Confusi e Felici (2014) un film di Massimiliano Bruno. Nelle sale italiane dal 30 Ottobre 2014.
Dimenticate la psicoanalisi. Dimenticate storie di terapeuti e pazienti reali. “Confusi e felici” è una commedia comica, non ironica. Iniziamo dalla sua dote più apprezzabile: fa ridere. Per tutto il resto, meglio ripassare un’altra volta.
Claudio Bisio è un analista gaffeur, del tutto non credibile nel suo ruolo ma forse la creazione di un personaggio veritiero non apparteneva agli intenti del film; i suoi pazienti sono macchiette, nulla di più. La segretaria, molto bella e molto poco segretaria.
“Confusi e felici” pesca a piene mani nella comicità romana, meglio dire nel cabaret: battute rapide, traccianti che vanno dritti al bersaglio, epiteti caustici capaci di definire l’unione tra un volto e uno stereotipo. C’è il ciccione mammone, lo spacciatore rude ma incline al sentimento impacciato, la ninfomane seguace del capezzolo maschile, la moglie trascurata e il marito impotente scolpiti dal linguaggio di borgata.
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La chiave interpretativa del film è sperare che l’esasperazione dei caratteri sia voluta, che il disegno narrativo non sia tracciare l’ardito profilo di una psicoanalisi che non si prende sul serio bensì allontanarsi per principio dalla realtà.
Il cabaret romanesco è a tratti irresistibile, le scene in cui obiettivamente si ride non sono poche; manca però il sorriso, l’ironia imprevedibile e con essa la capacità di variare dai binari di una psicologia predefinita in cui il paziente è matto e bizzarro, il terapeuta assai vicino alla crisi di nervi che vuole scongiurare e gli strumenti terapeutici, individuali o di gruppo, riassunti dentro scenette di maniera.
Se l’intento è dissacrare, fallisce l’impatto con la sostanza. Se al contrario si vuole liberare l’energia di una risata senza filtri e per questo paradossalmente anche arguta – non sempre – il film risulta anche godibile. La trama, quasi pleonastica vista la struttura dichiarata dei rapporti fra i personaggi, racconta un percorso di malattia nel quale l’analista affronta il primo vero terremoto della sua vita; i pazienti, dopo la forzata chiusura della terapia, lo affiancano nel viaggio, alla scoperta dei limiti comuni e dei limiti privati senza trovare granché alle spalle dei cliché universali.
La guarigione o la vittoria della malattia non rappresentano un bivio rilevante, la retorica della vita nuova che si genera nel dramma non viene certo scansata con impegno, mentre la trasformazione dei pazienti abbandonati che diventano stampella empatica, stella polare del proprio mentore esistenziale è tanto irreale quanto funzionale a sostenere l’intreccio comico.
Lo sviluppo degli eventi non riserva particolari sorprese, la sensazione è che sostituendoli con altre infinite e impossibili vicende non se ne avrebbe alcun cambiamento semantico visibile. I dialoghi fra le macchiette divertono per la loro aderenza ad una spontaneità già vista e digerita che con passo caracollante riesce anche a mantenere un buon livello di energia.
I consigli per non uscire dal cinema con l’impronta del tempo perso sono dimenticare i significati complessi che il film non trova mai, valorizzare il colore viscerale e unico in Italia del cabaret di borgata, apprezzare alcuni aspetti minori ma non irrilevanti come la sostanziale assenza di volgarità, mai scontata nel cinema contemporaneo.
Questo è o quantomeno appare “Confusi e felici“, titolo scarsamente comprensibile che i maligni potrebbero attribuire alla confusione delle idee espresse. Ma la malignità non si addice a questi film, non serve.
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