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Storie di Terapie #22 – Simone, Quanta Intelligenza Sprecata

Storie di Terapie #22 - Simone, trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 25 Feb. 2013

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione 

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Storie di Terapie #22 - Simone, Quanta Intelligenza Sprecata. - Immagine: © Mr Korn Flakes - Fotolia.com

Storie di Terapie #22 – Simone, trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita.

Un mio fermo proposito è quello di non prendere in trattamento i tossicodipendenti. Mi rendo conto che non dipende da loro, che si limitano ad avere una malattia come un’altra, ma da me e dai miei pregiudizi. Ma dico tanto agli altri di accettarsi per come si è, che  qualcosa voglio fare anch’io. E poi, i pregiudizi sono una grazia, si risparmia la fatica di giudicare ogni volta, senza di essi saremmo sempre come appena sbarcati su un pianeta sconosciuto.

Insomma, io ho il pregiudizio che i tossici siano bugiardi, ingannatori, senza nessuna volontà di guarire e sostanzialmente viziati più che malati.

Simone non poteva iniziare peggio. Dopo aver superato le mie riluttanze e a causa delle  pressioni di un collega che ha in trattamento la moglie, gli fisso un appuntamento a cui non si presenta. Lo stesso avviene al secondo appuntamento: dopo aver citofonato non sale,  sostenendo di essersi perso nel palazzo, evidente bugia. Finalmente, la terza volta riusciamo a sederci uno  di fronte all’altro.

Ha trentadue anni e fa uso di ogni tipo di droga  da quando ne aveva quindici. La cocaina è la sua preferita e, nei periodi buoni, ne tira una quantità che lui stesso dice essere esagerata, ovvero 10 gr/die che scrivo anche per esteso, tanto è incredibile: dieci grammi al giorno!

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E’ assolutamente evidente che occorre stare in un giro di spaccio forte, per procurarsi i soldi necessari. Simone ha, dalla sua, un’ottima intelligenza, affatto deteriorata, che lo ha portato a pochi esami dalla laurea in giurisprudenza, che conta di prendere dopo la terapia.

E’ un giovane piccolo, con un naso a becco d’aquila, muscoloso e compatto. Capelli neri e occhi neri, da cocker triste.

Il nostro incontro avviene di mercoledì ed il sabato successivo si sposerà con Alessia, sua compagna da 15 anni assolutamente non tossicodipendente, ma evidentemente dipendente se ancora resta a sopportare l’insopportabile al suo fianco. Simone ed Alessia hanno in progetto di lasciare l’Italia e di aprire un ristorante in Sudamerica.

Perché proprio ora Simone chiede aiuto?

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Si consideri che, della farmacocinetica delle sostanze e dell’evoluzione della tossicodipendenza, ne sa indubbiamente più di me. Nel corso della breve terapia mi capiterà un paio di volte di chiedergli una consulenza farmacologica rispetto ad altri pazienti.

Simone ha paura di impazzire, si rende conto che la sua paranoia sta aumentando e inizia a coinvolgere anche Alessia. Questo è stato il campanello d’allarme. Non vuole assolutamente farmaci, perché ha visto altri amici “rincoglionirsi” completamente prendendo medicine e non è disposto a trattare. Sono molto in dubbio dell’efficacia di un intervento senza farmaci, ma lui mi rassicura, dicendomi che intanto sarebbero inutili perché i suoi enzimi epatici, abituati a ben altro, li inattiverebbero all’istante e poi che è intelligente e anch’io gli sembro tale e dunque con le parole ce la faremo.

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La paranoia accompagna tutti i cocainomani di livello e lui la conosce bene. Non è solo un pensiero, vede dei serpenti che gli si attorcigliano alle gambe fin oltre il ginocchio e lo tirano a terra, sente delle voci che gli dicono “ bastardo, assassino, infame recchione”. Le allucinazioni sono moltiplicate dall’assunzione anche di dosi minime, ma lui le riconosce come tali, le ignora senza dar loro importanza e ciò mi  sembra una capacità metacognitiva fuori dal comune. Forse davvero possiamo fare qualcosa di buono, ma la voglia di dargli un po’ di neurolettici è forte. Non sono i serpenti o le voci a spaventare Simone, quelli li ha messi nel conto. L’angoscia di impazzire l’ha provata quando ha pensato che Alessia potesse essere d’accordo con i suoi creditori e volesse consegnarlo a loro. In quel momento si è detto “sto diventando irrimediabilmente matto” ed ha deciso di smettere. Indubbiamente la sua intelligenza brillante e la sua spregiudicatezza mi hanno conquistato. Inoltre il narciso che è in lui deve aver fatto l’occhietto a quello che è in me, occorre stare in guardia.

La faccenda con i creditori risale a circa un anno prima: i suoi fornitori all’ingrosso incassano da lui circa duecentomila euro al mese da una decina di anni quando, un ritardato pagamento di cinquemila euro da parte sua, li ha allarmati senza motivo. Simone aveva solo una difficoltà sui contanti, per ritardati pagamenti dei suoi clienti. I creditori gli  hanno fatto pressioni e poi gli hanno dato un ultimatum di settantadue ore, dopo le quali avrebbero avvertito la madre. Questa mancanza di fiducia dopo anni di collaborazione e l’affronto alla famiglia hanno scatenato un rancore profondo. Simone ha acquistato una pistola ed ha gambizzato uno dei due soci spaventando a morte l’altro. Da allora le paranoie si sono moltiplicate.

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Simone non è alla sua prima esperienza psicoterapeutica. La prima è durata due anni, tra i diciassette e i diciannove. La ricorda con piacere, ma la ritiene la causa di tutti i suoi mali successivi. Vi fu costretto dalla madre, che lo scoprì mentre fumava una canna con un suo amico. Lo psicologo era bravo e comprensivo e frugò abbondantemente nel suo passato. Simone dice che “scoprirono tante cose, generando dentro di sè un gran disordine, che non è più stato rimesso a posto”: un avvertimento su come muovermi.

 Lui dice che, fino ad allora, era stato un ragazzo di strada che sapeva farsi rispettare senza essere inutilmente prepotente, non aveva paura di niente e aveva le idee chiare. Dopo la terapia era pieno di insicurezze, si sentiva fragile e incapace di affermarsi.

Questa prima terapia era stata ampiamente incentrata sulle molestie subite da un cugino, figlio di un fratello della madre,  di sei  anni più grande di lui, che  aveva iniziato a imporgli pratiche sessuali passive prima e poi anche attive dalle età di sette fino ai quattordici anni. Simone è convinto che anche altri cuginetti abbiano subito le stesse attenzioni, ma nessuno dei vari genitori ha mai preso sul serio le proteste dei bambini, che non volevano andare mai a casa del cugino più grande.

La madre, ad esempio, gli disse chiaramente che erano cose che succedevano  di frequente e che non c’era nulla di grave, doveva solo dimenticare.

In verità, Simone ha incluso nel rancore anche i genitori, che non lo hanno protetto e non ha affatto dimenticato. Ancora oggi medita vendetta. Progetta di recarsi in Giappone dove vive attualmente il cugino, diventato un famoso architetto, e di ucciderlo con una overdose di cocaina. Lo ritiene colpevole del suicidio di Irma, un’altra cuginetta che si tolse la vita a sedici anni, gettandosi dalla finestra della casa incriminata.

La famiglia di Simone era una tipica famiglia del proletariato metropolitano, di solida fede comunista. Il padre Mario, operaio,  era spesso fuori casa, per lavori in tutta l’Italia Centrale. A casa era una autorità indiscussa e temuta, soprattutto quando esagerava con il vino. Nel quartiere era conosciuto come un uomo duro che si faceva rispettare e ciò garantiva una sorta di intoccabilità a lui e alla madre, che rimaneva sola per lunghi periodi. Marta, la madre, era stata bidella alle elementari fino alla nascita di Simone, poi si era dedicata alla famiglia e solo saltuariamente faceva le pulizie nelle case dei signori, voleva  avere tempo di stare appresso al figlio, che vedeva crescere sano tra le mille insidie in agguato in una periferia romana come quella di Tor Pignattara.

Simone attribuì alla propria malizia e all’esperienza che stava vivendo in quel periodo di sottomissione sessuale al cugino, un cattivo pensiero che fece a tredici anni. Per un periodo di sei mesi, la mamma non si lamentò come di consueto di non riuscire ad arrivare a fine mese e aveva comprato per sé un vestito bianco con fiori di tutti i colori che la facevano bellissima. Era più bella e sorridente ed emanava un profumo di primavera che gli era rimasto in testa. Quel periodo luminoso fu interrotto da una sbronza violenta del padre che spedì la moglie in ospedale causandole l’aborto di quello che sarebbe dovuto essere il suo fratellino. Dopo il ricovero, Marta smise di andare a servizio presso un ingegnere e i problemi economici ricominciarono daccapo.

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Simone decise che avrebbe guadagnato tanto da non mandare più sua madre a servizio e il padre non l’avrebbe più picchiata. Per questo aveva iniziato a fare consegne per quelli che, ad un certo punto, lo avevano minacciato di coinvolgere proprio la madre.

Il lavoro con Simone prese due direzioni. La prima, il perseguimento dell’astinenza dalla sostanza, anche attraverso misure logistiche come il trasferimento fuori Roma, lontano dal suo ambiente, in una casa in campagna di una amica di Alessia. Prendemmo in considerazione anche l’ipotesi della comunità terapeutica, ma le esperienze di alcuni  amici ce la fecero escludere, trattandosi di soluzione solo temporanea senza risultati stabili.

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L’altro tema importante, su cui all’inizio non avevo prestato sufficiente attenzione, era la dipendenza da Alessia, peraltro ricambiata. Simone, quando non era in compagnia di Alessia, perché lei lavorava, si sentiva del tutto annientato. Nel senso etimologico, di fatto un niente. Spesso non si alzava dal letto, non cucinava e neppure mangiava. L’unica attività era la ricerca di cocaina ma, se questa era impossibile, restava il nulla assoluto. Solo la madre riusciva in parte a compensare l’assenza di Alessia.

Conosco personalmente quel vissuto, in cui un’assenza assorbe in sé l’universo, rendendolo desertico e inutile. Non ne conosco invece la cura, se non la distrazione del fare. Così, lanciai Simone in una serie di attività organizzative preparatorie del progetto “ristorante in Sudamerica”: il recupero dei soldi che molti consumatori gli dovevano o la chiusura della vertenza con i suoi fornitori.

Un giorno Alessia lo accompagnò a studio con, sul volto, i segni di numerose percosse ed un’ infinita disperazione. Aveva trovato nella cassetta dello sciacquone una busta con 500 grammi di cocaina e, convinta che Simone avesse ricominciato, l’aveva svuotata nel gabinetto. In realtà si trattava di ventimila euro di roba che alcuni amici avevano raccolto perché lui li restituisse ai suoi creditori, chiudesse il conto con loro e fosse finalmente libero. Alla vista dei ventimila euro sul fondo del water Simone aveva perso la testa e, per la prima volta, picchiato Alessia. Poi si era sentito come il padre e aveva persino deciso di farla finita. Alessia, riavutasi, aveva preso a consolarlo e tutto era rientrato. Stavano insieme, davanti a me, a parlarmi dei loro sogni sudamericani.

L’ultima parte  del lavoro psicoterapeutico si orientò, soprattutto, nella ricostruzione di un’ identità di Simone diversa da quella del tossico spacciatore. Riscopriva una serie di interessi e capacità che facevano di lui un ragazzo brillante, intelligente e generoso. In passato aveva davvero creduto ad una specie di etica malavitosa, che mette in primo piano alcuni valori come la famiglia e l’amicizia. Sembrava una sorta di primo Vallanzasca, che combatte per la libertà dei deboli ma, guardandosi intorno, non trovava più nulla se non la venerazione del denaro. Era un uomo deluso che, da bambino abusato, aveva reagito costruendosi un immagine di duro che difende i deboli anche se non sempre con mezzi leciti. Ma non c’era riuscito. Era uno spacciatore di morte. Incapace di fare a meno della sostanza e sull’orlo della follia che aveva conosciuto anche  in molti suoi amici, di cui aveva pagate le costose e inutili cure.

 Decise di accelerare i tempi della laurea per poi mettersi a fare gratuitamente l’avvocato dei diseredati. Per togliersi dall’ambiente romano, troppo denso di tentazioni, chiese il trasferimento presso un’altra Università ed io mi spesi personalmente perché lo ottenesse.

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Un giorno arrivò in seduta di nuovo accompagnato da Alessia, si sentiva più minacciato del solito e temeva a girare da solo. L’allarme era stato generato dalla proposta ricevuta da un amico di avere un incontro chiarificatore e definitivo con i suoi creditori. Era in dubbio se accettare o meno e voleva decidere la strategia con me ed Alessia. Aveva due argomentazioni contrapposte. Da un lato sembrava evidentemente una trappola e dunque non bisognava andarci. Dall’altro era troppo evidentemente una trappola per essere veramente tale. La regola che vige in strada è che le cose non si annunciano mai, si fanno. Non andare sarebbe stato segno di viltà infamante e, magari, un’occasione perduta per porre fine alla questione.

Mi chiedeva un consiglio, ma io pensai che non è mio compito consigliare e che non conoscevo le regole dell’ambiente per poter fare previsioni sensate. Ero sensibile alla paura di Simone e di Alessia e considerai perfino di  accompagnarli all’incontro. Nella mia fantasia diventavo il garante dell’ordine e del buon senso e tutto si sarebbe sistemato. Poi avrei ricevuto un invito dal loro hotel in Sudamerica. Non so se sia stata la vergogna di dover poi confessare una tale violazione armata del setting al mio gruppo di supervisione o, più semplicemente, la mia antica vigliaccheria, ma i pensieri non si tradussero in parole. Per fortuna. Concordammo di non andare all’appuntamento. Il noi, che comprendeva loro due e me, era ormai consolidato. Non avrei mai immaginato che di lì a qualche giorno avrei iniziato a parlare per telefono usando circonlocuzioni, nella certezza di essere spiato.

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La paranoia si attacca. La vigliaccheria invece è genetica. Ho aspettato con apprensione l’incontro successivo perché temevo che avesse finito per andarci, per non mostrarsi timoroso, magari portandosi appresso “il ferro” che non sa usare e diventa un pericoloso boomerang. Invece, una mattina alle sei squilla il cellulare con un numero sconosciuto. Rispondo. E’ Alessia singhiozzante. Il sangue nelle vene mi rallenta pericolosamente ed ho la pelle d’oca. Alessia mi grida che lo stanno portando via. Lui, mi dice, è spaventatissimo e nessuno capisce cosa stia succedendo. Non saprà per giorni perché lo abbiano arrestato e non può in alcun modo comunicare con me. Offro la mia disponibilità per visitarlo in carcere. Le notizie mi arrivano per sms da un cellulare ignoto. Non è possibile vederlo, sta in isolamento. E’ disperato e vuole morire. Sembra un pulcino chiuso  in gabbia con un gatto famelico. Temo che riviva l’esperienza con il cugino, per esorcizzare la quale aveva cercato di diventare un duro.

A me resta solo un problema organizzativo. La cartella di Simone dove la metto? Tra i drop-out? Ma un arresto può essere considerato una resistenza agita? Oppure tra i successi? Che, onestamente, non mi sembra, nonostante il ripetersi di sms di ringraziamento da parte di Alessia.

Preferisco che stia tra le terapie in sospeso che, in stand-by, possono riprendere senza lista d’attesa.

Una copia però la metto anche nello scaffale “violazioni del setting” .

 

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