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Come le nuove tecnologie ci stanno cambiando: la iGeneration

Alla iGeneration appartengono i nati dai 90 fino al 2010: che impatto hanno le tecnologie digitali sulle loro vite? Come saranno gli adulti di domani?

Di Giulia Radice

Pubblicato il 05 Apr. 2017

Aggiornato il 08 Lug. 2019 12:58

La iGeneration, conosciuta anche come Generazione Z, accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato (individualized) del world wide web.

Giulia Radice – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Mi siedo alla scrivania, alla ricerca di materiale di lavoro. Clicco due volte per aprire internet e navigo verso la pagina di Facebook. Guardo, curioso, spulcio, commento, metto qualche like. Ok, adesso chiudo e inizio a lavorare. Prima però è meglio se controllo lo smartphone; magari qualcuno mi ha scritto su WhatsApp. Meglio controllare anche la mail. Se non controllo potrei perdermi qualcosa. Tutto bene, posso iniziare. Ah no, il telefono ha vibrato. Devo controllare.

Quando finalmente riesco a posare il telefono e a lasciare perdere Facebook non posso fare a meno di riflettere su quanto le nuove tecnologie stiano modificando le nostre vite, le nostre abitudini e costumi.

Io appartengo a quella generazione che molti autori chiamano “Nativi Digitali” (Prensky, 2001): la generazione nata tra il 1980 e il 1990, cresciuta nella prima era del Web, la 1.0, caratterizzata da siti web statici, l’uso delle e-mail e dei motori di ricerca. Probabilmente siamo stati noi “nativi” i primi a comprendere e a cogliere l’enorme potenziale dei nuovi media, sfruttandoli e adattandoli per comunicare con i nostri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le nostre idee e opinioni.

Ma in questo mondo che cambia così rapidamente, dove il nuovo diventa subito vecchio, dove una notizia compare prima su Twitter che nei telegiornali -nel 2009 gli utenti di Twitter segnalarono la notizia delle scosse sismiche che si stavano verificando in Abruzzo prima delle agenzie di stampa-, sembra necessario non domandarsi più cosa è ma cosa sarà. Quindi, mettendo in disparte il mio smartphone e chiudendo le diverse pagine web che ho aperto tra una ricerca e l’altra, mi domando: in che modo le tecnologie digitali stanno trasformando le vite, le abitudini, le abilità cognitive e i comportamenti dei futuri noi? Insomma, come saranno gli adulti di domani?

 

La iGeneration

In Italia, come nel resto d’Europa, i più grandi fruitori delle tecnologie digitali sono bambini e adolescenti (CENSIS, 2015; Ólafsson, Livingstone & Haddon, 2013). La iGeneration, conosciuta anche come Generazione Z, Post-Millennials, Centennials, Plurals e talvolta Google Generation, accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato (individualized) del world wide web e di questi stessi dispositivi (Rosen, 2010).

Sicuramente uno degli aspetti che più contraddistingue la iGeneration è l’uso di internet e delle nuove tecnologie sin dalla giovane età. Prensky (2001a; 2001b) li descrive come individui abili a elaborare le informazioni, con una preferenza per le nozioni che possono ottenere rapidamente e apprendere attraverso modalità attive e non-lineari, multitasking, poco tolleranti verso le lunghe letture e che sperimentano lo sviluppo delle abilità sociali e professionali all’interno della realtà digitale. La iGeneration non usa internet, vive internet, abitando le loro quotidianità contemporaneamente dentro e fuori dagli spazi digitali (Livingstone, 2009).

Secondo recenti studi, 9 su 10 ragazzi tra i 9 e i 16 anni possiede un profilo Facebook e il 49% fa uso di sistemi di messaggistica istantanea (Livingstone, Haddon, Hasebrink, O’Neill, Smahel, & Staksrud, 2014).

Rispetto al resto d’Europa, i ragazzi italiani utilizzano gli strumenti on-line soprattutto a casa, mentre l’accesso da scuola è tra i più bassi in Europa. Il 10° Rapporto Nazionale Sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Eurispes e Telefono Azzurro (2010) riferisce che il 59.2% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni accede a internet attraverso lo smartphone e l’85% possiede un profilo Facebook, a cui 7 su 10 ragazzi accedono quotidianamente. Il 30,8% ha più di 500 amici. Ciò che contraddistingue i bambini e gli adolescenti italiani dai coetanei europei è la minore esposizione ai rischi on-line grazie soprattutto a forti restrizioni d’uso da parte dei genitori. Tale restrizione tuttavia presenta un rovescio della medaglia, tra cui bassi livelli di alfabetizzazione digitale e l’impegno in attività on-line (Mascheroni, 2012).

Rispetto al passato il mondo sembra evolversi sempre più rapidamente e le statistiche cambiano così velocemente che è talvolta difficile comprendere appieno la realtà di un fenomeno. Questa contingenza sembra essere particolarmente rispecchiata quando si tratta di media digitali: il loro celere sviluppo determina enormi difficoltà nel reperire dati storici o effettuare studi longitudinali sugli effetti del consumo di media digitali, che pure si mostrano sempre più necessari.

 

Plasticità neurale nella iGeneration

Tutte le sensazioni, movimenti, pensieri, ricordi e sentimenti sono il risultato di segnali che passano attraverso i nostri neuroni. Per lungo tempo, in passato, si è pensato che, una volta raggiunta l’età adulta, il cervello non potesse più essere soggetto a nessun tipo di cambiamento. A partire dal 1980 le evidenze sulla plasticità neurale sono diventate sempre più consistenti, fino a culminare con l’affermarsi di teorie che sostengono l’esistenza di un rapporto multidirezionale tra ambiente, mente, corpo, cervello e comportamento (Carr, 2011).

I neuroni del nostro cervello vengono attivati ogni volta che eseguiamo un compito o sperimentiamo una sensazione. Neuroni tra loro adiacenti tenderanno ad attivarsi all’unisono e più ripetiamo l’operazione o l’esperienza, più il legame sinaptico tra i neuroni tenderà a rafforzarsi e viceversa (Carr, 2011).

Le nuove tecnologie, come qualsiasi altro trigger esterno, determinano l’attivazione di specifici pattern neurali e quindi possono condurre ad altrettanto specifici fenomeni di plasticità neurale. Small e Vorgan (2008), comparando l’attività cerebrale di utilizzatori di Google classificati come “esperti” e “neofiti”, osservano come dopo solo cinque ore di navigazione le attività cerebrali dei due gruppi, inizialmente molto diverse, appaiono alla fine praticamente identiche, con una specifica attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale.

Molti neuroscienziati mettono in guardia dagli effetti negativi di della multimedialità. Recenti studi (Dalton, 2013; Carr, 2010) affermano che l’eccesso di stimoli a cui siamo sottoposti durante l’uso di internet determina un sovraccarico cognitivo nella memoria di lavoro impedendo la formazione di connessioni neurali profonde e a lungo termine. Navigare in internet, ma anche giostrarsi tra diverse conversazioni in chat, è sostanzialmente un processo di decison making durante il quale, però, le informazioni sottoposte alla nostra attenzione sono troppe e ci distraggono dal compito di comprendere appieno ciò che stiamo leggendo. A chi non è capitato di inviare un messaggio alla persona sbagliata perché non abbiamo letto correttamente il nome nella infinita lista di contatti del nostro smartphone o di perdersi tra l’eccessivo numero di risultati che Google ci fornisce?

Tuttavia non tutta la tecnologia vien per nuocere. Alcuni ricercatori hanno scoperto che i media digitali, in particolare i videogiochi, possono migliorare le abilità visive spaziali e le capacità di problem solving (Schmidt & Vandewater, 2008). In uno studio pubblicato sulla rivista Nature, gli autori riportano come dopo soli dieci giorni di gioco a “Medal of Honor”, i soggetti testati mostravano un drastico aumento dell’attenzione visiva e della memoria (Green & Bavelier, 2003). Secondo Lehrer (2010), inoltre, eseguire ricerche tramite Google incrementerebbe l’attenzione selettiva, mentre Rosen (2012) associa all’uso delle nuove tecnologie QI più alti, migliori capacità mnestiche e maggiore rapidità nell’elaborazione di informazione.

Riguardo alla iGeneration, bisogna però ricordare che il cervello dei bambini e degli adolescenti è però funzionalmente e strutturalmente diverso da quello degli adulti, soprattutto a livello delle aree frontali (Frances, 2015), che nell’adulto governano le funzioni esecutive e i processi decisionali.

Negli adolescenti queste aree devono ancora svilupparsi pienamente e ciò comporta che il loro ruolo di mediatore fra trigger emotivo e output comportamentale sia ancora piuttosto debole. Tradotto in altre parole, quando i ragazzi della iGeneration chattano, navigano e si trovano per scambiarsi opinioni all’interno di forum virtuali, reagiscono spesso precipitosamente e senza riflettere sulle conseguenze, buone o meno, delle loro azioni. Niente di nuovo quindi: gli adolescenti di oggi, quelli che appartengono alla iGeneration, sono impulsivi tanto quelli di ieri.

Ma c’è una differenza fondamentale: l’ambiente nel quale agiscono, che oggi, a differenza di ieri, è potenzialmente senza confini e può contenere qualsiasi forma di stimolo. Secondo molti autori (Aboujaoude citato da Dokoupil, 2012; Lehrer, 2010) questo sovraccarico di dati starebbe portando una sorta di craving da informazioni.

Bauleke e Hermann (2010) rilevano nella iGeneration un alto tasso di problemi di attenzioni e di incapacità di ritardare la gratificazione e ciò sembrerebbe spiegare, almeno in parte, l’elevato numero di diagnosi di Disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Sebbene i tempi siano ancora poco maturi per permetterci di definire con chiarezza come i media digitali incidano sul cervello e le sue strutture, l’influenza delle nuove tecnologie nel processo di sviluppo neurale e dei compiti evolutivi sembra rendere il percorso di crescita dei bambini e degli adolescenti appartenenti alla iGeneration sempre più articolato.

 

Emozioni e identità nella iGeneration

Tra i principali compiti evolutivi dell’uomo vi è certamente la formazione di una propria identità. Per la iGeneration, il mondo digitale cambia in modo significativo questo compito: i social network consentono di scegliere come presentarsi alle persone che compongono la rete, i giochi di ruolo di creare e sperimentare identità completamente diverse tra loro, i blog e i social forum di scoprire nuovi aspetti della propria persona (Pederson, 2012; Riva 2010).

Citando Riva (2010):

Un’importante opportunità viene offerta all’utente dai social network: la creazione di Sé possibili. Questa possibilità, se utilizzata correttamente, può attivare un processo di self empowerment… tuttavia esiste anche il rischio di un’identità fluida.

Se da un lato quindi le nuove tecnologie possono fornire una immensa opportunità di sperimentazione di se stessi, proprio l’assenza di confini, concreti o virtuali che siano, rischia di essere il maggior ostacolo all’individuazione di un’identità stabile. Le motivazioni di ciò sembrano contenute in alcuni dei meccanismi intrinseci della rete stessa, cioè i continui feedback e l’opportunità di modificare la propria identità e di svelarla a piacimento.

D’altra parte questa rete può anche fungere da salvataggio, talvolta anche più potente di alcune istituzioni classiche. Moltissimi sono i siti e i blog che, attraverso l’uso di chat, diventano un luogo di ascolto e di confidenze dove l’adolescente può sentirsi accettato in tutto il suo essere.

Un secondo aspetto critico che sembra emergere sempre di più nella letteratura sulla iGeneration, è l’“analfabetismo emotivo”. Con questa espressione Goleman (2011) intende:

  1. La mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti a esse associati;
  2. La mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione;
  3. L’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui (non riconosciute e comprese) e con i comportamenti che da esse scaturiscono.

La comunicazione mediata da computer, di fatto, manca degli elementi metalinguistici propri della conversazione faccia a faccia ed è priva di segnali di feedback che consentano agli attori interagenti di identificare con precisione gli aspetti relazionali e sociali (Sproull & Kiesler, 1986). Ad esempio, lasciare il proprio ragazzo semplicemente cambiando il proprio status su Facebook da “impegnata” a “single” è molto diverso che dirgli “ti voglio lasciare” guardandolo negli occhi. Infatti, se nel secondo caso osservare la risposta emotiva dell’ex ci costringe a condividere la sua sofferenza, spingendoci magari anche a moderare le parole e i gesti, usando il social network l’altro e le sue emozioni non sono immediatamente visibili e non hanno quindi un impatto diretto sulle nostre emozioni.

È evidente come tutto ciò rischia di privare il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento, comprensione e gestione delle emozioni proprie e altrui. Sempre secondo Riva (2010), inoltre, sarebbe proprio questo aspetto a rendere precarie le relazioni sociali che si creano, e in un certo senso vivono, nei social network.

In realtà, visioni più articolate dei percorsi di rischio sostengono che l’uso delle nuove tecnologie sia meno negativo di quanto temuto: l’off-line e l’on-line non dovrebbero essere considerati come opposti o reciprocamente escludenti l’uno dell’altro, ma come universi sociali integrati posti all’interno di un medesimo continuum (Guarini, Brighi & Genta, 2013).

In questo senso nella iGeneration, l’off-line e l’on-line non risultano più due identità distinte e separate, ma due tra le diverse sfaccettature del il medesimo corpus identitario, strettamente legate tra loro, tanto che il proprio profilo digitale ha una ricaduta inevitabile anche al di fuori della rete e viceversa (Guarini et al, 2013) e i social media diventano qualcosa di molto importante per sviluppare e mantenere amicizie, nonché per vivere la propria intimità (Rivoltella, 2010). “L’on-line e l’off-line non sono mondi separati, sono semplicemente situazioni differenti all’interno delle quali entrare in contatto con gli amici e i pari” (Ito, Braumer, Bittanti et al, 2010).

 

Conclusioni

Alla fine di questa ricerca emergono alcune riflessioni. Se da un lato molti aspetti di come la tecnologia digitale sta cambiando il nostro cervello, il modo in cui socializziamo, impariamo e viviamo rimangano ancora sconosciuti, numerose sono anche le informazioni che già abbiamo a disposizione.

I cospicui effetti negativi della tecnologia rilevati fino ad ora appaiono scoraggianti: alterazione delle capacità di lettura degli elementi paravarebali, rilevanti tassi di dipendenza da consumo digitale, diminuzione delle abilità di attenzione sostenuta. Io stessa, nella stesura di questo articolo, mi sono sentita spesso iperattiva e poco concentrata, mentre saltavo da un articolo all’altro, da una mail all’altra, da un messaggio all’altro. Tuttavia, limitare l’analisi dell’influenza delle nuove tecnologie a questi aspetti può condurre a deduzioni errate, perché non sufficientemente complete di informazioni.

Le nuove tecnologie hanno portato con sé grossi cambiamenti, spesso anche molto positivi. Ad esempio, se da un lato lo sviluppo di internet e la possibilità di accedervi sempre più rapidamente e in qualsiasi punto del globo, ha determinato la diffusione di una quantità talvolta eccessiva di informazioni, ha anche permesso di raggiungere molti individui prima emarginati e di dare loro l’opportunità di apprendere e imparare, colmando così il divario educativo.

La tecnologia digitale sta anche creando una nuova forma di alfabetizzazione, quella digitale (digital literacy) che si estende oltre le tradizionali abilità di lettura e scrittura (Ives, 2003). In questa nuova era dei media, la capacità di negoziare e valutare le informazioni on-line, per riconoscere tentativi manipolatori e ingannevoli sta ridefinendo le basi del processo educativo, rendendo tali competenze fondamentali tanto quanto saper produrre e comprende un testo (Jenkins, 2007).

E queste attitudini sembrano emerge spontaneamente e di conseguenza invalidare in parte gli studi che imputano alle nuove tecnologie una riduzione della capacità di empatizzare. “So che può sembrare strano, ma dal modo in cui la mia amica mi sta messaggiando (texitng) riesco a capire il suo stato d’animo” (Wisdom 2.0, 2011). È anche importante sottolineare come questa nuova forma di alfabetizzazione sia creata dai ragazzi stessi: i giovani adolescenti della iGeneration non sono solo i più assidui fruitori delle nuove tecnologie, ma contribuiscono attivamente a svilupparne contenuti, applicazioni e potenzialità, al punto che è ormai da considerare superata la dicotomia tra fruizione e produzione, così come tra emittente e ricevente (Guarini et al, 2013). Citando Cappello (2010) “I ragazzi non considerano (né usano) i media come veicoli di significato quanto piuttosto come risorse simboliche da cui trarre immagini, fantasie e opportunità di autoespressione e gioco”.

Il rapporto tra le nuove generazioni e le tecnologie digitali è circolare, per cui gli uni cambiano in funzione degli altri e viceversa. Così, come i media digitali stanno creando nuove forme di comunicazione, pensiero e abitudini queste vengono plasmate e modificate per adattarsi alle esigenze di sviluppo.

La ricerca qui condotta mostra come sia invece ancora radicata una visione dicotomica del rapporto giovani-nuove tecnologie che, se da una parte descrive i ragazzi della iGeneration come disposti quasi naturalmente all’uso delle nuove tecnologie, dall’altra li dipinge come vittime del sistema mediale.

Una lettura di questo tipo rischia tuttavia di impoverire una relazione ben più complessa (Scarcelli, 2015). Riconoscere il continuum esperienziale tre spazi digitali e vita quotidiana, significa considerare i media non semplicemente come temi di cui occuparsi saltuariamente, ma, piuttosto, dimensioni proprie del percorso di crescita (Guarini et al, 2013).

Poiché il consumo mediale da parte degli adolescenti della iGeneration è strettamente collegato a motivazioni di tipo sociale, identitario ed emotivo, nonché allo sviluppo cognitivo, i ricercatori devono rivolgere la loro attenzione al contesto virtuale in quanto scenario ormai imprescindibile per comprendere le dinamiche comunicative e sociali implicate nella costruzione di opinioni, valori e scelte comportamentali (Guarini et al, 2013).

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Giulia Radice
Giulia Radice

Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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