello che trasforma una persona in un fanatico, spiega Atran “non è qualche inerente difetto di personalità, ma piuttosto la dinamica trasformatrice della personalità che si stabilisce nel gruppo” a cui appartiene.

Secondo Millgram e Zimbardo lo sviluppo di queste dinamiche di gruppo è correlato con il conformismo, ovvero l’obbedienza ad un leader oppure il sottostare al punto di vista della maggioranza. Numerosi studi che hanno abbracciato la gran parte dell’ultimo mezzo secolo hanno aumentato la nostra comprensione circa il comportamento delle persone all’interno dei gruppi. In particolare, stiamo imparando che la radicalizzazione non avviene dal nulla ma è portata in essere, almeno in parte, da tensioni tra i gruppi che gli estremisti pianificano di creare, sfruttare e provocare. Se si riesce a convincere un numero sufficiente di non-Musulmani a guardare i Musulmani con timore e ostilità, allora i Musulmani che fino a quel momento si erano mantenuti su posizioni moderate potrebbero sentirsi ignorati e prestare orecchio alla chiamata delle voci fondamentaliste.

Allo stesso modo, se si può convincere un numero sufficiente di Musulmani a manifestare ostilità verso gli Occidentali, allora la maggioranza in Occidente potrebbe iniziare a sostenere una leadership più disposta al conflitto. Sebbene spesso pensiamo ai fondamentalisti islamici e agli islamofobi come poli opposti, in realtà le due posizioni sono inestricabilmente interconnesse. E questa consapevolezza comporta che le soluzioni alla piaga del terrore devono riguardare entrambe le parti. Le scoperte di Milgram e Zimbardo hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani potrebbe abusare degli altri. Se si guarda attentamente ai risultati, però, la maggior parte dei soggetti non lo ha fatto (per i risultati dei singoli esperimenti vedi bibliografia).

Identificazione e disidentificazione

Quali sono gli elementi peculiari di coloro che lo hanno fatto? Henry Tajfel e John Turner, sostenevano che il comportamento di un gruppo e l’influenza del suo leader dipendessero da due fattori collegati tra di loro: l’identificazione e la disidentificazione, cioè affinché qualcuno si lasci influenzare dal gruppo ci si deve identificare con i membri del gruppo e al tempo stesso distaccare dagli esterni al gruppo, ritenendo che questi ultimi non abbiano niente a che spartire con sé.

Hanno trovato conferma di queste dinamiche nel loro lavoro gli studiosi di psicologia sociale S.D. Reicher e A. Haslam (2016), che ha rivisitato i paradigmi di Milgram e Zimbardo. Attraverso un buon numero di studi diversi, abbiamo scoperto consistentemente che, proprio come avevano sostenuto Tajfel e Turner, i soggetti sono disposti ad agire in maniera oppressiva solo a patto di aderire alla causa a cui gli è stato in precedenza chiesto di aderire – e disidentificarsi con coloro a cui devono fare del male. Più ritengono giusta la causa, più giustificano i loro atti come sgradevoli ma necessari.

Questa comprensione – cioè che è l’identità sociale e non la spinta a conformarsi che determina il punto fin cui si è disposti a spingersi – ben si accorda con le scoperte sulle motivazioni dei terroristi. Nel suo libro del 2004 Comprendere i Network del Terrore, lo psichiatra forense Mark Sageman, un ex ufficiale della CIA, sottolinea che i terroristi sono in genere autentici credenti che capiscono esattamente quello che stanno facendo. “I Mujaddin erano killer entusiasti“, fa notare, “non robot che rispondevano semplicemente alle pressioni sociali o alle dinamiche di gruppo“. Sageman non sminuisce l’importanza di leader carismatici come Osama Bin Laden e Abu Bakr Al-\Baghdadi dell’ ISIS, ma ha suggerito che provvedono più a fornire ispirazione che a dirigere le operazioni, impartire ordini o tirare i fili.

In realtà, vi è una scarsa evidenza documentata di marionettisti che orchestrino gli atti terroristici, per quanto il linguaggio dei media spesso lasci intendere il contrario. Il che ci porta al secondo recente sviluppo per quanto riguarda il nostro pensiero sulle dinamiche di gruppo: abbiamo osservato che quando le persone si pongono sotto l’influenza di autorità, malevole o meno, solitamente non assumono atteggiamenti servilistici, ma piuttosto trovano strade uniche e individuali per portare avanti gli obiettivi del gruppo. Dopo che l’esperimento della prigione di Stanford si era concluso, per esempio, una delle guardie più zelanti ha chiesto al prigioniero di cui aveva abusato che cosa avrebbe fatto al suo posto. Il prigioniero replicò: “Non credo che avrei avuto tanta inventiva quanta ne hai avuta tu. Non credo che sarei riuscito ad essere così creativo in quello che facevo. Non sarei riuscito a realizzare un capolavoro come il tuo“. Anche i singoli terroristi tendono ad essere sia autonomi sia creativi, e l’assenza di una struttura gerarchica di comando è ciò che rende il terrorismo così difficile da combattere.

Il ruolo dei leader

Sorge spontanea la domanda sulla strategia impiegata da parte dei leader di queste cellule sul come facciano ad attrarre nuovi seguaci senza impartire ordini diretti. La risposta potrebbe arrivare da scoperte passate che sottolineano il ruolo che i leader giocano nel costruire un senso di identità e scopo condivisi per un gruppo, aiutando i membri a trovare una cornice di riferimento per interpretare le loro esperienze. Rafforzano i loro seguaci stabilendo una causa comune e rafforzano sé stessi nel formarla. In realtà, gli esperimenti di Milgram e Zimbardo sono lezioni autorevoli sul come creare una identità condivisa e poi impiegarla per mobilitare le persone verso fini distruttivi.

Proprio come i due hanno convinto i soggetti dei loro studi a infliggere dolore nel nome del progresso scientifico, così i leader di successo hanno bisogno di far passare l’impresa che hanno in programma per il loro gruppo come onorevole e nobile.

Sia al Qaeda sia l’ISIS sfruttano questa strategia. Una larga parte del fascino che esercitano sui simpatizzanti è dovuta al fatto che promuovono il terrore nel nome di una società migliore, una che si richiama alla comunità pacifica che circondava il profeta Maometto. È cruciale, tuttavia, che la credibilità e influenza dei leader – specialmente quelli che promuovono il conflitto e la violenza – dipenda non solo da ciò che dicono e fanno ma anche dal comportamento dei loro oppositori. Prove di ciò sono emerse dopo una serie di esperimenti condotti da uno studio di Haslam e Ilka Gleibs (2016) che hanno studiato come la gente scelga i propri leader. Una delle scoperte chiave è stata che le persone sono più bendisposte a supportare un leader bellicoso se il loro gruppo si trova in contrasto con un altro gruppo che ha una attitudine belligerante.

Proprio come l’ISIS fomenta i politici radicali in Occidente, così quei politici indirettamente e forse inconsapevolmente fomentano l’ ISIS per ottenere sostegno. Questo scambio è parte di quello che lo studioso delle religioni Douglas Pratt dell’Università di Waikato in Nuova Zelanda ha denominato co-radicalizzazione. E in essa si può individuare il vero potere del terrorismo: può essere utilizzato per provocare altri gruppi affinché considerino il proprio stesso gruppo come pericoloso – il che consolida i seguaci di quei leader che predicano l’inimicizia. Il terrorismo non riguarda tanto il diffondere la paura nello stato di cose vigente, ma nel modificare quello stato di cose seminando sfiducia e ulteriore conflitto.

Nel febbraio 2015 la rivista dell’ISIS Dabiq ha pubblicato un editoriale intitolato “L’ estinzione della zona grigia“. I suoi autori si lamentavano del fatto che molti Musulmani non vedessero l’Occidente come il loro nemico e che molti rifugiati fuggiti da Siria e Afghanistan in realtà vedessero i paesi occidentali come luoghi di opportunità. Invocavano la fine della ‘zona grigia’ di coesistenza costruttiva e la creazione di un mondo nettamente diviso tra Musulmani e non Musulmani, nel quale ciascuno o sta dalla parte dell’ISIS o dalla parte dei kuffar (miscredenti). Inoltre spiegava l’attacco alla sede del magazine francese Charlie Hebdo esattamente in questi termini: “Il tempo era giunto per un nuovo evento – magnificato dalla presenza del Califfato sul palcoscenico globale – per portare nuova divisione nel mondo”.

Sintetizzando, il terrorismo si basa tutto sulla polarizzazione. Si tratta di riconfigurare le relazioni intergruppali in modo che le leadership radicali sembrino offrire la soluzione più sensata per affrontare un mondo di sfide radicali. Da questo punto di vista, il terrorismo è il completo opposto della distruzione insensata. E’ piuttosto una strategia conscia – ed efficace – per attirare seguaci nell’ambito dei leader disposti al conflitto. In questo modo, quando si tratta di capire perché i leader radicali continuino a fomentare il terrorismo, abbiamo bisogno di porre in esame sia le loro azioni sia le nostre reazioni.

La lotta al terrorismo: attenzione alle azioni e alle reazioni

Attualmente le energie adoperate da molti paesi per contrastare il terrorismo, prestano poca attenzione al modo in cui le nostre reazioni vadano a costituire l’antefatto delle loro azioni. Queste iniziative si concentrano esclusivamente sugli individui e si aspettano che qualcosa mini il senso di sé e la determinazione di qualcuno: discriminazione, la perdita di un genitore, il bullismo, un trasferimento, o qualsiasi cosa che lasci la persona confusa, incerta e sola.

Lo psicologo Erik Erikson (1968) ha notato che i giovani con una identità ancora in costruzione sono particolarmente vulnerabili a questo tipo di deragliamento. Di conseguenza diventano facili vittime di gruppi che affermano di offrire una comunità di supporto nel perseguimento di un nobile obiettivo. Questa potrebbe essere una parte importante del processo con il quale le persone vengono attirate all’interno di organizzazioni terroristiche. Una grande quantità di prove indica l’importanza dei legami dei piccoli gruppi e, secondo Atran e Sageman (2010; 2016), i terroristi islamici sono caratteristicamente fondati su piccole associazioni di parenti e amici intimi. Molti gruppi creano legami affettivi centrati su una causa comune: gruppi sportivi, gruppi culturali, gruppi di difesa dell’ambiente. Anche tra le fazioni religiose – inclusi i gruppi islamici – la grande maggioranza offre un senso di comunanza e di significanza senza con ciò promuovere la violenza. Allora perché, nello specifico, alcune persone sono attratte dai pochi gruppi islamici che predicano il confronto violento?

È ipotizzabile che questi gruppi offrano molto di più che la semplice consolazione e supporto. Offrono anche delle narrative adatte alle loro reclute e li aiutano a trarre senso dalle loro esperienze. E in quel caso, bisogna esaminare seriamente le idee che i gruppi islamici militanti promuovono – inclusa la nozione che l’Occidente sia un nemico di sempre che odia tutti i Musulmani. Forse che le nostre reazioni maggioritarie in qualche modo finiscano per supportare le tendenze radicalizzanti nelle comunità islamiche minoritarie? Forse che la polizia, gli insegnanti e altre figure di rilievo facciano sentire i giovani islamici in Occidente esclusi e rigettati – in maniera tale che arrivano a vedere lo stato meno come un protettore e più come il loro avversario? Se è così, in che modo ciò cambia il loro comportamento?

In uno studio attualmente in corso, Reicher in collaborazione con Blackwood e Hopkins hanno condotto una serie di sondaggi individuali e di gruppo all’interno degli aeroporti scozzesi nel 2013. Abbiamo scoperto che la maggior parte degli Scozzesi – islamici e non islamici – hanno un chiaro senso di ‘tornare a casa’ dopo i loro viaggi all’estero. Eppure molti musulmani scozzesi provavano l’esperienza di essere trattati con sospetto ai controlli aeroportuali. Chiedendosi il perché di essere stati perquisiti, il perché di aver risposto a tutte quelle domande e il perché vengano portati in una stanza separata.

Questa esperienza di “misriconoscimento” ovvero di trovarsi in una situazione in cui gli altri dubitano o negano una data identità, ha provocato ira e cinismo verso le autorità. Ha condotto queste persone a prendere le distanze dalla gente dal chiaro aspetto britannico. Per essere chiari, il misriconoscimento non trasforma istantaneamente gente altrimenti moderata in terroristi o estremisti. Nonostante questo, ha iniziato a spostare la bilancia del potere dai leader che dicono: “Collaborate con le autorità; sono vostre amiche”, verso quelli che insistono: “Le autorità sono vostre nemiche.”

I leader delle minoranze radicali usano la violenza e l’odio per provocare le autorità maggioritarie a istituire una cultura di sorveglianza contro i membri dei gruppi minoritari. Questa cultura provoca misriconoscimento, che porta al disimpegno e alla disidentificazione dalla cultura maggioritaria. E questa presa di distanze può rendere gli argomenti dei radicali più difficili da ignorare. In conclusione si potrebbe affermare che da sole le voci delle minoranze radicali non bastano a radicalizzare qualcuno né bastano le esperienze individuali di questo qualcuno. Ciò che è efficace, invece, è il mix delle due cose e la loro caratteristica di rinforzarsi e amplificarsi a vicenda.

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