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Le capsule del tempo di Andy Warhol: il disturbo da accumulo compulsivo nella vita dell’artista

Andy Warhol aveva le sue “capsule del tempo”: scatole piene di oggetti di ogni tipo. Dietro di esse si cela un disturbo: il disturbo da accumulo compulsivo

Di Ursula Valmori

Pubblicato il 15 Nov. 2016

Pittore e regista, Andy Warhol (1928-1987) è stato uno dei principali esponenti della pop art americana: celebri sono le sue opere che si rifanno alle immagini prodotte dalla cultura di massa americana, dalle inconfondibili bottiglie di Coca Cola ai detersivi in scatola, dal volto di Marilyn Monroe al simbolo del dollaro.

 

Adoro l’America – ebbe a dire Andy Warhole le mie immagini rappresentano i prodotti brutalmente impersonali e gli oggetti chiassosamente materialistici che sono le fondamenta dell’America di oggi. E’ una materializzazione di tutto ciò che si può comprare e vendere, dei simboli concreti, ma effimeri che ci fanno vivere – E ancora:- la pop art è amare le cose.

Che Andy Warhol amasse gli oggetti è cosa nota, anzi era un vero e proprio collezionista estremo di cianfrusaglie: le sue “capsule del tempo”, scatole contenenti inutilità, dagli scontrini agli involucri di cibo, dalle fotografie ai ritagli di giornali, sono diventate oggi opere d’arte costosissime e sono un tipico esempio di come un artista abbia saputo tradurre un sintomo, cioè la difficoltà di separarsi dagli oggetti, in una forma d’arte.

 

Andy Warhol e il suo accumulo compulsivo

Andy Warhol frequentava assiduamente i mercatini delle pulci e conservava oggetti, ninnoli ed inutilità varie tanto da riempire di cianfrusaglie i cinque piani della sua casa di New York e diversi magazzini. Accanto alla scrivania, l’artista teneva una scatola di cartone che poi riempiva con oggetti di ogni genere: era questa la sua “capsula del tempo”. Ne riempì più di seicento nel corso della sua vita e sono convinta che esse siano fondamentali per capire la vita dell’artista e che  siano rivelatrici degli aspetti più intimi di Warhol, quelli che preferiva nascondere nella vita sociale.  Oggi le “capsule del tempo” sono considerate preziose opere d’arte, ma dietro di esse si cela un vero e proprio disturbo mentale, il cosiddetto disturbo di accumulo compulsivo.

Il disturbo da accumulo compulsivo (conosciuto anche come disposofobia o accaparramento patologico) è un disturbo caratterizzato dall’accumulo continuativo di beni, acquistati o raccolti, e dalla successiva incapacità di eliminarli dai propri spazi vitali (casa, ufficio, auto…). Nel tempo questo determina il progressivo ingombro di tutte le aree disponibili, incluse quelle essenziali per cucinare, dormire e lavarsi, provocando in ultimo l’impossibilità di svolgere le normali attività quotidiane.

Dal 2013 il disturbo da accumulo compulsivo è stato riconosciuto come disturbo autonomo ed è stato inserito nel Manuale dei Disturbi Mentali dell’Associazione di Psichiatria Americana. Fino ad allora era considerato una manifestazione secondaria di altri disturbi, in particolare del Disturbo Ossessivo Compulsivo o del Disturbo di Personalità Ossessivo Compulsivo. Il primo caso di disturbo da accumulo che sconvolse l’opinione pubblica americana risale al 1947, quando i fratelli Colleyer furono trovati morti nella loro casa di New York, dove furono rinvenuti oggetti di vario genere, tra cui quattordici pianoforti, un vecchio generatore e parti di una Ford.

Gli aspetti salienti della disposofobia sono: l’acquisizione compulsiva di oggetti (si tendono ad ammassare in casa, in auto o in ufficio oggetti di grande o scarso valore, spazzatura, animali); l’incapacità di separarsi dalle cose possedute (la separazione da determinati oggetti causa profonda sofferenza emotiva e per questo viene evitata); la difficoltà ad organizzare gli oggetti ed il conseguente disordine (nei casi più gravi il disordine è tale da impedire l’uso degli spazi, ostacolando lo svolgimento delle normali attività quotidiane come cucinare, pulire, dormire su un letto).

Si tratta di un disagio clinicamente significativo, in quanto sono compromesse importanti aree di funzionamento, ad esempio la conservazione di un ambiente sicuro e salutare o il mantenimento di relazioni sociali, in quanto, se le condizioni dell’ambiente non sono adeguate, si può andare verso un isolamento progressivo.

Ci vogliono anni, perché gli accumulatori hanno bisogno di tempo per prendere la decisione di liberarsi di un oggetto nei confronti del quale hanno maturato un attaccamento caratterizzato da una forte componente emotiva, ma ci si può liberare dal disturbo di accumulo compulsivo: l’intervento psicoterapico che ad oggi si è dimostrato più efficace è una forma di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) adattata allo specifico problema del hoarding (Steketee&Frost, 2010).

Andy Warhol, invece, adottò un metodo personalissimo per liberarsi dal rapporto troppo ossessivo che aveva con gli oggetti: riempì delle scatole con tutto ciò che trovava ammassato sulla sua scrivania, sul pavimento, negli armadi: le definì “Time Capsules” (capsule del tempo): alla sua scomparsa le scatole erano complessivamente seicentododici, oggi sono conservate negli archivi dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Perdighe C., Mancini F. (2015). Il disturbo da accumulo. Raffaello Cortina Editore. Milano.
  • Steketee G. , Frost R. (2011). Stuff: Compulsive Hoarding and the Meaning of Things. Oxford University Press.
  • Steketee G. , Frost R. (2014). Treatment for Hoarding Disorder: Therapist Guide. Oxford University Press.
  • Steketee G. , Frost R. (2014). The Oxfird Handbook of Hoarding and Acquiring. Oxford University Press.
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