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Come salvarsi dall’impero del misero benessere? – Riflessioni sul vivere quotidiano

Come si può riuscire a curare maggiormente le relazioni se siamo assorbiti dalla velocità di un sistema che ci ruba pure il tempo di respirare?

Di Alessandra Cirincione

Pubblicato il 07 Mar. 2017

Aggiornato il 12 Giu. 2017 14:53

Un sistema impazzito, il nostro, che lascia poche vie d’uscita a chi vorrebbe cambiare la propria vita, un sistema che ruba il tempo e i valori per produrre ricchezza, ricchezza che altro non è se non schiavitù mascherata da libertà.

 

Una grande stanza, sessanta persone. La consegna del direttore della sessione formativa che sto per descrivere è di rimanere in silenzio e camminare, a passi lenti, e intanto osservare intorno ed osservarsi dentro. Su sessanta persone solo due, sguardo nello sguardo, resistono per diversi minuti senza mai perdersi. Per altri tenere lo sguardo fisso nell’altro anche solo per due secondi diventa faticoso, impossibile. Il silenzio sembra spogliarci dalle maschere che ci costruiamo con le parole, ed ogni sguardo che incrociamo sembra vada dritto nel nostro punto più sensibile, a fare luce là dove vogliamo che resti l’ombra.

Quello che ho appena descritto è uno degli esercizi di riscaldamento relazionale, che avviene nella prima fase degli incontri di gruppo condotti utilizzando i Metodi Attivi.

I Metodi Attivi sono una metodologia derivante dallo Psicodramma Classico, costituita da tutti quegli approcci esplorativi e quei linguaggi espressivi che privilegiano il fare anziché il pensare, l’azione invece che la parola, il sentire i propri vissuti piuttosto che il racconto degli stessi. Il pensiero e la parola subentrano solo in un secondo momento per integrare a livello cognitivo, il vissuto emotivo sperimentato durante la messa in scena delle proprie esperienze di vita.

La metodologia dei Metodi Attivi viene utilizzata prevalentemente nel lavoro di gruppo e in differenti contesti, da quello terapeutico a quello educativo e formativo. In questo caso specifico, i Metodi Attivi facevano parte di un programma di formazione rivolto agli educatori membri di un’ Associazione di volontariato internazionale che ha utilizzato questo metodo per esplorare il tema del viaggio.

Quando il direttore dà la consegna di iniziare a camminare più velocemente e di continuare a guardare gli altri, sembra che le resistenze interiori si plachino e l’esercizio diventa un puro movimento fine a se stesso. La velocità rende impossibile il contatto visivo tra le persone, porta tutti a scontrarsi senza guardarsi, la stanza diventa un non luogo caotico intriso di solitudine.

Collego la sensazione a quella che si può provare quando si corre per prendere la prima metro disponibile, scontrando centinaia di persone che vanno velocemente nella direzione opposta per arrivare puntuali al lavoro; oppure a quella che si può sentire nei centri commerciali osservando gli sguardi della gente che affondano nelle vetrine piene di luci e ultime offerte; o nelle palestre, dove i tapis roulant a schiera sono tutto il giorno calpestati dalla gente che una accanto all’altra corre, coi piedi sul tappeto da corsa e lo sguardo altrove alla ricerca di una meta che non si raggiunge mai.

Tutta la vita di corsa, il tempo che non basta, i giorni che si accavallano senza lasciare traccia; gli impegni da incastrare come pezzi di un puzzle senza disegno; le scadenze da rispettare, gli aperitivi sociali, quelli dove si beve per dimenticare la stanchezza; e poi l’appuntamento Yoga poche ore a settimana per prendere un po’ di fiato prima di tornare in apnea, per dirsi che anche se poco quel tempo può bastare per vivere con maggiore consapevolezza.

Intanto a casa le baby sitters riempiono i vuoti affettivi dei figli per come sanno e per come possono; i dog sitters portano a spasso i cani degli altri, le badanti diventano per i genitori anziani più familiari dei figli.

Un sistema impazzito che lascia poche vie d’uscita a chi vorrebbe cambiare la propria vita, un sistema che ruba il tempo e i valori per produrre ricchezza, ricchezza che altro non è se non schiavitù mascherata da libertà.

Qualcuno ha provato a ribellarsi, a fuggire dal potere del consumismo e del capitalismo, dall’ipocrisia delle finte relazioni che tentano invano di coprire il vuoto della solitudine creato dal sistema.

Jon Krakauer racconta nel suo libro Into the Wild – Nelle Terre selvagge la storia vera di Christopher McCandless, giovane Americano che subito dopo essersi laureato abbandona la ricca famiglia e si mette in viaggio a piedi per raggiungere l’Alaska, decidendo di vivere in assoluta libertà e nell’amore per il prossimo. Ciò che scrive in uno dei libri che stava leggendo prima di morire avvelenato da una bacca è “Happiness is only real when shared”.

Anche nel film da poco uscito in Italia Captain Fantastic Matt Ross racconta di un padre fuori dagli schemi che ha vissuto in isolamento con la sua famiglia nei boschi della costa nord-occidentale degli Stati Uniti per oltre dieci anni lontano dalla società consumistica, per poi rivedere le sue ideologie e trasferirsi in una fattoria vicina alla città, dove i figli possono frequentare regolarmente la scuola.

Ma per non andare molto lontano basta pensare ai tanti italiani che si sono riuniti a formare delle comunità basate sulla sostenibiltà ambientale e sull’autosufficienza alimentare nel tentativo di dare vita a nuove forme di convivenza con l’obiettivo di ricostruire il tessuto familiare, culturale e sociale disgregato dal sistema postmoderno e globalizzato. All’interno di questi “ecovillaggi”, dalla Sicilia al Nord Italia, i membri cercano di soddisfare le proprie esigenze lavorative, espressive, educative e affettive avendo come modello comune la sostenibilità ecologica, economica, spirituale e socioculturale.

Ma può una scelta così radicale permettere all’uomo di raggiungere il suo agognato benessere? Fino a che punto questo sottosistema può difendersi dalla società globalizzata senza rischiare l’implosione e l’incomunicabilità con l’esterno?

Uno studio effettuato da generazioni di ricercatori dell’Università di Harvard con a capo lo psichiatra Robert Waldinger, pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Science, rivela ciò che avvicina maggiormente l’uomo al suo benessere fisico e psichico, ossia la creazione e il mantenimento delle connessioni sociali che devono essere, più che numerose, qualitativamente buone. L’esperienza della solitudine per molte persone è risultata essere tossica per la loro salute, così come tossico è risultato vivere in un clima familiare litigioso e caotico.

Insomma, secondo quanto affermato da Robert Waldinger nella sua Ted Talk, l’elisir di lunga vita è risultato essere la capacità di avere relazioni sane e profonde non solo con i propri familiari ma anche con i colleghi di lavoro e gli amici.


Robert Walding: What makes a good life? Lessons from the longest study on happiness


Ma per ritornare al punto iniziale, come si può riuscire a curare maggiormente le relazioni se siamo assorbiti dalla velocità di un sistema che ci ruba pure il tempo di respirare? E se decidessimo di fuggire dal sistema, quanto ciò aumenterebbe il rischio di sentire addosso una solitudine ancora più grande?

Non esiste una risposta univoca che vada bene per tutti, a ognuno di noi la responsabilità della ricerca del proprio vero benessere.

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