Scultore, pittore, coreografo e regista: una figura poliedrica ed artisticamente molto feconda quella dell’artista Jan Fabre (Anversa, 1958).
L’artista belga, nel 2011, durante la Biennale di Venezia, ha proposto una sua personale rilettura della Pietà di Michelangelo con l’opera intitolata Sogno compassionevole (Pietà V), dove Cristo è lo stesso Jan Fabre, riverso in elegante abito da sera con il corpo in evidente stato di decomposizione, ricoperto di vermi, mosche e scarabei, mentre il volto della Madonna è un teschio.
La scultura, tacciata di blasfemia, ha lo scopo, come dichiarato dallo stesso Jan Fabre, di rappresentare le emozioni di una madre che, per compassione, vorrebbe sostituirsi al figlio morto. Viene cioè rappresentato un sentimento di identificazione, che viene messo in gioco dal cervello: infatti Cristo tiene nella mano destra un cervello, da cui parte il sentimento della compassione attivato dai neuroni.
Mentre osserviamo il volto della Madonna osserviamo la morte e veniamo messi nella condizione di poter provare il dolore che lo stesso Jan Fabre ha sentito ed espresso, riproducendo in scala 1:1 la Pietà michelangiolesca.
Lettura psicologica di Sogno Compassionevole di Jan Fabre
Partendo dal presupposto che un’opera d’arte altro non è che una manifestazione dell’attività della mente, possiamo affermare che, sottoponendo Sogno compassionevole ad una lettura di tipo psicologico, gli aspetti più interessanti risultano essere l’analisi delle trasformazioni dello stato psichico in seguito ad un grande dolore e l’influenza esercitata dal Buonarroti sugli artisti contemporanei.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’opera riconduce allo stato psichico alterato da un grande dolore, quello che appartiene a tutte le madri del mondo, che si sostituirebbero volentieri al figlio morto. Il dolore, infatti, sebbene assuma connotati e significati specifici per ciascuno di noi e sebbene sia sempre un’esperienza soggettiva, in quanto determinata ed influenzata da fattori individuali, dalla personalità e dalle esperienze passate, è un fenomeno che riguarda tutti e che crea disagio fisico e/o psichico in chi lo prova.
Nella sua scultura, Jan Fabre descrive il dolore nel momento della sua elaborazione, un dolore che comincia con una rottura, o separazione (la morte del figlio), prosegue come trauma e culmina in una reazione (quella di una madre che vorrebbe sostituirsi al figlio). Si tratta della rappresentazione di un dolore psichico, un fenomeno misto, che ha luogo al confine tra corpo e mente, che non permette alla Madre di elaborare fino in fondo il lutto e di svolgere un processo di separazione dal Figlio morto. La Madonna non riesce a padroneggiare il dolore e vorrebbe morire al posto del Figlio.
L’influenza i Michelangelo su Jan Fabre
Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, ovvero quello dell’influenza esercitata dal Buonarroti sugli artisti contemporanei, occorre far riferimento al concetto di paternità. Non si sta parlando, ovviamente, di paternità biologica, ma di una forma cultural-spirituale di paternità, per cui l’artista belga si è voluto confrontare con Michelangelo, realizzando un’opera molto forte, dopo aver vissuto personalmente l’esperienza del coma. Il coma è stato il suo contatto con la morte e Sogno compassionevole è strettamente legato all’esperienza del coma e al tema della morte, così come il tema della morte venne tradotto in termini di esperienza autobiografica da Michelangelo, nel suo capolavoro giovanile, la Pietà.
La Pietà michelangiolesca (oggi conservata nella Basilica di San Pietro in Vaticano) è databile 1497-1499 e fu realizzata quando il sommo scultore aveva poco più di vent’anni; è anche l’unica opera da lui firmata, sulla fascia a tracolla che regge il manto della Vergine: Michel.A[N]Gelvs Bonarotvs Florent[Invs] Faciebat (Lo fece il fiorentino Michelangelo Buonarroti). La scultura suscitò molte critiche, soprattutto per il fatto che la Madonna appariva assai giovane.
Per comprendere il volto così giovane della Madonna, occorre ricostruire una breve psico-biografia di Michelangelo. Da fonti storiche si apprende che quando Michelangelo nacque la madre era malata e che, poco dopo la sua nascita, fu affidato ad una balia, una giovane donna di Settignano. La madre di Michelangelo morì quando quest’ultimo aveva soli sei anni. Probabilmente intorno ai dieci anni, quando il padre si risposò, il fanciullo fece ritorno in famiglia.
Da questi dati biografici si evince che Michelangelo ebbe due figure materne nella sua infanzia e due perdite premature. La prima perdita fu quella della madre malata, la seconda fu quella della balia, a cui fu sottratto quando suo padre si risposò. Quello che qui vorrei sottolineare e che risulta essere interessante ai fini del presente lavoro, è che nessuna delle due donne dell’infanzia di Michelangelo è mai invecchiata.
Ritornando alla Pietà, si tratta dunque di una scultura profondamente autobiografica: una rappresentazione della madre ed insieme della balia, entrambe giovani; Michelangelo non aveva conosciuto nessuna delle due come donne anziane, perché le aveva già perse prima che invecchiassero. La Madonna della Pietà michelangiolesca non è disperata, ma, al contrario, molto pacata. Michelangelo, contrariamente a Jan Fabre, non narra il dolore di una madre, non mostra lo strazio della morte, ma ci parla di un desiderio universale, ovvero quello di tornare, alla fine della nostra vita, alla madre dell’infanzia.
Il corpo del Cristo morto, infatti, viene posto da Michelangelo sulle ginocchia della Madonna che lo sostiene con la stessa naturalezza di quando lo teneva in grembo da bambino.