Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta il 17/05/2015
Parlare di algoritmi in psicoterapia è un invito a nozze. La psicoterapia cognitiva, che io pratico, fonda il suo successo su questo: sulla possibilità di ridurre il processo terapeutico a procedure formalizzate e replicabili. Non più un imprevedibile percorso di scoperta come nella psicoanalisi, ma un rigido addestramento a modificare i propri pensieri seguendo regole definite.
Come è avvenuto questo? E che significato ha per il mondo moderno questa concezione antiromantica della psicoterapia? Ripercorriamo brevemente la storia di questo movimento. La psicoterapia cognitiva non ha un unico padre fondatore, come ha la psicoanalisi in Freud. Ne ha vari. Tra tutti, quello che meglio incarna lo spirito concreto della terapia cognitiva è stato Albert Ellis. Ellis, nato nel 1913 a Pittsburgh negli Stati Uniti, possedette in massimo grado l’attitudine pratica e concentrata sul conseguimento degli obiettivi, nonché la volontà di scovare e descrivere in poche procedure condensate quali siano i modi migliori e le tecniche che permettano di realizzare questi obiettivi: insomma, degli algoritmi.
È una storia che lo stesso Ellis, in “Reason and Emotion in Psychotherapy” (1962), uno dei suoi libri più famosi, ha raccontato. È un racconto interessante, in cui scopriamo che, all’inizio della sua carriera Ellis era uno psicoanalista. La tecnica analitica, però, lo lasciava perplesso. Dover tacere –come spesso richiedeva la tecnica analitica- quando, con poche domande opportunamente piazzate, si potevano chiarire alcuni punti oscuri rendeva Ellis scettico e insoddisfatto.
In crisi, Ellis reagì passando a una tecnica meno ortodossa. Spogliatosi della tonaca monacale della psicoanalisi nel gennaio 1953, denominò il suo nuovo approccio Rational Therapy (RT) e in seguito Rational-Emotive Therapy (RET). Ellis aveva modificato non solo la sua tecnica di lavoro, ma anche la concezione che aveva del funzionamento della mente umana. Era nato un nuovo modello teorico, modello che concettualizzava la mente come un elaboratore di informazioni e l’attività mentale come un insieme di conoscenze. Per il terapeuta cognitivo la mente è, dunque, prima di tutto gestione di informazioni. E quindi trattabile e modificabile attraverso algoritmi che gestiscono l’informazione.
La componente di fatto terapeutica del trattamento diventa l’esplorazione degli errori mentali che tutti noi possiamo fare in stato di perfetta consapevolezza, vere e proprie scempiaggini. La patologia è generata da queste scempiaggini, istruzioni che ci somministriamo e che insieme vanno a comporre il poema della stupidità umana, e che generano disagio e sofferenza.
E qual è la razionalità predicata da Ellis? Essa è una razionalità di tipo economico e utilitaristico, agnostica, strumentale e avaloriale, che non crede di poter definire o fondare un bene sommo a cui indirizzare le proprie idee. Si serve di valori che sono però considerati provvisori e individuali. Unico valore assoluto è il valore negativo e minimale dell’evitamento della sofferenza. Non è un caso che l’azione del terapeuta cognitivo, soprattutto nella forma datagli da Albert Ellis, tenda piuttosto alla critica dei valori che alla loro costruzione.
Per razionalità strumentale e avaloriale (value-free) si intende la sfiducia nella possibilità di definire scopi e credenze con un valore veritiero intrinseco e assoluto, presenti sia nella razionalità umana come nell’ordine naturale delle cose. L’unico scopo condiviso accettabile diventa l’evitamento individuale della sofferenza e il divieto della sofferenza altrui.
Non è difficile trovare nell’utilitarismo il precedente filosofico della visione del mondo proposta dalla terapia cognitiva. La riduzione di ogni superstizione sociale, morale o religiosa, la critica di ogni malessere che non sia riducibile al dolore puramente fisico sono concetti utilitaristici. Per esempio, la critica di Ellis a ciò che egli chiamava la “doverizzazione”, la convinzione irrazionale che certe cose vadano fatte assolutamente in un certo modo, per un senso del dovere e del rispetto della regole che trascendono il calcolo utilitario e si dispongano come valore in sé, e quindi propriamente sacro.
Allo stesso modo, nel pensiero utilitaristico di Bentham ogni idea e convinzione umana è priva di valore intrinseco ed è strumentale al benessere e all’evitamento del dolore. In Bentham, come in Ellis, conferire ad alcune convinzioni un valore assoluto significa disconoscerne la relatività e la pieghevole flessibilità, rendendole indebitamente rigide. Razionale è dunque il pensiero che meglio sa adattare i suoi propri processi valutativi, le credenze (beliefs) ai suoi scopi, e gli scopi alle proprie potenzialità e agli ostacoli posti dalla realtà.
Lo scopo della ragione non è la scoperta e il riconoscimento di una realtà ultima, ma solo l’uso migliore, cioè più conveniente e strumentale, delle proprie idee. La ragione usa se stessa ed è strumento di se stessa, quasi disconoscendo se stessa. La sofferenza dipende da pensieri irrealistici negli scopi o nei processi di pensiero che dovevano portare alla realizzazione degli scopi.
In breve, Albert Ellis fu soprattutto un pragmatico. La sua terapia propone una visione del mondo disincantata e pragmatica, al fondo utilitaristica. Ellis è un erede dell’utilitarismo di Bentham. A differenza di Freud, non coltivò l’ambizione di scavare nelle viscere nascoste della mente, e non sviluppò mai un modello complesso del funzionamento psichico. Il suo razionalismo non aveva nulla di epico. Egli partì da un problema pratico: l’intervento tecnico dello psicoanalista di fronte alla sofferenza mentale era poco efficace. Nella psicoanalisi il trattamento non era inteso come un intervento tecnico di accertamento e rieducazione degli stati psichici, ma come una profonda esperienza di cambiamento, in cui il paziente era portato a diventare cosciente dei suoi stati inaccessibili alla coscienza.
Nulla di tutto ciò in Ellis. Per Ellis la sofferenza non era dovuta a forze inconsce e misteriose, che emergevano alla coscienza dopo lunghi anni di faticoso trattamento condotto secondo regole rigide, in cui il terapeuta non rispondeva mai alle sollecitazioni del paziente su un piano paritario, ma si manteneva (almeno teoricamente) distaccato e distante. Per Ellis la sofferenza era invece dovuta a semplici, banali errori di ragionamento da parte del paziente. Errori definibili facilmente secondo criteri procedurali e trattabili mediante interventi descrivibili in maniera dettagliata. L’intera terapia diventava un algoritmo.
Qualche parola sull’altro dioscuro della psicoterapia cognitiva, Aaron T. Beck. Fiorì negli anni ’60, un decennio dopo Ellis. Come teorico, era più consapevole e ferrato di Ellis, e infatti usò una terminologia scientifica più corretta, preferendo qualificarsi come terapeuta cognitivo piuttosto che “razionale” o “razionalista” (Beck, 1964). “Cognitivo” è un termine più agnostico e avaloriale rispetto ai termini utilizzati da Ellis. “Cognitivo” si limita a connotare l’attività mentale come elaborazione di informazioni, senza enfatizzare una razionalità che inevitabilmente finirebbe per contrapporsi a una irrazionalità difficile da definirsi in termini assoluti.
Piuttosto, Beck preferì definire il benessere psicologico come cognizione “funzionale” e non necessariamente “razionale”. In fondo la razionalità a sua volta un valore assoluto, mentre la funzionalità è una qualificazione relativa e relativista, perché strumentale. Insomma, non conta se un pensiero è razionale o meno, ma quanto funziona producendo benessere o malessere. La razionalità di Beck, insomma, appare fin dall’inizio come più relativista di quella di Ellis. Era un ulteriore passo avanti verso quella mentalità utilitaristica che contribuiva a trasformare le terapie in algoritmi.
Negli anni successivi la terapia cognitiva confermò il suo carattere di terapia direttiva, didattica, più breve e leggera della psicoanalisi, molto meno audace nelle interpretazioni, e facilmente testabile in studi controllati. Per queste ragioni, fu la prima a guadagnarsi lo status di terapia dimostrata scientificamente efficace, in giganteschi studi empirici strutturati sulla falsariga dei grandi studi di efficacia dei farmaci.
Dopo Ellis e Beck la tecnica della terapia cognitiva fu ulteriormente elaborata e differenziata per i singoli disturbi d’ansia. Si svilupparono i cosiddetti protocolli di terapia: procedure dettagliate e formalizzate di psicoterapia per disturbi specifici, da applicare come se si trattasse di farmaci. E come farmaci fu verificata la loro efficacia, sempre significativa.
E così la terapia cognitiva si rivelò in grado di diminuire il grado di sofferenza emotiva di un insieme di disturbi psicologici: la depressione e l’ansia (Beck, Rush, Shaw ed Emery, 1979; Beck ed Emery, 1985), il disturbo di panico (Clark, 1986), la fobia sociale (Clark e Wells, 1995), il disturbo post-traumatico da stress (Elhers e Clark, 2000), i disturbi alimentari (Fairburn, Shafran e Cooper, 1999) e il disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985).
Questa visione efficientista e pragmatica, questa concezione per la quale la psicoterapia è riducibile a una serie di procedure formalizzabili, a degli algoritmi, è un bene o un male? Difficile dare una riposta univoca. Il paziente (anzi, il cliente, come non a caso si preferisce dire in terapia cognitiva) che può usufruire di un trattamento definito e mirato a un determinato disturbo ne trae massimo beneficio. Per chi cerca un orizzonte di senso, invece, tutto questo non è bene. La razionalità procedurale e algoritmica è una razionalità utilitaristica, strumentale e –soprattutto- avaloriale.
In questa definizione di razionalità troviamo alcuni principi dello spirito moderno: la negazione di ogni razionalità assoluta e la valorizzazione di una razionalità individuale e strumentale. Non esiste un sommo bene, ma solo scopi individuali. E non esistono mezzi da considerarsi assolutamente razionali, ma solo ipotesi plausibili sui quali mezzi siano più idonei per ottenere quanto desiderato, ipotesi costruite in base a quel che si sa e a quanto si è appreso nel proprio ambiente culturale.
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