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Leadership negli Sport di Squadra #13: I leader e la soddisfazione

Leadership negli Sport di Squadra 13: In questa sezione l’accento verrà posto sull’aspetto socio-relazionale del rapporto tra il leader e gli altri atleti.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 31 Dic. 2013

Leadership negli Sport di Squadra #13:

I leader e la soddisfazione

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership negli sport di squadra Parte 13. - Immagine: © wacomka - Fotolia.comNel capitolo precedente è stata analizzata la figura del leader, che sia istituzionale o intimo,in relazione alle prestazioni e al raggiungimento di risultati positivi. In questa sezione l’accento verrà posto sull’aspetto socio-relazionale del rapporto tra il leader e gli altri atleti.

Un leader non deve mettere in atto comportamenti esclusivamente centrati sul compito ma in alcune condizioni (per la precisione quelle con un livello di controllabilità intermedio) si possono ottenere risultati migliori con un comportamento improntato allo sviluppo delle relazioni e all’aumento della soddisfazione individuale degli atleti. Questa considerazione, già, per altro, giustificata, è utile per sottolineare come esista un forte rapporto di interdipendenza tra la prestazione e la soddisfazione dei giocatori di una squadra e come esistano variabili (quali la coesione) che agiscono positivamente su entrambe.

Perché la soddisfazione e gli obiettivi della squadra possano entrambi realizzarsi è necessario, nel pensiero di Giovannini e Savoia [2002], la costituzione di un accordo allenatore-atleta nel quale il primo esponga le sue aspettative prestazionali nei confronti dell’altro e quest’ultimo lo informi sui suoi obiettivi personali. Questa può rappresentare una buona base di partenza per il lavoro di tutti, proprio perché imposta l’organizzazione stagionale per realizzare entrambi i livelli di obiettivi. Di per sé questo è già uno stimolo motivazionale non indifferente che, come si è visto nel capitolo precedente, ha la possibilità di influenzare la prestazione di ogni singolo giocatore.

Ma la soddisfazione all’interno del gruppo da che cosa nasce? Mazzali [1995] individua alcuni punti importanti che non dipendono esclusivamente dal raggiungimento dei propri obiettivi personali ma:

  1. Dal riuscire a trovare un propria identità tecnica all’interno del gruppo.
  2. Dal riuscire a trovare una propria identità di espressione fisica nell’ambito del gruppo.
  3. Dal riuscire a trovare nel ruolo un proprio riconoscimento all’interno dei rapporti espressivo-emozionali del gruppo.
  4. Dal riuscire a riconoscersi come membro appartenente alla società sportiva.
  5. Dal sentire che la società cerca di ricompensarlo adeguatamente.

Perché tutto questo sia possibile è necessario che il leader sia consapevole dei bisogni di ciascun giocatore e che cerchi di coltivare il terreno sociale del gruppo.

L’allenatore-leader che voglia raggiungere gli obiettivi prestabiliti deve, quindi, prestare attenzione oltre che ai risultati anche al livello di soddisfazione del gruppo e deve comportarsi in modo tale da favorirne la crescita nel caso risulti bassa. E’ ovvio che le sue capacità di orientamento verso il compito siano maggiormente importanti per la preparazione delle prestazioni altrettanto quanto è ovvio che le sue qualità socio-relazionali divengono principali nel raggiungere la soddisfazione da parte di tutti i membri. Spesso si può osservare che gli aspetti prettamente legati alla socialità del gruppo siano organizzati dal leader intimo della squadra ma gli autori che trattano l’argomento sono concordi nell’affermare che un buon allenatore non deve mantenersi su di un rigido piano istituzionale se vuole avere successo.

Le variabili inerenti la leadership sono ritenute essere uno degli elementi chiave per lo sviluppo di un senso di soddisfazione negli atleti. Tra queste, quelle che gli autori di psicologia dello sport, primo fra tutti Carron [1982, 1988], individuano come principali ci sono: lo stile comportamentale del leader, lo stile decisionale del leader, il rapporto allenatore/atleta e il rapporto allenatore/squadra. A queste si può aggiungere anche lo stile comunicativo del leader. Questi fattori legati alla leadership appaiono simili, per non dire identici, a quelli inerenti la prestazione della squadra. Questo dimostra ancora una volta alcune considerazioni importanti; innanzitutto ribadisce l’esistenza di una forte interdipendenza tra prestazione e soddisfazione, secondariamente mette in rilievo l’importanza per il bravo allenatore di saper comportarsi sia per favorire l’una che per favorire l’altra.

Prendendo in considerazione il primo di questi fattori, infatti, si può ricordare come lo stile socio-relazionale e quello centrato sul compito siano ritenuti entrambi importanti in relazione a specifiche situazioni e, nonostante il primo sia spesso collegato alla soddisfazione dei membri del team e il secondo alla loro prestazione, devono essere considerati entrambi indispensabili sia per l’una che per l’altra. Ciononostante esistono comportamenti particolarmente utili per favorire la soddisfazione dei giocatori che un allenatore dovrebbe sempre cercare di considerare e di perseguire. Alcuni studi di Horne e Carron [1985] e di Weiss e Friedrichs [1986], a proposito di questi, mettono in evidenza che i giocatori si sentono soddisfatti quando l’allenatore-leader a) predispone in allenamento dei comportamenti che tendono a migliorare le abilità personali coinvolgendo l’impegno di tutti i giocatori, b) fornisce dei feedback positivi che mirano a premiare le prestazioni positive, c) si preoccupa di promuovere il benessere degli atleti e di mantenere un clima interpersonale positivo. Giovannini e Savoia [2002] attraverso un adattamento del modello di Krech, Crutchfield, Ballachey [1962] individuano nel comportamento dell’allenatore e nei fattori che da questo dipendono, delle variabili intermedie che agiscono su tre categorie di fattori (strutturali, relativi al compito e ambientali), determinando le caratteristiche di produttività ma anche di soddisfazione della squadra.

 Tra i fattori che possiamo riconoscere dipendenti dal comportamento del leader, quell’insieme di variabili attraverso le quali l’allenatore influenza indirettamente il livello di soddisfazione del gruppo, possiamo sottolineare: la coesione sociale, la motivazione individuale e la collaborazione intragruppo.

La coesione della squadra può essere distinta, secondo Carron [1982], in due diversi livelli: uno, definito come coesione relativa al compito, riguarda la compattezza, la stabilità e l’unione del gruppo nell’affrontare e superare le prove a cui viene sottoposto; l’altra, la coesione sociale, si riferisce alla soddisfazione dei bisogni e dei desideri sociali dei componenti (quali l’affiliazione, amicizia e morale).

Il raggiungimento della prima è strettamente importante per il miglioramento delle prestazioni, il raggiungimento della seconda, per il miglioramento del livello di soddisfazione individuale. Ancora una volta vale la pena sottolineare che questa distinzione non possiede limiti così netti se si presuppone l’interdipendenza tra prestazione e soddisfazione. Quando il comportamento dell’allenatore permette e stimola l’aumento della disponibilità sociale dei giocatori, la consapevolezza di avere uno scopo comune, la possibilità di comunicare serenamente, il bisogno spontaneo di farsi conoscere dai compagni, la spinta a rivivere le situazioni degli altri, la ricerca dell’appagamento personale all’interno dei fini della squadra, la capacità di stabilire delle regole e accettarle volontariamente, la volontà di integrare il proprio lavoro con quello degli altri, lo sviluppo di dinamiche affettive all’interno di esperienze comuni, il divertimento collettivo nel corso dell’allenamento; allora la coesione sociale del gruppo, e quindi la soddisfazione, sono sicuramente favorite.

Oltre che rispetto alla coesione, la soddisfazione dei giocatori è influenzata dal loro livello di motivazione individuale. Sicuramente se manca quest’ultima il raggiungimento degli obiettivi o l’appartenenza alla squadra risultano meno importanti e quindi determinano non solo una minore quantità di impegno ma anche un livello di appagamento minore. Il comportamento dell’allenatore, relativamente a quelli che sono stati individuati da Carron [1984] come fattori situazionali o personali che possono essere limitatamente controllati, può aumentare il livello di motivazione individuale di ogni singolo atleta, aumentando così l’importanza che ha per quest’ultimo l’appartenenza alla squadra e la possibilità di impegnarsi per raggiungere specifici obiettivi e, di conseguenza, anche la soddisfazione che dipende da questi fattori.

Infine, sempre riguardo ai fattori che possono aumentare la soddisfazione individuale e che dipendono dal comportamento del leader, anche lo sviluppo di una salda collaborazione ingroup (dipendente anche dal livello di coesione interna, sociale e non) può essere un ottimo mezzo per veder migliorato il livello di soddisfazione personale degli atleti. Alcune analisi di casi singoli hanno evidenziato come, in squadre caratterizzate dalla presenza di uno o più campioni in grado di compiere imprese grazie al proprio talento individuale e di portare alla vittoria il proprio team, la carenza di una collaborazione con i compagni di squadra poteva facilmente minare il livello di soddisfazione di questi ultimi rendendo vane, a questo livello, le vittorie ottenute nel complesso di risultati scadenti [Riley, 1993].

Alla lunga, infatti, la collaborazione e, di conseguenza, la soddisfazione tendeva a divenire tanto scarsa da portare inevitabilmente al crollo delle prestazioni, rendendo inutile il talento dei campioni. In altri casi, in cui il campione mostrava anche capacità di leader o in cui l’allenatore era in grado di arginare questo fenomeno, si poteva comunque formare una condizione di collaborazione in cui tutti i giocatori si sentivano parte attiva del team, indipendentemente dalla presenza di compagni virtuosi, aumentando la propria disponibilità e il proprio livello di soddisfazione ed evitando il prevedibile calo nelle prestazioni. Perché ciò sia possibile la squadra, secondo Cei, deve sempre ragionare in termini di “noi” evitando, o limitando a episodi circoscritti, la rivalità interna, che tende a far sprecare inutili energie agli atleti e che, per di più, hanno un’influenza negativa sui risultati e sul morale del team. Una competizione tra i componenti di un gruppo esiste sempre, ma può rimanere latente e subordinata alla volontà di collaborare fino a ché vi sono successi e vittorie e fino a che il leader riesce ad arginarne lo sviluppo [Behm, 1996].

Per ottenere questo proposito Peterson, Bauer e Tiburzio [1987] suggeriscono all’allenatore di a) favorire la partecipazione dei giocatori tenendo in considerazione le loro indicazioni, b) utilizzare gli stessi criteri di giudizio per tutti ed evitare i favoritismi, c) premiare comportamenti altruistici, d) ridurre comportamenti individualistici per evitare che il gioco si accentri solo su alcuni giocatori anche se particolarmente virtuosi e e) promuovere occasioni per stare insieme. Prima di ciò è importante che l’allenatore sappia riconoscere quando la collaborazione all’interno di una squadra sportiva viene messa a rischio. Secondo Peterson e al, esistono alcuni segnali significativi che tendono a ripetersi in situazioni di questo tipo e che devono essere colti alle loro prime manifestazioni. Innanzitutto i giocatori iniziano a non svolgere i compiti affidati dagli allenatori, iniziano ad essere infrante sia regole tecniche che non tecniche, alcuni atleti possono lamentarsi perché ritengono di rivestire un ruolo eccessivamente marginale rispetto alle loro qualità, alcuni componenti possono giungere a esprimere critiche all’esterno verso allenatore e società, nei momenti di difficoltà i giocatori sono facili al litigio e all’accusa reciproca di responsabilità per gli errori commessi.

Tutto questo è sintomo, non solo di una scarsa disposizione individuale alla collaborazione intragruppo (e a una conseguente competizione intergruppi), ma anche di una buona dose di insoddisfazione personale. La nostra tendenza a sentirci parte di un gruppo (o di una squadra sportiva) è legata alla necessità che abbiamo di veder riconosciuta una caratterizzazione positiva alla nostra identità sociale (dipendente principalmente dalle caratteristiche del gruppo) e identità di ruolo. Quest’ultima per alcuni autori [Deaux,1992] rappresenta una parte dell’identità sociale; ma in realtà deve essere distinta da questa in quanto non si riferisce all’immagine di sé dipendente dall’appartenenza ad un particolare gruppo (o squadra sportiva) ma all’immagine che le persone hanno di sé in rapporto ai ruoli che giocano nei contesti della loro vita quotidiana [Mancini, 2001; Thoits, 1991; Stryker, 1987] o, in questo caso, dello loro vita sportiva. Questo è il livello di identità che viene danneggiato se viene dato corso a queste dinamiche. La perdita della valenza positiva della propria identità di ruolo non può che portare ad un’insoddisfazione e ad un allontanamento, sia cognitivo che comportamentale, dalla squadra. Questo è ciò che il leader deve evitare.

La seconda categoria di variabili legate alla leadership che possono influenzare il livello di soddisfazione negli atleti di una squadra è rappresentata dagli stili decisionali del leader. Questi, come è già stato descritto nel primo capitolo, sono stati suddivisi da Chelladurai e Haggerty [1978] in 5 categorie riconducibili, per semplificazione a uno stile autocratico e ad uno partecipativo o consultivo. Mentre le ricerche portate avanti in ambito sportivo hanno dimostrato che lo stile autocratico è ritenuto essere, sia dai giocatori che dagli allenatori, quello maggiormente valido al fine di raggiungere gli obiettivi della squadra (anche se limitatamente a situazioni molto complesse o molto banali), la situazione si capovolge quando si analizza quale sia il migliore per elevare il livello di soddisfazione tra i membri del gruppo. Nella maggior parte dei casi questo fine viene raggiunto da uno stile decisionale partecipativo che, di per sé, risulta anche il più efficace, per le prestazioni, in situazioni caratterizzate da un livello di controllabilità intermedio.

Questo potrebbe essere principalmente dovuto al fatto che lo stile decisionale partecipativo permette all’atleta di mettere in rilievo le proprie capacità ed esalta l’importanza di ogni giocatore all’interno del gruppo qualificandone positivamente l’identità di ruolo. Un identità di ruolo positiva determina un aumento della soddisfazione personale e, per questo, è importante che l’allenatore sappia quando è necessario utilizzare uno stile autocratico e quando la situazione ne permette uno partecipativo per agire anche sul morale e sfruttare i vantaggi di entrambi.

Altre due categorie importanti di fattori che possono influenzare il livello di soddisfazione della squadra riguardano la relazione tre allenatore/atleta e allenatore/squadra. Come è già stato osservato nel capitolo 2.2 esistono alcuni comportamenti, al di là della necessità di versatilità, che l’allenatore deve comunque mettere in atto o evitare nel momento in cui si relazione con gli altri giocatori. Questi comportamenti devono permettere la costruzione di un rapporto che sia aperto agli interventi degli atleti, in cui il leader deve possedere la sensibilità di ascoltarli, supportarli, premiarli per accentuare il riconoscimento del loro ruolo all’interno della squadra, ed evitare di sanzionarli o punirli per ogni errore. Allo stesso tempo, però, deve essere chiaro sin dal principio e mantenere salda la propria autorità senza abbassare la testa davanti a nessuno dei suoi giocatori. E’ importante ritornare a questo punto sull’idea di accordo allenatore/atleta di Giovannini e Savoia, poiché appare essere questa la base sulla quale fondare la relazione con l’atleta. Per mantenere fede a quest’accordo iniziale, secondo Mazzali [1995], l’allenatore deve preoccuparsi di:

  • dimostrare che tecnicamente è più competente dei giocatori,
  • possedere la sensibilità di comprendere e influenzare l’anima gruppale,
  • aumentare la propria autorità guadagnandosi il riconoscimento da parte dei giocatori e non solo quello istituzionale,
  • dare opportunità di soddisfazione ai giocatori in termini di competizione attraverso: l’assegnazione corretta dei ruoli, variabilità e incisività del programma di allenamento e la possibilità per gli atleti di mettersi alla prova fisicamente.

Un esempio di come la relazione che si forma tra allenatore e atleta possa influenzare il livello di soddisfazione dei componenti della squadra è rappresentato dalla gestione della panchina. Mazzali [1995] definisce la panchina come “uno dei più importanti mezzi di cui l’allenatore dispone per stimolare i giocatori”. Allo stesso modo è importante osservare come, per le sue conseguenze sulla relazione, costringere un giocatore in panchina risulta una pericolosa arma a doppio taglio. Infatti da un lato può rappresentare uno stimolo a competere sia con sé stessi, sia con i compagni di squadra per migliorare le proprie capacità e poter uscire da questa condizione. In questo modo la motivazione e l’impegno del giocatore viene assolutamente incentivata e la soddisfazione guadagna un forte incremento al momento della realizzazione dell’obiettivo. D’altro canto la frustrazione causata dalla condizione della panchina, soprattutto per i giocatori abituati ad essere in campo, può determinare una ritorsione nei confronti dell’allenatore arrivando a minare la relazione con quest’ultimo, una frattura che può ripercuotersi su tutta la squadra minacciando il clima interno del gruppo. Questo comportamento dipende principalmente dalla percezione che l’atleta ha del comportamento e delle decisioni dell’allenatore reputate essere un evidenza della sua scarsa considerazione verso il proprio lavoro. In questo modo l’identità di ruolo dell’atleta viene ferita tanto profondamente da portare al conflitto aperto. Ovviamente l’allenatore deve evitare questa situazione per impedire che sia la soddisfazione che la prestazione, del giocatore, in primis, ma di tutta la squadra, crollino. Fermo restando che la scelta della panchina deve essere fatta sempre e comunque, in primo luogo, su un motivo tecnico per porre in primo piano il bene della squadra rispetto agli obiettivi individuali, è importante imparare a prendere certi provvedimenti. Al fine di mantenere salda la relazione con l’atleta, Mazzali ritiene che l’allenatore debba imparare a bilanciare la propria capacità diplomatica e persuasoria con la chiarezza e la validità delle spiegazioni tecniche che hanno dettato le sue decisioni. L’atteggiamento che deve mantenere è quello di un “virtuoso” pronto a non abbassare la testa per far valere le proprie decisioni a costo di affrontare il giocatore in un conflitto aperto (per evitare che il proprio status di leader venga intaccato) ma altrettanto pronto a non abusare del suo potere e a dimenticarsi di eventuali offese pur di recuperare il rapporto con un atleta.

Infine, l’ultimo elemento preso in considerazione come variabile importante per la soddisfazione dei membri dei gruppi riguarda lo stile comunicativo del leader e la comunicazione intragruppo in generale. La presenza di forti rapporti comunicativi è spesso sintomo di altrettanto forti rapporti sociali, i quali a loro volta aumentano la coesione del gruppo, il senso di appartenenza degli atleti e la soddisfazione provata nel far parte del team e condividere la propria esperienza con i compagni. Burgoon, Heston e Mc Croskey [1974] sostengono che la comunicazione sia principalmente orientata dalla omogeneità e quindi dalla somiglianza tra i membri e risulta più difficile se i giocatori sono molto diversi tra loro. Nelle squadre professionistiche odierne l’eterogeneità è molto diffusa, in quanto molti società acquistano atleti provenienti da diversi paesi, di conseguenza il problema della comunicazione risulta essere piuttosto centrale. Le variabili che influenzano i rapporti comunicativi riguardano le caratteristiche individuali degli interlocutori, le caratteristiche dell’ambiente in cui sono inseriti, le situazioni che vivono e gli obiettivi delle loro prestazioni. Zander [1982] sostiene che l’allenatore-leader, per aumentare il livello di soddisfazione dei componenti della squadra, può mettere in atto alcune soluzioni operative come: fare in modo che ogni membro conosca i doveri e le responsabilità degli altri compagni, fornire occasioni ai giocatori per socializzare e conoscersi, fare in modo di comunicare ai giocatori il riconoscimento del loro impegno e dei loro valore, fare in modo che eventuali conflitti tra membri della squadra siano risolti tra loro attraverso la discussione diretta, cercare di promuovere collaborazione tra i giocatori e con lo staff tecnico.

 L’obiettivo è quello di promuovere un comunicazione aperta, chiara e votata alla libera espressione che abitui i giocatori a sviluppare i rapporti e la conoscenza interpersonale evitando che si fermino a pregiudizi superficiali, dannosi non solo per le singole relazioni ma anche per il clima e la coesione di squadra. La comunicazione non è comunque una variabile da stimolare solo all’interno della squadra ma rappresenta un fattore a cui lo stesso leader deve porre estrema attenzione nei suoi rapporti con ciascun atleta. Brewer [2000] sottolinea, infatti, l’importanza per l’allenatore di un’adeguata formazione al riguardo, che gli permetta di utilizzare la psicologia dello sport nello svolgimento del proprio ruolo e nei colloqui con i singoli giocatori.

Come l’allenatore, ancor più il capitano deve essere in grado di favorire la soddisfazione personale degli altri atleti. Anche in questo caso, come nell’ambito della prestazione, le variabili su cui i due leader possono e devono intervenire per ottenere questo risultato sono le medesime. Tuttavia il modo di affrontarle risulta, ancora una volta, diverso. Questa differenza è, ovviamente, dipendente dalla diversa posizione dei leader. In particolar modo il capitano, come è stato già accennato descrivendo il rapporto con gli altri giocatori, viene caricato di un credito idiosincratico al momento della sua elezione, che non si è particolarmente meritato ma che viene investito sulle sue presunte capacità di essere un buon leader intimo. In questo senso parte avvantaggiato rispetto all’allenatore, per questo appare più legato ad un aspetto relazione che prestazionale. Questa fiducia posta dei compagni di squadra non deve poi essere delusa. Per evitare ciò il capitano deve utilizzarla, e utilizzare il potere che ne deriva, sulle variabili già descritte, che possono essere associate allo stile comportamentale del leader, a quello decisionale, alle caratteristiche della sua relazione con gli atleti e al suo stile comunicativo. Se ciò non avviene, il patto con gli atleti, sottoscritto dall’assegnazione di credito idiosincratico non sarà rispettato dal leader intimo e ciò porterà probabilmente all’esplosione di un conflitto interno al gruppo, spesso guidato da aspiranti leader. Se il capitano non possiede le capacità diplomatiche, gestionali ed empatiche per arginarlo, probabilmente verrà sostituito ma, al dì la di questa condizione, tutto ciò influirà in modo negativo sulla soddisfazione, sia direttamente che indirettamente attraverso l’azione che determinerà sul clima della squadra, sulla sua coesione interna e sulla sua prestazione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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