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Relazioni pericolose: la violenza domestica ed i meccanismi di mantenimento

La violenza domestica consiste nell'acquistare più potere maltrattando, umiliando, minacciando e svalutando la donna fino ad arrivare a volte all'omicidio.

Di Linda Virga

Pubblicato il 10 Dic. 2015

Aggiornato il 10 Nov. 2023 11:55

Introduzione

Piera è una donna che cade troppo spesso dalle scale. Tutti, l’infermiere del pronto soccorso, la vicina di casa, persino il maresciallo dei carabinieri, la esortano a desistere: “Piera, devi smetterla di cadere dalle scale!”

Ma lei niente, continua a cadere, cade e ricade, in molti credono che a Piera cadere piaccia, e tanto… forse, addirittura, quelle cadute se le cerca!
“Non guardo mai dove metto i piedi, che ci posso fare? Sono una stordita…”
“Ho sempre il brutto vizio di correre…”
“Il pavimento era ancora bagnato…”
“Ho inciampato contro qualcosa… sono sempre così disordinata!”.
Piera, ma insomma, fa attenzione! Di scale si può morire…
Ma Piera è una donna caparbia, di una tenacia disumana: non si stancherebbe mai di cadere…
Poi, un giorno, Piera è morta. Morta ammazzata. Dalle “scale”, con 30 e più coltellate…

Di storie simili a quella di Piera (nome di fantasia), ne accadono molto spesso, approssimativamente una ogni due giorni. Nel 2014, sono state 152 le donne vittime di femminicidio in Italia, e rappresentano il 32% del totale delle vittime di assassinii. 117 sono avvenute per mano di un familiare. Nel 2013 sono state 179.

Violenza domestica: definizione

Con la terminologia “violenza domestica” si vuole indicare quella tipologia di violenza praticata dal partner intimo della vittima, indipendentemente dal luogo in cui viene agita la violenza e dalla forma che essa assume.

In Inghilterra, si preferisce parlare di “Intimate Partner Violence” (IPV), piuttosto che di “violenza domestica”, perché si ritiene meglio rappresenti il concetto della violenza compiuta contro il partner all’interno della relazione intima.

Una dinamica di potere

Un antico proverbio cinese recita:”Quando torni a casa picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei sì”.

La violenza domestica, alla stessa stregua di altre forme di violenza, è fortemente correlata al concetto di potere, e il suo fine ultimo non è semplicemente quello di provocare dolore o sofferenza fisica alla propria partner, ma, piuttosto, quello di sottometterla, piegarla, ingessarla dentro mille forme diverse di paura, annichilirla.
La violenza fisica, nonostante lasci delle tracce chiare e distinguibili della sua infausta presenza, è solo la superficie emersa, ciò che è accessibile agli occhi, di una dimensione violenta bulimica, feroce, ingorda.

L’ONU e l’eliminazione della violenza contro le donne

L’art 1 della Dichiarazione ONU sull’ ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE (1993) recita: “È violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata.”.

La violenza domestica, non è solo violenza fisica, ma anche psicologica, sessuale ed economica.

Il ciclo della violenza

Lenore Walker, nel 1979, descrive il ciclo della violenza, che dà ragione alle tante esperienze raccolte nei vari centri antiviolenza.

Vengono descritte tre fasi della violenza di genere, più specificamente, domestica, che tendono a ripetersi senza soluzione di continuità, o meglio, fino a che, come accade molto spesso, la donna cessa di vivere per mano dell’uomo violento.

Prima fase: forme subdole di violenza

La prima fase è quella in cui la tensione cresce, che inizia attraverso una subdola violenza verbale, un alterco; l’uomo violento manifesta nervosismo crescente, è perennemente irritato e tende ad avere un atteggiamento opaco, ambiguo che provoca confusione nella donna. Mentre lui mostra distacco, la donna inizia a temere un abbandono e così evita di contestare il proprio compagno od opporsi ed asseconda ogni sua mossa, ogni suo volere.

Seconda fase: violenza drammatica

Nella seconda fase, improvvisamente, la violenza esplode nelle forme più drammatiche.

Terza fase: falsa riappacificazione

A questa fase, segue quella di una finta riappacificazione. L’uomo violento si riavvicina giurando pentimento e pronunciando scuse e parole d’amore a profusione. Chiede perdono e viene prontamente perdonato e riaccolto. Nei primi episodi di violenza, la fase della falsa riappacificazione dura generalmente più a lungo, mano a mano che gli episodi tendono a ripetersi la durata si abbrevia. Questa fase costituisce una sorta di rinforzo positivo per la donna, che con l’alternarsi di ogni fase e il susseguirsi dei cicli diventa sempre più dipendente, sempre più bisognosa di quel legame malato, mentre l’uomo violento acquista sempre più potere, affonda sempre più gli artigli nella mente della vittima.

Dipendere, dal latino dependere, significa, letteralmente, essere appeso a qualcuno o a qualcosa, essere sospeso. L’aggettivo sospeso, a propria volta, rimanda ad un’idea di incompiutezza: “Senza di te sono nessuno”, “Senza di te io non esisto”.

I meccanismi che mantengono il ciclo della violenza

I meccanismi che mantengono il ciclo della violenza fanno capo, innanzitutto, alla negazione della violenza stessa da parte dell’uomo attraverso atteggiamenti di minimizzazione, razionalizzazione e giustificazione dell’atto violento:

“Ti ho spinta, non ti ho picchiata!”

“Sei esagerata, sei permalosa!”

“L’ho picchiata per fermarla, sembrava impazzita, non ho avuto altra scelta!”.

Questi meccanismi si evolvono in maniera progressiva e hanno l’effetto di sottomettere sempre più la donna.

Step 1: intimidazione

Il primo step è l’intimidazione: la donna viene spaventata attraverso comportamenti imprevedibili, attraverso minacce di violenza e di morte contro la sua persona; minacce di violenza contro figli o altre persone care, violenza contro gli animali domestici, danneggiamenti degli oggetti della donna. Critiche pesanti, squalificazione, derisione. Questa violenza, incessante, conduce la donna a distorcere la realtà e a credere di meritare, per un qualche sconosciuto motivo, quelle violenze e quanto altro le sta accadendo.

Step 2: isolamento

Lo step successivo è l’isolamento: il partner violento fa in modo che la donna si allontani dalle figure di riferimento importanti, dai propri familiari, dai propri amici, ai quali si nega, li allontana, tronca relazioni importanti, rinuncia al proprio lavoro ed alla propria indipendenza pur di non perdere il proprio uomo, che continua a minacciarla di abbandono. Nel giro di poco, la donna, si ritrova sola, senza l’appoggio e il supporto di nessuno. Si ritrova in completo isolamento affettivo, avviluppata confusamente ad una relazione dannosa all’interno della quale ha imparato a cogliere il proprio, unico, universo di senso.

Step 3: svalorizzazione

L’altro step è la svalorizzazione che porta la donna a perdere il senso di sé, il senso della propria identità come donna, come compagna, come madre e a sperimentare un profondo, dolorosissimo sentimento di inadeguatezza e angoscia; si sente debole e incapace; i sensi di colpa e di fallimento diventano potentissimi e arriva a credere di aver causato lei stessa i maltrattamenti subiti, di non valere niente perché incapace di interrompere la relazione e, soprattutto, di desiderare di mantenerla.

I rischi per la salute mentale

Le ricerche dimostrano che nel susseguirsi e rinforzarsi di questi gironi infernali la donna sviluppa gravi disturbi depressivi (le donne abusate hanno un rischio 5 volte maggiore di soffrire di depressione delle altre donne) e ansiosi. La donna vive in uno stato di perenne allarme, con una sensazione incalzante di pericolo; ha costantemente paura, è fortemente turbata da pensieri e immagini intrusivi delle violenze subite, flashback, incubi notturni e il suo umore diventa sempre più instabile; sviluppa gravi disturbi del sonno.

Diversi studi dimostrano che le donne maltrattate dal partner presentano un rischio molto alto di sviluppare un disturbo post-traumatico da stress (PTSD). È stata riscontrata una importante correlazione positiva fra la potenza della violenza subita e la gravità dei sintomi di PTSD. È stata, inoltre, rilevata una correlazione estremamente significativa fra PTSD e ogni diversa forma di violenza domestica: l’aspetto psicologico della violenza domestica è la componente che maggiormente predispone al PTSD (Pico-Alfonso).

Da uno studio realizzato in Francia (Indagine Enveff, 2000) , su un campione di 6.970 donne è stata rilevata una grave sofferenza psicologica attraverso il General Health Questionnaire (più di 6 items positivi). È risultato che il rischio di tentativo di suicidio riguarda il 3% delle donne che avevano subito almeno un atto di violenza fisica, il 4% di coloro che avevano subito violenza sessuale e il 10% di coloro che avevano subito violenze fisiche e sessuali, contro lo 0,2% di coloro che non avevano subito violenza. (Fonte: Gender-based violence – NoiNo.org pdf).

Il paradigma dell’impotenza appresa

L’immagine che ne deriva, è l’immagine di una donna completamente nuda e prosciugata, deumanizzata, priva di ogni difesa, che si dà nella forma più estrema di fragilità assoluta, sprofondata in un abisso senza fine di disperazione e scoraggiamento. Sente di non farcela più, che non ha più senso fare qualsiasi cosa.

Lenore E. Walker, nel 1983, concettualizzò la teoria della “Learned Helplessness”, sulla base del paradigma di Seligman (1975), dell’ “Impotenza appresa”. Seligman, attraverso i suoi studi sulla depressione osservò che gli animali che vivevano in cattività, a cui veniva impedito di operare ogni controllo sugli stimoli dolorosi a loro diretti, sviluppavano un comportamento apatico e passivo paragonabile a quello che connota il “disturbo depressivo”. Gli animali avevano appreso che qualsiasi cosa facessero non avrebbe evitato loro di subire la scarica elettrica improvvisa. Inoltre, anche quando veniva lasciata la gabbia aperta non tentavano la fuga ed opponevano resistenza se si cercava di spingerli fuori.
Attraverso la “Teoria della disperazione appresa”, la Walker ha voluto spiegare il senso di paralisi ed anestesia sperimentato dalle donne vittime di violenza, all’interno di una relazione intima.

La donna, che vive in condizioni di abuso, di fronte alle minacce di violenza o anche di morte, di fronte al senso di impotenza, quando sente di aver perso ogni forza o quando sente di non poter opporre alcuna resistenza, si arrende, si prostra, si annulla; vive aspettando la scarica elettrica improvvisa, il dolore che certamente arriverà e la punizione di colui che ormai possiede totalmente la sua vita, che è, a fasi alterne, carnefice e padrone capace di smisurato tormento; compagno premuroso capace di annullare qualsiasi angoscia.

Di fronte a questi drammatici scenari, la donna, esausta, reagisce dissociando, allontanandosi dalla realtà, comportandosi come se le violenze non fossero più capaci di elicitare quelle emozioni e quelle reazioni che le situazioni di grave pericolo, solitamente, generano.
La donna, completamente sola, incapace di qualsiasi genere di azione perché ha paura, perché ha perso ogni punto di riferimento esterno; ha perso il lavoro, ha allontanato amici e parenti, e spesso, addirittura, subisce biasimo sociale da parte della stessa famiglia di origine o anche dagli amici, è totalmente dipendente dal partner anche dal punto di vista economico. Paralizzata all’interno di una totale sottomissione e dipendenza ed incapace di riuscire ad immaginare una vita diversa, una vita migliore non è più in grado di interrompere la sua condizione di vittima ed uscire dalla spirale della violenza.

La violenza domestica è un fenomeno molto diffuso ma purtroppo ancora in gran parte sconosciuto e molto sottovalutato; può riguardare tutte le classi socio-culturali ed economiche, senza distinzioni di età, credo religioso o razza. L’OMS ha riconosciuto la violenza contro le donne come un grave problema di salute pubblica, che ha una pesante ricaduta sul benessere psicologico e fisico delle donne.

Si è parlato di violenza domestica assumendo che la vittima sia la partner femminile della relazione perché è statisticamente provato che il numero di donne che usa violenza contro il proprio partner è estremamente esiguo. Inoltre, la violenza praticata dalle donne non assume quasi mai le caratteristiche di ripetitività e, soprattutto, intenzionalità che caratterizzano la violenza degli uomini contro le donne, ma spesso la donna, quando agisce violenza, lo fa semplicemente per difendersi dalle aggressioni del partner.

A Piera non piaceva cadere dalle scale, ma non poteva e non sapeva più fare diversamente. Forse, avrebbe potuto salvarsi se solo si fosse mossa sin da subito contro le prime e più subdole forme di violenza, perché: spingere, strattonare qualcuno è un atto di violenza; urlare contro qualcuno, minacciare, intimidire, svalorizzare, isolare, umiliare e deridere una donna, un essere umano, è violenza.
Blocchiamo la violenza sul nascere: muoviamoci contro la violenza sulle donne!

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Devries K. et. al. (2013), Intimate partner violence and incident depressive symptoms and suicide attempts: a sistematic review of longitudinal studies, da http://www.plosmedicine.org.
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