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Hikikomori: la ribellione silenziosa?

Hikikomori: L’unico strumento di comunicazione utilizzato da questi ragazzi sembrerebbe essere la rete internet. La reclusione come protesta

Di Simona Meroni

Pubblicato il 20 Lug. 2012

Aggiornato il 31 Mag. 2017 10:32

 

PSICOLOGIA DEI NEW MEDIASOCIAL NETWORK

Hikikomori- la ribellione silenziosa?. - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.comSiamo abituati a vivere la rete non solo come un insieme di informazioni, ma anche – e soprattutto – come un agglomerato di relazioni che possono nascere, ritrovarsi o crescere grazie ai molteplici canali che il World Wide Web mette a disposizione di ciascuno di noi.

Parafrasando una citazione cult del celebre psicologo Watzlawick: “non si può non comunicare”. A maggior ragione nel mondo d’oggi, dove ogni strumento (telefono, tablet, pc che sia) consente di condividere tutto, dallo spostamento più recente (il famoso “check in” di FourSquares), all’ultimo pensiero (lo status di Facebook), o all’aforisma più celebre (i 160 caratteri di Twitter).

La rete, dunque, nasce per condividere informazioni e può rappresentare una finestra sul mondo, ci consente di conoscere ciò che altrimenti mai avremmo scoperto, o, comunque, avremmo raggiunto con maggiore fatica.

Questa visione della rete come “finestra sul mondo” sembrerebbe particolarmente sentita da un gruppo ben specifico di adolescenti giapponesi.

Hikikomori. Una parola strana, esotica, che significa “ritiro” e che da una decina di anni a questa parte caratterizza un fenomeno sociale tristemente noto in Giappone e che sembrerebbe non avere eguali (per ora) nella società Occidentale.

Il termine, coniato dallo psichiatra Tamaki Saito, definisce uno specifico gruppo di adolescenti e giovani adulti (14-20 anni circa) maschi che per un periodo superiore ai sei mesi sceglie di non uscire di casa, isolandosi completamente, anche dai propri familiari. 

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Le cause o le ragioni di tale scelta sembrerebbero eterogenee e intrecciate non solo con le problematiche del singolo, ma anche con le richieste sociali e le norme della cultura giapponese.

A livello di pressione sociale, potremmo rintracciare tre cause principali:

  1. Le aspettattive culturali che spingerebbero l’adolescente a immaginare come unico strumento per una vita di successo un’educazione prestigiosa, appannaggio però di pochi. 
  2. Lo stretto rapporto madre-figlio che sembrerebbe caratterizzare la famiglia giapponese, in grado –apparentemente- di mantenere economicamente il figlio sino oltre ai 40 anni. 
  3. La pressione scolastica che spingerebbe i ragazzi a ritmi e a carichi di lavoro piuttosto duri. L’intero ciclo di studio giapponese sembra inoltre caratterizzato dall’adesione a norme, regole e codici partecipativi che impongono al singolo di conformarsi al gruppo, tanto da renderlo l’elemento fondante dell’identità. 

Tale aspetto è molto interessante perché sposta il polo autoritario da un singolo (il professore, il preside) al gruppo dei pari, al quale l’adolescente – per essere valutato positivamente – deve aderire. Il bisogno di adesione e cooperazione nel gruppo verrebbe poi mantenuto anche al di fuori dell’ambiente scolastico e più in generale nell’età adulta.

In un contesto simile, in cui il bisogno e la volontà del gruppo risultano primarie rispetto al singolo, è abbastanza semplice capire che cosa accade agli elementi che non vi si conformano. Nella società giapponese, infatti, il fenomeno del bullismo scolastico (ijime) appare molto più radicato rispetto al contesto occidentale.

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La vittima di ijime è considerata non solo un outsider dal gruppo dei pari per via della sua non conformità, ma potrebbe considerarsi egli stesso una persona inadeguata, decidendo così di isolarsi non solo dal gruppo (nel quale non è in grado di “entrare” o rimanere), ma anche dalla società stessa, per la quale la cooperazione e l’adesione a norme condivise rimane un valore aggiunto.

La reclusione appare, così, l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto ad un gruppo e alle sue norme. 

Tale interpretazione sembrerebbe confermata dalle testimonianze di tanti giovani ex Hikikomori che, in genere dichiarano di essere nauseati da tutto, soprattutto dal fatto che il loro modo di vedere le cose e la società non corrisponde alle attese, tanto da non avere altra scelta che “rinchiudersi” (Secher, 2002).

Seguendo questa linea di pensiero, potremmo capire come mai “la patologia” Hikikomori sia definita “ego sintonica” e spesso mantenuta dalla persona per un lungo periodo di tempo (oltre i sei mesi, a volte anche per anni interi). L’identità dell’adolescente si struttura grazie a diversi elementi: l’adesione o la critica di norme sociali e regole dettate dalla famiglia e dalla società; il rispecchiamento e l’identificazione nel gruppo dei pari. Gli adolescenti Hikikomori, interrompendo questo legame con la società e con il gruppo, è come se si chiamassero fuori dal percorso adolescenziale, ma in qualche modo riuscissero a strutturare un’identità proprio attorno alla definizione che la società ne da e grazie all’etichetta che viene fornita.

Un altro elemento importante da prendere in considerazione è la struttura del nucleo familiare giapponese. 

Lo psichiatra Saito afferma che – a partire dalla Seconda Guerra Mondiale – la figura maschile rappresenta il “grande assente” all’interno delle famiglie, nelle quali le donne si suppone siano preposte all’educazione dei figli (spesso dell’unico figlio) e gli uomini al lavoro. 

Un sistema familiare di questo tipo porta inevitabilmente alla creazione di uno stretto legame tra madre e figlio. E’ anche molto interessante vedere come nel momento in cui il figlio entra nell’istituzione scolastica le madri abdichino il proprio ruolo, delegando alla scuola e al gruppo dei pari il compito di inserire il ragazzo all’interno della società, fornendogli un’identità (Rohlen, 1989).

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La conseguenza più diretta di un simile “cambio della guardia” è il fatto che il giovane Hikikomori non riconoscerà come autorevoli i propri genitori, cominciando forse a considerarli più che altro dei coinquilini e non delle figure dalle quali apprendere norme e regole.

Potremmo tratteggiare con il seguente schema la “nascita di un Hikikomori” [Dziesinski, 2003]:

  • Pressioni sociali (aspettative scolastiche, familiari).
  • Spinta al conformismo da parte delle istituzioni e dal gruppo dei pari (che include anche dinamiche di bullismo).
  • Progressivo ritiro sociale come unica forma di protesta.
  • Collusione del sistema familiare.
  • Mancanza di risposta da parte delle istituzioni.
  • Anni di isolamento. 

Il fenomeno hikikomori, inoltre, si inserisce in un contesto sociale e culturale tecnologicamente avanzato, che fa largo uso delle nuove tecnologie e che sembrerebbe quasi agevolare la nascita di questa patologia.

L’unico strumento di comunicazione utilizzato da questi ragazzi sembrerebbe essere la rete internet.

Dopo essersi creato un’identità virtuale, infatti, il giovane hikikomori inizia a chattare e a crearsi una rete di amicizie online.

Pensiamo ai konbini, piccoli supermercati aperti 24 ore su 24, nei quali gli Hikikomori sembrerebbero acquistare cibi pronti o precotti così da non dover nemmeno più interagire durante il rito dei pasti con la famiglia (in genere, nell’iconografia condivisa, all’hikikomori vengono lasciati davanti alla porta della stanza che ha scelto come habitat dei pasti, preparati dai genitori).

E’ importante, come diversi autori suggeriscono (Secher, 2003), non confondere il fenomeno Hikkimori, caratterizzato solo da contatti virtuali, con la dipendenza da internet. Nonostante, infatti, l’elemento comune tra i due fenomeni sia un uso eccessivo del PC e delle nuove tecnologie, il profilo degli hikikomori può essere definito quasi come un peculiare “stile di vita”, una sorta di “anoressia sociale”. I giovani adolescenti, infatti, decidono deliberatamente per una vita di reclusione. La realtà virtuale sembrerebbe diventare il sostituto a 360° del mondo reale.

La rete diviene dunque la modalità comunicativa per eccellenza utilizzata dagli adolescenti hikikomori che forse, attraverso il web, possono crearsi un’identità specifica e formata, seppur fittizia.

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Le chat, i social network e i giochi di ruolo sembrerebbero favorire la comunicazione rispetto ad un incontro vis-a-vis per diverse ragioni: dietro uno schermo ci sentiamo protetti e possiamo anche agire parti di noi che nella nostra società (o contesto) forse non sarebbero accettate (Suler, 2009). La comunicazione virtuale, che comunque smuove emozioni e sentimenti, inoltre non risente di gerarchie o status: siamo tutti democraticamente uguali. Nelle interazioni di questo tipo, infatti, non esistono classi sociali e, quello che è più importante, siamo valutati per le nostre competenze e non per i nostri ruoli: pensiamo, infatti, ai giochi di interazione online (ad esempio, Second Life oppure ExtremeLot) nei quali i personaggi con maggior punteggio (e maggiori abilità, dunque) sono i più ricercati, soprattutto dai neofiti.

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Gli adolescenti Hikikomori, dunque, rimangono – nonostante il contesto e il disagio manifestato – degli adolescenti alla ricerca di sé stessi, di un’identità che non può, come detto, strutturarsi in assenza di relazioni e di interazioni.

Possiamo dunque immaginare, e pensare, che in mancanza di un rapporto diretto con i pari o con il nucleo famigliare, l’adolescente giapponese sofferente provi a ricercare legami di altro tipo con figure esterne al proprio contesto o che condividono lo stesso problema: non è utopico pensare a comunità virtuali di Hikikomori.

 

 

 

 

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