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Rojava calling: creare gruppi di resilienza nel nord-est della Siria

Reportage da un'esperienza di training in Siria per creare Resilience Group, facendo formazione agli operatori locali della mezza luna rossa curda.

Di Cristina Angelini, Guest

Pubblicato il 11 Mag. 2017

Aggiornato il 04 Lug. 2019 12:30

Resilience Group, cominciamo dalla fine. Siamo sulle rive del fiume Tigri, un nome che evoca storie antichissime. Questo tratto del fiume segna il confine tra l’Iraq e la Rojava, la regione del nord della Siria ora sotto il controllo dei curdi. È da lì che stiamo tornando, avendo terminato il nostro lavoro.

Cristina Angelini, Edoardo Pera

 

La gente attraversa il fiume su barche a motore che assomigliano a mezzi anfibi militari. Stiamo aspettando che ne arrivi una per noi. Tra le famiglie in attesa, i pacchi e le valigie improvvisate, anche dei bambini con dei fiori in mano. Sbarca un giovane con la sua famiglia e tutti corrono verso di loro. Il giovane bacia la mano di un anziano in segno di rispetto, ma l’altro lo bacia sulle guance, tenendogli teneramente la testa tra le mani come se non credesse ai suoi occhi. Le lacrime solcano le sue molte rughe. Rughe antiche, bruciate dal sole. Anche altri piangono, chissà da quanto tempo non si vedevano o se avevano perso la speranza di ricongiungersi. Questa è terra di separazioni e lutti, di forti emozioni.

Anche noi siamo commossi, ci teniamo un po’ in disparte di fronte al loro momento. Con queste immagini nel cuore lasciamo questa parte della Siria. Speriamo di tornarci. Anche se nel freddo di questo marzo il riscaldamento ha funzionato poco e l’acqua calda ancora meno. Anche se l’elettricità fornita dal “governo” andava e veniva e si restava al buio finché non partivano i generatori. Ma il calore, la determinazione e la gentilezza della sua gente ci hanno toccato profondamente.

 

Il training per creare i Resilience Group in Siria

Repressa dal regime di Assad prima e ora in prima linea contro l’Isis, la popolazione ha un alto livello di traumatizzazione; tutti hanno morti in famiglia, martiri di una guerra che cambia avversari ma sembra non finire mai.

Un Ponte Per (UPP), associazione di volontariato nata nel 1991 subito dopo la fine dei bombardamenti in Iraq, fa ora interventi in molti altri paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo. E’ tra le poche Ong presenti in Rojava lavorando già da tempo in partnership con la Mezza Luna Rossa curda, l’equivalente della nostra Croce Rossa, fornendo farmaci e supportando i servizi di prima emergenza.

Ora ha proposto un training per creare Resilience Group per bambini, soprattutto profughi di Mosul, facendo formazione a circa venti operatori della Mezza Luna, nessuno con uno specifico background psicologico: nessuno psicologo, nessun assistente sociale o educatore; solo infermiere, paramedici che operano sulla linea del fronte e qualche ex insegnante. A questo gruppo, eterogeneo ma accomunato dal non avere alcuna nozione di psicologia, e soprattutto di psicologia infantile, abbiamo fatto un training di formazione di cinque giorni pieni, con una traduzione dall’inglese al curdo e all’arabo.

Resilienza, come è noto, è un termine che viene dallo studio dei metalli, e indica la capacità di un materiale di tornare allo stato originario dopo essere stato stressato in vari modi.  L’American Psychological Association definisce la resilienza come il processo di riuscire ad adattarsi in risposta a significativo stress, trauma e avversità. Sottolinea anche che la resilienza non è un fenomeno straordinario e neanche soltanto un tratto di personalità che le persone hanno o non hanno, ma che può essere stimolata e incrementata.

I Resilience Group sono quindi gruppi creati per tutti coloro, in questo caso bambini e adolescenti, che vivono in condizioni di stress significativo (in situazioni di guerra, in campi di rifugiati ecc.). Vi si fanno attività non necessariamente terapeutiche ma che promuovano le relazioni, che siano piacevoli e strutturate e che dunque in questo modo promuovano salute.

La IASC (Inter Agency Standing Committee), punto di riferimento per il supporto psico-sociale e la salute mentale in situazioni di emergenza, evidenzia che i Resilience Group vanno ad agire sul livello del supporto familiare e comunitario, rinforzando le risorse esistenti e cercando di ridurre il numero di coloro che avranno bisogno di aiuto psicologico o psichiatrico specialistico (1). Ma anche chi ha bisogno di questo aiuto più specialistico beneficia moltissimo dell’essere incluso in questi gruppi di incontro, gioco, scambio tra pari, che si svolgono settimanalmente in uno spazio strutturato con uno o due facilitatori e con una partecipazione attiva dei partecipanti. La scelta delle attività avviene infatti insieme ai bambini: è per renderli parte attiva e dare loro la possibilità di scegliere qualcosa nella loro vita. L’approccio self-help è infatti vitale per chi è passato attraverso l’esperienza di uno stress soverchiante e permette di recuperare una qualche misura di controllo su alcuni aspetti della propria vita, cosa che già di per sé promuove la salute mentale.

Il gruppo funziona inoltre come opportunità di screening secondario per osservare i bambini in un contesto “naturale”, tra pari, durante attività sociali e per un tempo più lungo, e non durante un colloquio individuale, spesso durante un assessment veloce.  Così è più facile individuare chi ha bisogno di aiuto specialistico, bambini con comportamenti anomali o che hanno svelato nel gruppo situazioni di sofferenza o abuso, a volte parlandone direttamente, a volte attraverso il disegno.

Abbiamo creato gruppi di resilienza per bambini e adolescenti già in Giordania e in Libano, soprattutto per i rifugiati siriani. A volte nei campi profughi, altre nei centri di salute tipo consultori creati nei progetti di AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo). Ci sono molte ricerche internazionali che mostrano come funzionino bene e restituiscano la possibilità di uno spazio sicuro, regolare e strutturato nel mezzo del caos di un’emergenza, di una migrazione forzata, di perdite e lutti (2).

 

Le criticità che emergono nei gruppi di resilienza

Però.

C’è un però che abbiamo spesso osservato all’interno dei gruppi di resilienza. C’è sempre un momento critico, quello in cui un bambino/a, nel mezzo di un gioco, parla del lutto di un genitore (non ho più la mamma…) o di qualcuno disperso (non so più niente di mio papà…), o di un bombardamento cui ha assistito, ecc. Spesso in questo momento il facilitatore, anche se bravissimo a relazionarsi coi bambini ed espertissimo di giochi, non sa come reagire, c’è un attimo di gelo. Questo blocco può essere dannosissimo, può rimandare a quel bimbo o quella bimba che quello è un argomento tabù e che è meglio non parlarne più.

Si può fare qualcosa per evitare che questo accada? Anche se il gruppo non è condotto da psicologi clinici? Noi crediamo di sì, e crediamo che possano essere dati strumenti d’intervento anche a personale non specializzato, specialmente in quei contesti in cui questo personale non è reperibile.

Molti credono che all’interno dei gruppi di resilienza non debbano essere sollevate questioni di natura psicologica perché rischierebbero di non essere gestite bene (lutti, traumi, violenza assistita ecc.). Il problema però è che queste questioni si sollevano da sole, se chi partecipa ai gruppi le ha vissute. Non è qualcosa che si può controllare. Noi abbiamo quindi deciso di dare anche agli operatori non specializzati strumenti per gestire questi momenti, per non lasciare il bambino che li ha sollevati, e anche tutto il gruppo che assiste, con l’idea che ci siano dei temi tabù connessi col dolore, con la rabbia ed in genere con le esperienze negative.

 

L’impiego della psico-educazione nei gruppi di resilienza

Quello che noi proponiamo ha a che fare con la psico-educazione e col prendere contatto con ciò che c’è. Nelle attività dei Resilience Group possono essere inseriti momenti di gioco riguardanti le emozioni: la visione di pezzi del film “Inside-out” per riconoscere le emozioni fondamentali; faccine con diverse espressioni da riconoscere; giochi di gruppo in cui i bambini devono dire come si sentirebbero in una serie di situazioni (belle e brutte) aiutando a sviluppare la loro funzione di monitoraggio metacognitivo, cioè la capacità di identificare i propri pensieri e le proprie emozioni. Sapere cosa proviamo aiuta parecchio a stare meglio, come evidenzia l’approccio di terapia metacognitiva interpersonale. Non riuscire a farlo crea un problema nella capacità autoriflessiva, ed è quindi difficile definire e descrivere pensieri, credenze, immagini e ricordi, lasciandoci in uno stato di confusione, anche dovuto al non riconoscere le risposte corporee che sono aspetti dell’emozione. (3).

E’ importante far dire dove sentiamo le emozioni nel corpo. “Io la tristezza la sento nel pancino”, “Io in gola perché non riesco a parlare”… e così via. Abbiamo disegnato la sagoma del corpo di ogni bambino, e lui/lei disegna ciò che prova nel punto del corpo in cui lo prova usando i colori: per esempio, il colore rosso se prova rabbia, nero per la tristezza, giallo per la gioia, blu per la paura, ecc.

Importante anche la normalizzazione delle emozioni: “Come ti senti a pensare tua mamma che non c’è più? Ti manca? Sei triste? Beh, è normale… Chi altro ha provato questo? Chi conosce un altro bambino che ha perso la mamma?”. Normalizzare le emozioni, soprattutto quelle brutte legate agli eventi negativi. Imparare a riconoscere ciò che si prova e a contestualizzarlo senza farsene spaventare, prendendo atto del fatto che non siamo i soli a provare certe cose e che certe emozioni sono naturali in risposta ad alcuni avvenimenti.

Cosa fare insieme ai bambini poi con queste emozioni? Per esempio si può disegnare la tristezza per farla andare via, disegnare la rabbia, perché disegnandola non facciamo male a nessuno, e guardandola diminuisce. Ma possiamo anche disegnare la gioia, le cose belle che abbiamo fatto nella nostra vita e le risorse che abbiamo, le nostre qualità, e disegnare un “posto sicuro”, o un bel ricordo a cui tornare per riviverne le emozioni (qui abbiamo trovato utilissimo aggiungere la stimolazione bilaterale dell’EMDR, anche fatta sotto forma di gioco come nell’ “abbraccio della farfalla”, in cui si incrociano le braccia facendo un lieve tapping alternato con le mani, simulando il movimento di due piccole ali) (4).

Utile anche misurare l’entità delle emozioni: quanto è forte ciò che senti da 0 a 10? Questo anche per poter successivamente misurare le variazioni nel termometro delle emozioni, un abbassamento di quelle negative e magari un innalzamento di quelle positive.

Per aiutare l’elaborazione del lutto può invece essere utile disegnare ciò che si è fatto di bello con la persona che non c’è più; disegnare un bel ricordo di lei, o cosa si avrebbe voluto fare con lei. E anche riflettere insieme su come possiamo onorare chi non c’è più, e per onorarne la memoria. Per esempio fare un bel disegno per lei, mandarle un pensiero gentile ecc. (5, 6).

Tutto questo aiuta a parlare di ciò che è difficile verbalizzare, ma proprio verbalizzandolo lo capiamo meglio, prendiamo confidenza e ci fa meno paura. Bisogna fare amicizia con la paura quando la paura è di casa. Imparare a riconoscere la rabbia e a non sentirci sbagliati e cattivi quando la proviamo, perché solo così riusciremo a modularla. E ricordare le esperienze belle vissute, che saranno nostre per sempre e che sono i mattoncini su cui costruire il futuro.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  1. IASC - Inter Agency Standing Committee, (2007). Reference Group for Mental Health and Psychosocial Support in Emergency Settings, “Mental Health and Psychosocial Support in Humanitarian Emergencies: What Should
Humanitarian Health Actors know?”
  2. “The mental health of children affected by armed conflict: Protective processes and pathways to resilience”, Theresa Stichick Betancourt and Kashif Tanveer Khan Harvard School of Public Health, Cambridge, MA, USA, Published in final edited form as:
Int Rev Psychiatry. 2008 June ; 20(3): 317–328.
  3. “Mental health of displaced and refugee children resettled in low-income and middle-income countries: risk and protective factors”
Ruth V Reed, Mina Fazel, Lynne Jones, Catherine Panter-Brick, Alan Stein, Lancet 2012; 379: 250–65sPublished Online August 10, 2013.
  4. G.Dimaggio, A.Montano, R.Popolo, G.Salvatore, “Terapia Metacognitiva Interpersonale”,  Cortina ed., 2013
  5. F. Shapiro, “Getting past your past” Rodale, 2012
  6. A.R. Verardo, R. Russo,“Tu non ci sei più e io mi sento giù”, Associazione EMDR Italia, 2006.
  7. A. Onofri, C. LaRosa, “Il lutto”, Giovanni Fioriti Editore, 2015
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