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Sam, un amico virtuale per i bambini autistici


Gli ultimi dati raccolti dagli esperti confermano che circa la metà dei soggetti affetti da autismo possiedono buone capacità intellettive, ma mantengono serie difficoltà di adattamento negli ambienti sociali e lavorativi a causa della grave compromissione delle loro abilità di interagire e comunicare con gli altri.

I trattamenti comportamentali si sono dimostrati efficaci soprattutto nell’incrementare il potenziale intellettivo degli individui con autismo ma con più fatica sono stati in grado di promuovere le carenti abilità sociali.

Una risposta a tale esigenza arriva dalla realtà virtuale e si chiama Sam, un individuo dal rassicurante aspetto di un bambino di 8 anni, che si è dimostrato capace di favorire la messa in atto di comportamenti interattivi e comunicativi da parte dei compagni di gioco affetti da disturbi dello spettro autistico.

Justine Cassell, dirigente del Center for Technology and Social Behavior della Northwestern University, e il suo gruppo di ricerca hanno osservato sei bambini autistici ad alto funzionamento, di età compresa tra i 7 e gli 11 anni, giocare per un’ora sia con un bambino reale che con Sam.

L’analisi di tali interazioni ha evidenziato un incrementale utilizzo di frasi legate alla situazione specifica nella sessione di gioco con il pari virtuale, mentre tale utilizzo di frasi contingenti non aumentava quando il soggetto autistico interagiva con il bambino reale.

La felice scoperta non sta certo nell’aver individuato nel bambino virtuale il perfetto compagno di giochi per bambini che presentano carenze nell’area delle abilità sociali, ma nella possibilità di aiutare questi bambini a generalizzare le abilità di interazione apprese nelle realtà virtuale al contesto di vita reale. La sfida ovviamente sarà capire come!

Tra i principali motivi che inducono i bambini autistici ad una maggiore apertura nei confronti del pari virtuale sembrano esserci la sua infinita pazienza e la capacità di non mostrare mai segnali di noia nel giocare con l’amico autistico. Le sue conversazioni, il suo comportamento e il suo modo di apparire possono inoltre essere programmati così da favorire determinati comportamenti sociali e sollecitare l’interesse nel bambino che gioca con lui.

In attesa che Sam sbarchi anche Italia, le persone coinvolte a vario titolo nel trattamento dell’autismo potrebbero cominciare già a trarre da lui qualche utile spunto per insegnare a tutti coloro che interagiscono con i bambini affetti da tale disturbo un po’ di quella infinita pazienza e amore incondizionato dimostrato da Sam.

Fonti e bibliografia:

ScienceDaily – Mar. 8, 2008
www.psychcentral.com – Mar. 21, 2011
Howlin P., Baron-Cohen S. e Hadwin J., (1999) Teaching children with autism to mind-read, John Wiley & Sons Ltd

Prevenire le ricadute con la mindfulness


La mindfulness è da molti anni uno strumento terapeutico la cui efficacia è oggetto di verifica rigorosa. È ormai dimostrato che la pratica costante della mindfulness riduce di circa il 50% il rischio delle ricadute depressive. Inoltre, chi nella vita ha avuto più di un episodio depressivo, con la mindfulness potrebbe arrivare a prevenire le ricadute addirittura del 70% circa. I due protocolli terapeutici elaborati da Segal e colleghi, e poi rivisti e adattati da molti altri nel mondo, sono il MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) e la MBCT (Mindfulness- Based Cognitive Therapy). Al di là di questi due programmi, però, sembra efficace e opportuno inserire degli interventi di mindfulness all’interno di percorsi psicoterapici più complessi e “vestiti” sul singolo paziente.

Un aspetto rilevante è che esistono esercizi di pratica informale, che possono aiutare tutti ad avvicinarsi alla pratica della mindfulness. Pratica diversa cosa rispetto alla pratica all’interno di una psicoterapia, ma comunque interessante e utile per accostarsi a questa affascinante meditazione.

Un esempio?

Ecco un semplice esercizio insegnato da Pietro Spagnuolo (trainer mindfulness) che vi permetterà di comprendere meglio in cosa consiste la pratica dell’attenzione consapevole

“Scegli un’attività della vita quotidiana che esegui in generale in modo automatico, forse pensando ad altro. Ad esempio, quando ti lavi i denti, fai colazione, prepari il caffè, dai da mangiare al gatto o al cane o fai la doccia. Proponiti di svolgere questa attività quotidiana con consapevolezza, portando la tua attenzione a quello che stai facendo, alle sensazioni che provi, ai tuoi movimenti. Nel corso di questo esercizio, quando la mente divaga, nota dove sta la mente e riporta la tua attenzione all’attività che stai svolgendo”.

Attenzione, “attenzione” non è uguale a “controllo”. Stai con quel che c’è, senza giudicare o importi che qualcosa sia come non è.

Una volta praticata, concediti qualche minuto per riflettere (e magari scriverlo qui):

COSA E’ ACCADUTO?

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Bibliografia

Segal Z.V., Williams J.M., Teasdale J.D. (2006). Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Bollati Boringhieri: Torino.

Spagnulo P. (2009). Mindfulness – la meditazione per la salute. Ecomind: Salerno.

Teasdale, J. D., Segal, Z. V., Williams, J. M. G., Ridgeway, V., Soulsby, J., & Lau, M. (2000). Prevention of relapse/recurrence in major depression by mindfulness-based cognitive therapy. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 68, 615–623.

La verità, vi prego, sull’amore

 


Guardando una coppia di innamorati che passeggia mano nella mano si può pensare “Che teneri!” “Che carini! Come sono affiatati”. Oppure si può guardare la stessa coppia con l’occhio critico e indagatore e chiedersi: ”Ma com’è l’amore che stanno provando? Quante forme d’amore esistono? E quale stanno provando ora?”. È con questo sguardo curioso che nel corso degli anni i ricercatori hanno identificato quattro principali forme d’amore, che nascono, si sviluppano e si manifestano in modi molto differenti, ma tutte sensibili ai mutamenti che una persona affronta crescendo.

Ma quali sono questi tipi di amore? L’ Amore amicale, l’ Amore romantico, l’Amore compassionevole e il cosiddetto “Adult Attachment Love” termine da addetti ai lavori non facilmente traducibile. Il letterale “Amore da attaccamento adulto” non suona benissimo, ma ci accontentiamo in attesa di una traduzione migliore

L’amore amicale è il legame d’amicizia (philia) che unisce due persone. Si basa su un profondo sentimento d’ affetto, di fiducia e soprattutto sulla condivisione di interessi. Su un generico senso di familiarità e vicinanza che rende la relazione piacevole e che spesso da la sensazione a coloro che lo provano di non essere soli, di poter contare sull’ altro in caso di bisogno. È una forma d’amore “lento” perché si sviluppa dolcemente crescendo sempre di più giorno dopo giorno, ma una volta instauratosi è uno degli amori più stabili. Non a caso, infatti, Walster & Walster (1978) hanno ipotizzato che l’amore romantico si trasformi dolcemente in un profondo amore amicale come quello che si può scorgere incontrando una coppia di vecchietti, magari talvolta in lite fra loro, ma legati da un sentimento che va ben oltre alla semplice abitudine.

Se chiedessimo a dei passanti che cos’è l’amore, forse la maggior parte di loro ci darebbe la descrizione dell’amore romantico, ovvero il sentimento che nasce fra due innamorati. Purtroppo spesso questo tipo di amore viene ricondotto solo all’ aspetto passionale. Infatti, un luogo comune è “non c’è amore senza attrazione fisica”. In realtà, invece, è il risultato dell’equilibrio che si instaura fra l’amore passionale, l’amore erotico (o eros), l’essere innamorato e l’amore amicale. Fin dai tempi antichi l’uomo si domanda cosa possa accendere l’amore romantico, ma questo è un enigma tuttora irrisolto sebbene sia stata avanzata un’ipotesi. Infatti sembrerebbe che l’attrazione e il desiderio siano generati dalla curiosità di conoscere e scoprire l’altro, dall’imprevedibilità e dalla sorpresa. Non a caso il nemico principale della passione è la “routine” all’interno della coppia che col tempo porta inevitabilmente la passione a spegnersi, lasciando il posto, se l’unione non si basata su una buona armonia dei diversi tipi d’amore, ma solo su quello passionale, ad un timido amore amicale o ancor peggio all’indifferenza.

L’amore compassionevole è l’amore verso il prossimo. Gli antichi lo definivano agaph (agapé) ovvero l’amore disinteressato rivolto alla cura e la protezione dell’altro. A partire da questa concettualizzazione spesso è stato associato all’amore che un uomo di chiesa può offrire oppure all’amore dei genitori verso i figli. Recentemente, Clark e colleghi (Clark e Monin 2006) hanno osservato come proprio questo tipo d’amore possa essere alla base delle dinamiche del vivere sociale. Inoltre molte ricerche hanno notato come anche quest’amore sia coinvolto nell’alchimia che lega una coppia. Infatti sembra attivarsi ogni qual volta uno dei due partner è in difficoltà e ha bisogno di supporto e sostegno.

Infine, l’ultima forma d’amore è l’ Adult Attachment Love, l’amore da attaccamento adulto. Descritto sia Harlow (1958) e che da Bowlby (1979) che hanno osservato come i bambini siano dotati di un complesso sistema di comportamenti innati che si attivano in presenza di una possibile minaccia con lo scopo di ricercare la protezione e il conforto dalla persona preposta alla cura (solitamente la madre). Nell’adulto, l’attaccamento, allo stesso modo lega la persona al partner con un complesso sistema di comportamenti che inconsciamente determinano anche la scelta del compagno.

Nel corso della vita tutti sperimentano questi quattro tipi d’amore e spesso accade che un tipo si trasformi in un altro in modo naturale e quasi impercettibile. Così come noi cresciamo anche i nostri sentimenti maturano e si evolvono permettendoci di costruire una fitta rete di affetti e relazioni.

Walster, E., Walster, G. W. (1978). A New Look at Love. Reading, MA: Addison-Wesley

Clark, M. S., & Monin, J. K. (2006). Giving and receiving communal responsiveness as love. In R. J. Sternberg & K. Weis (Eds.), The new psychology of love (2nd ed.). New Haven, CT: Yale University Press.

Harlow. H. F. (1958) “The nature of love”. American Psychologist, 13, 673–685.

Bowlby, J. (1979). The Making and Breaking of Affectional Bonds. London: Tavistock

Berscheid, E. (2010). Love in the Fourth Dimension. Annual Review of Psychology, 61, 1–25.

I doni del cioccolato

Addio carote. Una gustosa tavoletta di cioccolato può migliorare la nostra vista.

Ricercatori dell’Università di Reading hanno dimostrato, in un campione di giovani-adulti, un miglioramento delle capacità visive due ore dopo avere consumato 35 grammi di un particolare tipo di cioccolato fondente, rispetto al gruppo che aveva assunto cioccolato bianco.

Le virtù del cioccolato, o meglio, dei flavonoidi contenuti nel cacao, sono note già da tempo soprattutto per le loro proprietà anti-ossidanti e i benefici sul sistema cardiovascolare. Studi recenti ci dicono di più: questi preziosi componenti, che si trovano naturalmente in grandi quantità in cibi come frutti di bosco, tè verde, vino rosso e -appunto- nel cacao, avrebbero un importante ruolo anche sulle nostre funzioni cerebrali. Il meccanismo secondo cui i flavonoidi agiscono sul nostro cervello dipenderebbe dal loro potere vaso-dilatatorio e dal conseguente aumento del flusso sanguigno. Studi condotti sia su animali che sull’uomo hanno messo in evidenza un miglioramento delle nostre funzioni cognitive come attenzione, ragionamento spaziale e memoria e, più recentemente, del nostro sistema visivo. Questo accadrebbe proprio perché, aumentando il flusso sanguigno all’occhio e al cervello, si avrebbe un incremento della funzione della retina e della parte del cervello che è responsabile delle funzioni visive, avendo come risultato un miglioramento della vista.

Ulteriori studi stanno testando questa ipotesi anche su persone anziane. “Noi siamo più interessati all’effetto dei flavonoidi sull’abilità di percepire il contrasto, ovvero di identificare un oggetto dallo sfondo. Questa capacità cala rapidamente dopo i 60 anni, questo è il motivo per cui le persone dopo questa età sono le prime a smettere di guidare la sera”, dice il dott. David Field dell’Università di Reading.

Anche se è ancora presto per affermazioni certe ed effetti a lungo termine, noi possiamo intanto continuare a spruzzare cacao sul nostro cappuccino!

 

Anatomia dell’amore


Alcuni antropologi e psicologi definiscono l’amore come un universale culturale, ovvero uno di quei concetti presenti in tutte le culture fin dall’origine dell’uomo. Nonostante ciò bisogna attendere fino al 1958 e lo studio di Fritz Heider sulle relazioni interpersonali, per trovare il primo lavoro empirico sull’amore e sui suoi meccanismi. Sorprende come anche nello studio delle relazioni più intime sia stata posta più attenzione a espressioni come l’aggressività, conflittualità e ostilità piuttosto che all’amore. Una possibile spiegazione è che queste espressioni negative se emergono vadano tenute sotto controllo a causa degli effetti dannosi che potrebbero avere rispetto ai presumibili effetti positivi dell’amore. La ricerca negli anni ha identificato diversi tipi di amore: l’amore amicale, quello romantico, l’amore compassionevole e l’amore del legame d’attaccamento. Un aspetto interessante è come questi tipi siano coinvolti in momenti diversi nella relazione e in misura differente nei suoi protagonisti in una visione strutturata dell’amore, in cui ogni tipo nasce e si manifesta in maniera diversa. Oggi questi aspetti rimangono ancora inesplorati e non strutturati in una teoria empirica. Un tentativo di sviluppare un approccio temporale dello studio dell’amore è stato formulato dalla Dott.ssa Berscheid che propone il “Temporal Model for Love”, teoria che incorpora i diversi tipi di amore all’interno di una ricerca longitudinale per valutare come e se questi  possano integrarsi.

La prossima settimana andremo ad approfondire questa nuova anatomia dell’amore per comprendere meglio le relazioni, come mutano nel tempo o come possono finire.

Berscheid, E. (2010). Love in the Fourth Dimension. Annual Review of Psychology, 61, 1–25.

Heider, F. (1958). The psychology of interpersonal relations. Wiley: New York.

Ma che cos’è questa mindfulness?


Sempre più conosciuta e praticata sia in psicoterapia cognitiva sia in contesti molto differenti, dalla formazione dei manager allo sport, la mindfulness è una forma di meditazione applicabile all’attività clinica. La mindfullness è una pratica di attenzione consapevole, intenzionale, non-giudicante nel momento presente”. Jon Kabat-Zinn, primo al mondo a portare la mindfulness nel contesto psicoterapico, dice che per nutrire il terreno del nostro atteggiamento, affinché la nostra pratica della consapevolezza possa crescere rigogliosa e fiorire, dobbiamo coltivare sette atteggiamenti: non giudizio, pazienza, la “mente del principiante” (essere disposti a guardare ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta), fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare, impegno nella pratica e visione di ciò che si desidera per se stessi. Negli ultimi venticinque anni la mindfulness è stata efficacemente applicata su diverse psicopatologie. Esempi? depressione, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, post-traumatico da stress, dipendenze, dolore cronico e fibromialgie, solo per citarne alcune.

Ma quali sono i motivi per cui i terapeuti, soprattutto cognitivi, usano la mindfulness nei percorsi di psicoterapia? Quali ragioni ci rassicurano che la mindfullness non è una sorta di misticismo new age, poco affine alla psicoterapia, disciplina scientifica e interessata alla ricerca sull’efficacia? Tra gli studi che dimostrano l’efficacia della mindfulness nella prevenzione delle ricadute depressive c’è il “Mindfulness-Based Stress Reduction Program” svolto al Medical Center in Massachusetts e in molti altri centri nel mondo. Esso conferma gli effetti neurobiologici e fisiologici rilevati in letteratura scientifica.

Il rischio che la mindfulness venga confusa e scambiata con tante altre cose (rilassamento, ipnosi, forme più e meno legittime di trance indotta) è reale e vale la pena fare un po’ di chiarezza. Per questo motivo, nei prossimi articoli vedremo cosa ci insegna la letteratura scientifica sulla mindfulness in merito alla pratica e al suo uso all’interno di strategie terapeutiche con persone con diversi disturbi psicologici, evitando di usare la mindfulness solo perché è di moda. Inoltre, cercheremo di fare un po’ di chiarezza sul come la mindfulness dovrebbe integrarsi in una cornice teorico-clinica precisa e scientificamente fondata. Inoltre, descriveremo alcuni piccoli esercizi per praticare la mindfulness e iniziare a coltivare la nostra consapevolezza.

Da mesi sogni di vedere quel film? Allora ti siedi a destra


Leggiamo su Cafè Psicologico una notizia interessante e divertente. Secondo uno studio del giapponese Matia Okubo soggetti destrimani, se invitati e calorosamente motivati  a vedere un film, mostrano una spiccata preferenza per i posti a sedere localizzati nel lato destro della sala. Questo fenomeno non si osserva nei soggetti mancini e negli ambidestri e scompare del tutto nei soggetti destrimani non motivati alla visione del film.

Okubo ha osservato questo comportamento in un esperimento condotto su 200 studenti. Dopo avere accertato la dominanza manuale dei soggetti, agli studenti veniva detto che di li a poco avrebbero visto un film. A una parte di loro era stato detto che il film che si apprestavano a vedere aveva avuto ottime recensioni, mentre alla restante parte di studenti era stato detto che il film aveva avuto pessime recensioni. Gli studenti mancini e ambidestri in nessuna delle due condizioni avevano mostrato preferenze tra destra e sinistra nella scelta dei posti, mentre il 74% degli studenti destrimani altamente motivati a vedere il film ha scelto di sedersi alla destra dello schermo; ma questa preferenza nella scelta dei posti si annullava se i soggetti destrimani non sono motivati a vedere il film.

La spiegazione? Occorre ripassare un po’ di psicologia fisiologica. L’emisfero destro è più abile del sinistro nell’elaborazione delle informazioni visive ed emotive e questa supremazia è molto più marcata nei soggetti destrimani, rispetto a quanto avvenga nei mancini e negli ambidestri. Secondo Okubo, i destrimani desiderano ottimizzare la capacità di elaborazione delle informazioni visive/emotive. Per questo essi tendono a preferire i posti a sedere alla destra dello schermo del cinema in modo che l’input visivo raggiunga preferibilmente l’emicampo sinistro e venga così elaborato dall’emisfero destro. E se l’input visivo fosse ritenuto poco rilevante? In concreto: e se il film non fosse ritenuto interessante? In questo caso sarebbe poco economico per il nostro cervello  ottimizzare la processazione delle informazioni. E quindi un posto a sedere varrebbe l’altro.

Okubo, M. (2010). Right movies on the right seat: Laterality and seat choice. Applied Cognitive Psychology, 24, 90-99.

Il Primo Congresso di Terapia Metacognitiva

Manchester - Primo Congresso di Terapia Metacognitiva

Dal 11 al 13 maggio a Manchester si è svolta la prima Conferenza Internazionale di Terapia Metacognitiva. Si tratta di una recente evoluzione della terapia cognitivo-comportamentale. In essa l’intervento terapeutico si concentra principalmente sul modo in cui le persone pensano e sulle regole implicite che governano il modo di pensare.

La terapia metacognitiva di Wells è una delle evoluzioni della precedente teoria metacognitiva di Flavell (1979). Essa nasce a metà degli anni ’90 da alcuni studi scientifici teorici sugli stili attentivi, cioè su come di solito le persone usano la propria attenzione. Nel corso degli anni gli studi si sono estesi alla psicologia clinica e agli stili di pensiero perseverativi come il rimuginio ansioso, la ruminazione depressiva o rabbiosa, la paranoia e infine il pensiero desiderante. Tutti questi stili di pensiero e stili attentivi costituiscono la cosiddetta Sindrome Cognitivo-Attentiva (SCA, Wells & Matthews, 1994) che sintetizza ciò che di controproducente avviene nella mente delle persone.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
Clicca sull’immagine per leggere: Musica e Didattica Metacognitiva. Autore: Lucio Montagna

La SCA è sostenuta dalla presenza di alcune regole e credenze implicite che governano l’uso del pensiero e dell’attenzione (es: rimuginare mi aiuta a essere pronto al peggio, pensare alle cause dei problemi mi aiuta a trovare una soluzione, prestare attenzione a tutti i segnali di rifiuto mi serve per proteggermi da un abbandono improvviso). Molte di queste regole tendono a tenere le diverse componenti della SCA costantemente attive e mantengono un livello di malessere nella forma di emozioni negative o di comportamenti impulsivi e dannosi.

 

Le ricerche sull’efficacia della terapia metacognitiva sono solo all’inizio e attualmente deve essere considerata come una terapia sperimentale, tuttavia questa prima conferenza internazionale ha presentato alcuni dati incoraggianti sulla possibilità di integrare interventi su metacognizioni e sulla SCA ai protocolli di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Flavell, H. G. (1979). Metacognition and cognitive monitoring: A new area of cognitive-developmental inquiry. American Psychologist, 34, 906 – 911.
  • Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.
  • Wells, A. (2008). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press

Telomeri e psicoterapia

Telomeri e Psicoterapia -

Avete presente i cappuccetti di plastica alle estremità dei lacci delle scarpe? Senza di loro il tessuto si sfilaccerebbe in poco tempo. E cosa sono i telomeri? Guardiamo l’illustrazione in testa a questo post. Distinguiamo facilmente i cromosomi. I telomeri sono quei cappuccetti rossi alle estremità dei cromosomi. E come i cappuccetti dei lacci, essi impediscono lo sfilacciarsi precoce.

Ma la psicoterapia che c’entra? Un legame c’è, scrive l’Economist. Si sa che lo stress cronico  accorcia prematuramente i telomeri e accelera lo sfilacciarsi -cioè l’invecchiamento- dei cromosomi.

In un congresso della associazione per la ricerca sul cancro a Orlando (Florida), il prof. Edward Nelson della Università della California ha dimostrato che un conseling telefonico offerto a donne con un tumore del collo dell’utero non solo ferma l’accorciamento dei telomeri, ma ne promuove la riparazione.

Le implicazioni cliniche sono chiare: non solo le donne si sentivano psicologicamente meno vulnerabili, ma anche l’efficienza del sistema immunitario ne traeva beneficio. E questa è un’ottima notizia per comprendere meglio la relazione sempre più evidente tra corpo e mente. Ricerche simili, condotte da Elizabeth Blackburn dell’Università della California, hanno trovato delle conferme a questo dato, ma che si riferiva  all’esercizio fisico che ha effetti simili non solo sul benessere psicologico ma anche sui telomeri. Le donne continuavano ad essere malate, a curarsi, ma il livello di stress calava e il corpo reagiva in modo deciso e verificabile.

Evidentemente questi dati vanno confermati, ma tutto questo a prima vista sembra promettente per noi psicoterapisti. E perché? Perché dimostra, o almeno suggerisce che parlare, alleviare  lo stress in una relazione empatica, consentire a chi soffre di ragionare, di esprimere emozioni e di sentirsi ascoltato, ha implicazioni preziose che stiamo cominciando a cogliere solo ora, a livello non solo emotivo e psicologico, ma del corpo nel suo insieme.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ANCORA SUI TELOMERI: Cellule Staminali: nuovo passo avanti. Restaurando Telomeri

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