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Venere in pelliccia, Roman Polanski (2013) – Recensione

Venere in peliccia (2013) di Roman Polanski. Il testo di "Venere in pelliccia" è la nascita letteraria del sadomasochismo e come tale prende forma nel film.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 19 Dic. 2013

Recensione del film:

Venere in pelliccia

Roman Polanski (2013)

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Venere in pelliccia. -Immagine: locandinaIl bisogno di avvincere ed essere avvinti, di agire con la forza o di subirla per sentire la prigionia terribile e insieme inebriante dell’attrazione più incontrollabile, della gelosia e del possesso, non può essere di un unico personaggio, di un solo genere; la debolezza di chi domina per sentirsi amato e il potere del dominato di tenere in scacco l’altro con la propria sottomissione sono dimensioni affascinanti che “Venere in pelliccia” esalta in tutta la loro maestosa e inevitabile risonanza.

L’ultima fatica di Roman Polanski è un film geniale e trascinante che riprende l’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch e la pièce teatrale di David Ives anch’essa ispirata al testo dello scrittore austriaco.

La scena è costituita dal palco di un teatro parigino e da due soli protagonisti, l’autore dell’adattamento di “Venere in pelliccia” nonché regista dello spettacolo e un’attrice che arriva in ritardo all’audizione per l’assegnazione della parte principale.

Progressivamente la dialettica si trasforma attraversando i diversi ruoli della relazione: la donna esordisce come figura rozza e lamentosa venendo respinta dal regista che si rifiuta di concederle tempo per l’audizione, poi la qualità della contesa si eleva d’improvviso quando l’attrice inizia a recitare la sua parte con penetrante sensibilità, morbida consapevolezza, sorprendente padronanza.

Inizia in questo modo un gioco a due vissuto e interpretato nel perdurante intreccio tra realtà e finzione, un crescendo di intensità recitativa nel quale i protagonisti si affidano ora al copione della pièce ora al proprio tumultuoso divenire emotivo per comunicare intenzioni e desideri contrastanti, la crescente attrazione dell’uomo sempre più difficile da celare nei tormenti del personaggio letterario e la sottile quanto inesorabile presa di potere della donna, che cavalcando la trama dell’opera da portare in scena, mette in atto una seduzione vera fatta di sguardi e toni che eccitano e distanziano, infiammano e vanificano le passioni.

Il testo di “Venere in pelliccia” è la nascita letteraria del sadomasochismo e come tale prende forma nel film, costruito sul bisogno dell’uomo di consegnarsi alla bellezza dispotica della donna e farsi dominare per poterle appartenere; il genio di Polanski produce un assedio di tensione catartica che utilizza dapprima l’ironia, poi l’inquietudine e infine l’emergere vivido delle lacerazioni più profonde che fanno esplodere la vulnerabilità di entrambi i personaggi, le contraddizioni evocate dalla loro ricerca di sé, l’impossibilità di definirsi attraverso una funzione univoca.

Mutano gli assetti emotivi, si trasformano le posizioni da occupare sul palco e nelle dinamiche sempre più potenti della relazione; il dominato sperimenta con metamorfosi imprevedibile il ruolo di dominatore anzi di dominatrice, scoprendosi preda di una femminea voluttà che segue la misoginia quasi insita nella sottomissione così visceralmente implorata – “E l’Onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani della donna” è l’epigrafe del romanzo che ritorna come elemento cardine del film – mentre la donna sovrappone l’erotismo all’ironia aggressiva e alla sapiente lucidità manipolatoria conservando il controllo sulla relazione anche quando sembra cederlo assecondando l’assunzione del ruolo femminile da parte dell’altro.

L’epilogo del film si richiama alla tragedia greca ed è un ultimo ribaltamento che ristabilisce il tema già percorso amplificandolo negli accenti drammatici; la grandezza di “Venere in pelliccia” è data dalla straordinaria prova attoriale dei due interpreti – lui un perturbante alter ego di Polanski che trasformandosi in figura femminile ne ripropone i caratteri espressivi allucinati de “L’inquilino del terzo piano”, lei una superba profusione di sfumature psicologiche che spaziano dal cinismo all’impulso iracondo fino al gioco compiaciuto – e dalla capacità di Polanski di mantenere un ritmo narrativo degno della sua arte assoluta.

Le figure dell’opera svelano contenuti che trascendono dal loro copione potendosi definire solo attraverso un’umanità intimamente contaminata dall’altro e dall’ignoto, il fragile regista utilizzato come strumento per un disegno già pensato e la donna, forte orgogliosa e austera a tratti ma poi furiosa nel sentirsi vittima di una letteratura che legittima esclusivamente il bisogno maschile.

Il bisogno di avvincere ed essere avvinti, di agire con la forza o di subirla per sentire la prigionia terribile e insieme inebriante dell’attrazione più incontrollabile, della gelosia e del possesso, non può essere di un unico personaggio, di un solo genere; la debolezza di chi domina per sentirsi amato e il potere del dominato di tenere in scacco l’altro con la propria sottomissione sono dimensioni affascinanti che “Venere in pelliccia” esalta in tutta la loro maestosa e inevitabile risonanza.

Un film di eccezionale valore, da lasciar fermentare e poi rivedere per poterne cogliere l’essenza più complessa.

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