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Pratica(mente) mindfulness – L’esercizio dell’uva passa

 

Mindfulness - pratica dell'uva Passa

La Mindfulness ci mette di fronte ad una riflessione importante: quanto è limitata la nostra maniera consueta di prestare attenzione alle cose? Quali (e quante) sono le cose che ogni giorno facciamo con il pilota automatico?

Quando abbiamo attivato il pulsante del pilota automaticoprobabilmente la nostra mente è in quella che è nota come la “modalità narrativa”, concentrati cioè su aspetti diversi dal momento presente. Pensiamo a quando sentiamo un’emozione spiacevole legata ad un evento passato o futuro, un’immagine legata ad un evento/situazione accaduto o in procinto di accadere, un pensiero su cosa dovremo fare poco dopo o che avremmo dovuto fare. Sebbene tale modalità interpretativa della nostra mente di tipo concettuale/semantico dia senso alla nostra esistenza, in alcuni casi può far sì che, come dicono Kabat-Zinn e i suoi colleghi Williams, Teasdale e Segal “ci perdiamo tanto della vita, la nostra mente è sempre sul piano narrativo del passato e del futuro” e non ci concediamo mai (o quasi mai) di prestare attenzione al momento che stiamo vivendo “con tutta la mente e con tutto il cuore, utilizzando appieno le risorse del corpo e dei sensi; quest’ultimo è il secondo stato di funzionamento della mente, quello “esperienziale

Per continuare il nostro viaggio nella pratica della Mindfulness e per “farci un’idea di quanto possa essere vivida un’esperienza quando la mente è presente al suo dispiegarsi in modo intenzionale e non giudicante” oggi vi suggeriamo la pratica dell’uva passa, per un primo assaggio di consapevolezza, così come è descritta Williams, Teasdale, Segal e Kabat-Zinn nel loro libro “Ritrovare la serenità” (Williams et al., 2010, p. 47-48).

Pratica dell’uva passa

1 – Tenere in mano

Per prima cosa prendete un acino di uva passa e tenetelo sul palmo della mano o tra pollice e indice.

Concentrandovi su di esso, immaginate di essere appena arrivati da Marte e di non aver mai visto un oggetto come questo nella vostra vita;

2 – Vedere

Datevi il tempo di vederlo veramente; osservate l’acino d’uva passa con cura e con piena attenzione.

Lasciate che i vostri occhi ne esplorino ogni parte, esaminando i punti in cui risplende la luce, gli incavi più scuri, le pieghe e le grinze e qualsiasi asimmetria o caratteristica unica.

3 – Toccare

Rivoltate l’acino d’uva passa tra le dita, esplorandone la consistenza, magari a occhi chiusi, se ciò acuisce il vostro senso del tatto.

4 – Annusare

Tenendo l’acino d’uva passa sotto il naso, a ogni inspirazione inalate qualsiasi odore, aroma o fragranza che ne scaturisca, notando se ne frattempo avviene qualcosa di interessante nella vostra bocca e nel vostro stomaco.

5 – Mettere in bocca

Ora avvicinate lentamente l’acino d’uva passa alle labbra, notando come la mano e il braccio sappiano esattamente come e dove collocarlo. Posatelo delicatamente in bocca, senza masticare, notando innanzitutto come ci è arrivato. Esplorate per qualche momento l’acino d’uva passa con la lingua e le sensazioni che suscita in voi.

6 – Assaporare

Quando siete pronti, preparatevi a masticare l’acino d’uva passa, notando come e dove deve collocarsi per la masticazione. Poi, molto consapevolmente, date un morso o due e notate che cosa succede subito dopo, facendo esperienza delle eventuali ondate di gusto che emana mentre continuate a masticarlo. Senza ancora ingoiarlo, notate le semplici sensazioni generate nella vostra bocca dal gusto e dalla consistenza dell’acino d’uva passa e come esse possano cambiare nel tempo, momento per momento, oltre a prendere nota di eventuali cambiamenti nell’oggetto stesso.

7 – Ingoiare

Quando vi sentite pronti a ingoiare l’acino d’uva passa, vedete se prima di tutto riuscite a percepire l’intenzione di ingoiare mentre essa emerge, in modo da sperimentare consciamente anche tale intenzione, prima di procedere.

8 – Seguire le sensazioni

Infine, vedete se riuscite a sentire ciò che rimane dell’uva passa mentre scende nello stomaco e a percepire le sensazioni del corpo nel suo complesso, al termine di questo esercizio di consapevolezza nel mangiare.

I pensieri rigidi, le mani pulite e Amleto


I Pensieri rigigi, le mani pulite e Amleto. Sull’ultimo numero dell’American Journal of Psychiatry sono stati pubblicati i risultati di un lavoro che potrebbe confermare un’ipotesi cognitiva del disturbo ossessivo compulsivo. La tendenza di questi pazienti a nutrire dubbi ossessivi (per esempio: avrò davvero le mani pulite? Chi mi assicura che le abbia pulite in ogni momento della giornata? E se le avessi sporcate senza rendermene conto?) e comportamenti di controllo compulsivi (dato che non esiste la certezza di avere le mani pulite, me le lavo in continuazione) potrebbe dipendere da uno stile di pensiero rigido e poco flessibile. Del tipo: l’idea sottostante all’ossessione delle mani pulite dipenderebbe da una definizione di pulizia rigida e irrealistica. Il che vuol dire che il paziente ritiene che sia accettabile solo la pulizia perfetta e assoluta in ogni momento della giornata. E se accettiamo questo criterio, davvero abbiamo sempre le mani sporche.

Ma non basta. I ricercatori hanno anche dimostrato che l’ossessività dipende anche da una particolare rigidità nella organizzazione dei propri obiettivi personali significativi, a breve e lungo termine. Che vuol dire? Torniamo all’esempio dell’igiene delle mani. Le mani pulite non sono solo un valore in sé, ma servono anche a scopi a lungo termine: per esempio per curare l’accettabilità sociale, la possibilità di intrecciare relazioni gratificanti con gli altri. Relazioni di vario tipo: professionali, amichevoli e/o amorose.

Per non far diventare le mani pulite un ossessione occorre ricordare a cosa ci serve la pulizia delle mani: un paio di mani sporche ci danneggiano con i colleghi, gli amici, il partner. Certo, l’igiene è anche un valore in sé. Ma possiamo gestire bene questo obiettivo solo se sappiamo iscriverlo in una famiglia più ampia di obiettivi complessi: gli obiettivi sociali. Se invece tutto si irrigidisce, se l’igiene delle mani diventa un obiettivo in sé irrinunciabile e non modulabile, ecco che, paradossalmente, diventiamo disposti al sacrificare il nostro benessere sociale pur di avere sempre le mani perfettamente pulite. Ovvero, potremmo preferire di rinchiuderci in casa, pur di poter passare serate intere a lavarci le mani.

Tutto questo è utile al terapeuta? In parte si. Gli dice che per il paziente ossessivo è bene apprendere uno stile di ragionamento più flessibile, capace di valutare la ragionevolezza degli obiettivi e la capacità di stabilire delle priorità. Ne vale la pena rinunciare agli amici per un paio di mani nette e impeccabili? Certo, rimane il sospetto che questi studi sui processi mentali non riescano poi a catturare certi stati d’animo che emergono più facilmente in seduta e non nella stanza del laboratorio. Per esempio che in realtà il soggetto ossessivo si senta profondamente inadeguato nelle situazioni sociali, o ancor peggio, amorose.

Non è solo questione di pensiero rigido o flessibile. Confessiamolo: è anche vero che la vita sociale non è affatto facile. Ci fornisce gioie, ma anche dispiaceri. Per godersela, occorre saper essere simpatici e brillanti. Occorre saper gestire eventuali (e inevitabili) gaffe e defaillance. Occorre sapere accettare la derisione e la provocazione che gli altri a volte (o spesso) ci infliggono per mera superficialità o, peggio, per cattiveria. E, a pensarci bene, chi mai sopporterebbe “il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri”?  (Amleto, atto terzo, scena prima). E così via.

Forse hanno ragione gli ossessivi. Certe sere d’inverno è meglio starsene a casa a lavarsi le mani. Fa freddo là fuori.

 

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Mal di testa? Meditate


Niente più pillole, sciroppi o iniezioni, basta un’ora di meditazione e il dolore se ne va. In uno studio pubblicato dal Journal of Neuroscience e condotto da un gruppo di ricercatori del Wake Forest Baptist Medical Center di Winston-Sale (Usa) la meditazione avrebbe un potere analgesico sul dolore.

Gli scienziati hanno selezionato un campione di soggetti sani composto da 15 volontari senza alcuna esperienza di meditazione e li hanno sottoposti ad un training di Mindfullnes. Tramite la tecnica di “attenzione focalizzata” hanno insegnato ai soggetti a concentrare la mente sul respiro, ad allontanare i pensieri intrusivi e le emozioni negative’.

Il trial consisteva nel posizionare sotto la gamba destra dei soggetti un’apparecchiatura generante calore dolorifico raggiungendo la temperatura di 49°, mentre i soggetti erano impegnati in un training di meditazione della durata di 20 minuti. Prima e durante la meditazione i soggetti venivano sottoposti ad una particolate tecnica di risonanza magnetica, l’Arterial Spin Labelling, in grado di rilevare l’intensità del dolore attraverso la mappatura del flusso sanguigno.

Dai dati emergerebbe una riduzione della percezione dolorifica dal 40% fino al 93% durante la meditazione, accompagnata anche dalla diminuzione di circa il 57% della percezione soggettiva di fastidio e dispiacere conseguente alla sofferenza. Le scansioni hanno individuato a livello cerebrale una sostanziale riduzione dell’attività della corteccia somato-sensoriale notoriamente coinvolta nella genesi della sensazione di dolore. Non basta. Tramite la meditazione venivano attivate altre zone fondamentali implicate nella percezione dolorosa: il cingolo anteriore, l’insula anteriore e la corteccia fronto-orbitale. Questo circuito elabora i segnali dolorosi, definendo durata ed intensità del dolore percepito.

Secondo gli autori, il punto di forza della meditazione sarebbe proprio la capacità di coinvolgere più aree cerebrali, che permetterebbero un’alterazione della costruzione dell’esperienza dolorosa modificandone l’intensità delle informazioni afferenti. Il risultato è una significativa diminuzione della percezione del dolore. Fadel Zeidan, autore dell’articolo, e i suoi collaboratori ipotizzano addirittura l’utilizzo delle tecniche meditative come sostituto di terapie standard.

Se queste ipotesi dovessero trovare riscontro in ulteriori studi sarebbe un’ulteriore conferma di quanto lo stato mentale possa influenzare le sensazioni corporee tanto da essere più potente di qualsiasi antidolorifico.

Quindi meditate gente, meditate.

F. Zeidan, K. T. Martucci, R. A. Kraft, N. S. Gordon, J. G. McHaffie, R. C. Coghill (2011). Brain Mechanisms Supporting the Modulation of Pain by Mindfulness Meditation. The Journal of Neuroscience, 31, 5540-5548.

Magro è bello? Dipende dalle latitudini!

Romina Brambilla.  


Se nel mondo Occidentale contemporaneo le diete e la magrezza sono diventate una vera e propria “ossessione culturale di massa”, in Mauritania, stato dell’Africa Occidentale con la minore densità abitativa del mondo, vale esattamente il contrario. In questo Stato resiste ancora oggi l’antica pratica tribale del LEBLOUH, consistente nel far ingerire fino alla nausea enormi quantità di cibo a bambine e preadolescenti, per renderle spose appetibili e procurare loro un buon e “precocissimo” matrimonio. Questo modello estetico, giunto sino ai giorni nostri, affonda le sue radici in un tempo lontano quando nel deserto le mogli degli uomini più importanti della tribù locale, per sfuggire al caldo, non uscivano mai dalla tenda e passavano le loro giornate mangiando e dormendo, fermamente convinte che “le dimensioni di una donna siano proporzionali allo spazio occupato nel cuore degli uomini”. L’obesità della sposa è, infatti, associata alla prosperità, al potere e alla bellezza; un corpo magro e filiforme, non è solo considerato poco attraente dal punto di vista fisico, ma anche fonte di vergogna per la famiglia, che nel concedere in sposa un’esile fanciulla, potrebbe correre il rischio di essere considerata “famiglia poco prestigiosa ed incurante delle tradizioni”. Questa forma di “binge eating” indotto è diffusa soprattutto nelle zone rurali del Paese ed è facilitata dalla presenza di vere e proprie “fattorie dell’ingrasso”, che al pari dei nostri centri fitness più avanzati, modellano il corpo delle giovani, trasformandole in poco tempo da minute bambine a matrone oversize. Al posto dei personal trainers, vi sono signore, specializzate nella pratica dell’ingrasso, che propongono alle giovani un regime alimentare giornaliero estremamente efficace e crudele nella sua semplicità: trangugiare per tre volte al giorno enormi quantità di datteri, couscous, miglio, burro e latte di cammella. La tortura inizia a cinque anni e se tutto va nel verso giusto le bambine, promesse spose, arrivano a 12 anni a pesare tra i 60 e i 100 kg. Alla fine della “cura” alcune ragazze faticano a camminare per il troppo peso accumulato e dimostrano il doppio della loro età.

Come è facile immaginare la pratica dell’ingrasso è portatrice di numerosi problemi, soprattutto legati all’obesità. Il governo della Mauritania ha pertanto lanciato diverse campagne di “desensibilizzazione”, puntando soprattutto sui rischi connessi alla salute. Se nelle zone rurali, dove le campagne di informazione promosse dal governo e da alcune associazioni locali, non sono mai arrivate, tanto che la pratica dell’alimentazione forzata coinvolge ancora l’80% delle giovani donne, in città il vento sta cambiando. Nella capitale Nouakchott – dove pure si vendono pillole superenergetiche, barrette ipercaloriche e persino prodotti a base di ormoni o di cortisone – la percentuale scende sotto il 10%. Oltre alla scolarizzazione, le maggiori “spallate” alle tradizioni arrivano da internet e dalle tv satellitari che portano in casa nuovi modelli culturali in relazione all’aspetto corporeo: corpi snelli e tonici. Così ogni sera migliaia di giovani mauritane riempiono le palestre o corrono lungo i viali cittadini. Madide di sudore e sorridenti. Sebbene rimangano alcuni estimatori delle forme sovrabbondanti, secondo alcuni sondaggi anche gli uomini, nelle città, sembrerebbero preferire compagne snelle ed atletiche, probabilmente conquistati da bellezze d’importazione occidentale, tanto da far dire ad Jussuf, negoziante di 19 anni intervistato dalla BBC: “Vogliamo mogli magre!”.

La moda e i mezzi di comunicazione, al pari delle tradizioni, rivestono pertanto un’enorme capacità di influenzare. Non sono entità culturali isolate ma creano e riflettono valori e interessi culturali dominanti, anche nell’atteggiamento nei confronti del corpo, tanto da riuscire a modificare “dimensioni di una donna nel cuore di un uomo”. Voi che ne pensate?

Fonti e bibliografia

www.magharebia.com. http://www.corriere.it/esteri/09_febbraio_25/mauritania_donne_grasse_viviana_mazza_d3b7bbde-0347-11de-a752-00144f02aabc.shtml
Gordon, R. (2004). Anoressia e Bulimia, Anatomia di un’epidemia sociale. Raffaello Cortina Editore

Lo sporco rende felici


Respirare lo sporco fa bene! Non è uno scherzo, ma semplicemente il frutto di una ricerca del Sage Colleges a Troy di New York, dove è stato scoperto un micobatterio capace di influenzare il nostro organismo. Il suo nome è Mycobacterium Vaccae, si trova nei terreni di campagna, nello sterco di vacca e nella sporcizia in genere, e viene facilmente inalato o ingerito perché trasportato dall’aria. Questo batterio sarebbe capace di stimolare il cervello inducendolo a produrre serotonina. Secondo la ricerca, l’inalazione del batterio avrebbe delle conseguenze positive sui livelli serotoninergici  dell’organismo, sull’apprendimento e l’intelligenza. L’esperimento è stato condotto su alcune cavie, nella cui dieta sono stati inseriti i batteri. Il gruppo di topi esposti all’effetto del batterio sono riusciti ad orientarsi in un labirinto a velocità doppia -apprendimento repentino!- e hanno meno ansia rispetto al gruppo di controllo. Come ulteriore controprova, in un secondo momento la dieta delle cavie del primo gruppo è stata modificata togliendo il supplemento del batterio, e i ricercatori hanno verificato un peggioramento significativo delle prestazioni in coincidenza del cambiamento attuato: deperimento cognitivo.

La ricerca degli scienziati statunitensi è scaturita da uno studio precedente di colleghi inglesi che aveva evidenziato in alcuni pazienti malati di tumore un netto miglioramento della condizione psicologica a seguito dell’esposizione del Mycobacterium vaccae. Secondo gli studiosi della Bristol University, il batterio stimola il sistema immunitario attivando i neuroni che producono serotonina, con l’effetto di un miglioramento dell’umore e una riduzione dei livelli di ansia, proprio come fanno alcuni antidepressivi in commercio.

Lo studio, dunque, fa supporre che il batterio agisca positivamente sull’ansia, migliori le capacità d’apprendimento, e -addirittura- agisca anche come un antidepressivo naturale. Sarebbe auspicabile valutare se inserire, nei programmi scolastici, attività all’aria aperta, in ambienti dove questo microrganismo è presente, con l’obiettivo di ridurre l’ansia degli allievi e migliorare lo studio. Le potenzialità del batterio, sono quelle di stimolare il cervello e facilitare l’apprendimento diminuire l’ansia e migliorare l’umore, gli scienziati dunque sono convinti che respirare per più tempo aria di campagna possa rivelarsi più efficace di un antidepressivo. Quindi, da oggi più felici e più intelligenti grazie ad un batterio dello sporco.

Barcat, J.A. (2011). Mycobacterium vaccae and intelligence. Sensationalism and propaganda in press releases. Medicina, 71, 186-188.

Il grado di istruzione dei genitori influenza l’abilità di lettura dei figli?


 

Gli psicologi Friend, Olson e DeFries dell’Università di Boulder (Colorado) hanno studiato l’interazione tra variabili genetiche e ambientali nella genesi della dislessia, il più comune tra i disturbi dell’apprendimento, concentrandosi prevalentemente sull’influenza che il grado di istruzione dei genitori (variabile di tipo ambientale) ha sullo sviluppo di tale disturbo.

Gli studiosi hanno eseguito uno studio su 445 coppie di gemelli, omozigoti ed eterozigoti, in cui almeno uno dei due fratelli fosse dislessico e per ciascuna coppia hanno indagato il livello di istruzione dei genitori. I risultati, pubblicati su Psychological Science, evidenziano la presenza di una significativa correlazione tra il livello di istruzione genitoriale e il grado di ereditarietà della dislessia: nelle coppie in cui l’istruzione dei genitori è più elevata la dislessia dei figli è principalmente dovuta a cause di tipo genetico, mentre l’opposto avviene nelle coppie i cui genitori presentano una istruzione di grado inferiore, in questi casi infatti la dislessia sarebbe principalmente dovuta a cause di tipo ambientale e minor peso verrebbe a rivestire la componente genetica.

Gli autori sottolineano che questi risultati potrebbero avere importanti ripercussioni in ottica preventiva e riabilitativa: si potrebbero creare dei percorsi scolastici ad hoc, rivolti soprattutto a bambini provenienti da famiglie con basso livello di istruzione, allo scopo di favorirne ed incrementarne l’esercizio delle abilità di lettura e scrittura per sopperire alle carenze dell’ambiente domestico. La questione, di per sé affascinante, appare in realtà delicata e complessa dal punto di vista organizzativo; una gestione non corretta potrebbe, infatti, favorire nelle famiglie non direttamente coinvolte nel progetto e nel personale scolastico stesso, una sorta di discriminazione delle famiglie meno abbienti verso cui è rivolta l’iniziativa.

Friend, A., DeFries, J. C., Olson, R. K. (2008). Parental education moderates genetic influences on reading disability. Psychological Science, 19, 1124-1130.

Insonnia e paranoia. Se non dormo penso male


L’insonnia è il più diffuso disturbo del sonno. Il suo impatto sulla qualità della vita è ampiamente riconosciuto, tuttavia le persone scelgono spesso di conviverci sostenendone le fastidiose conseguenze. Alcune di queste, come la stanchezza o l’irritabilità, sono universalmente associate all’insonnia. Altre risultano più difficili da riconoscere e spesso non vengono attribuite alla cattiva qualità del sonno.

Un esempio interessante riguarda la paranoia. Si tratta di un peculiare modo di usare il pensiero, uno sforzo mentale teso a immaginare tutte le possibili intenzioni malevole degli altri. La paranoia è un’esperienza comune ma può sfociare anche in forme molto gravi di delirio persecutorio. Una recente ricerca ha mostrato come la scarsa qualità del sonno sia maggiormente associata al pensiero paranoico in un campione di persone senza disturbi psicologici e in un campione di persone con alti livelli di paranoia (Freeman et al., 2009).

Le spiegazioni ipotizzate sono due. Innanzitutto, l’insonnia aumenta il livello di stanchezza e di tensione corporea e questo mantiene le persone in uno stato di allerta, come se fossero sotto una minaccia ancora non chiara. Lo stato di allerta conduce le mente a cercare possibili fonti di pericolo o danno, anche immaginando cosa possa correre nella mente altrui. Questa ipotesi è sostenuta da uno studio di Freeman e collaboratori (2010) che ha mostrato come l’associazione tra insonnia e paranoia sia spiegata, anche se solo parzialmente, dall’incremento di ansia e irritabilità.

Una seconda spiegazione considera il ruolo delle piccole dispercezioni, allucinazioni, pensieri intrusivi che solitamente si accompagnano alla deprivazione del sonno e che rappresentano un elemento chiave in grado di attivare il pensiero paranoico.

In sintesi, dormire male ci porta a pensare male e soprattutto a costruire riflessioni paranoiche, talvolta irrealistiche, che possono avere come lo spiacevole effetto di rovinare le nostre relazioni sociali  (Myers et al., 2011). Queste riflessioni sottolineano come la qualità del sonno rappresenti una condizione necessaria per il benessere psicologico.

Freeman, D., Pugh, K., Vorontsova, N., Southgate, L. (2009). Insomnia and paranoia. Schizophrenia Research, 108 (1-3), 280-284.

Freeman, D., Brugha, T., Meltzer, H., Jenkins, R., Stahl, D., Bebbington, P. (2010). Persecutory ideation and insomnia: Findings from the second British National Survey of Psychiatric Morbidity. Journal of Psychiatry Research, 44(15-13), 1021-1026.

Myers, E., Startup, H., Freeman, D. (2011). Cognitive behavioural treatment of insomnia in individuals with persistent persecutory delusions: a pilot trial. Journal of Behaviour Therapy and Experimental Psychiatry, 42(3), 330-336.

Carpe diem? Meglio rimandare!

 


 

Rimandare a domani: lo facciamo tutti e non solo per pigrizia. Questo comportamento comune può addirittura essere sintomo di un disturbo psicologico se adottato come strategia preferenziale per affrontare i compiti quotidiani.

La dottoressa Monica Ramirez Basco ha dedicato un libro a questo tema dal titolo The Procrastinator’s Guide to Getting Things Done, in cui la psicologa fornisce un elenco di sei diverse tipologie di procrastinatori, a seconda della ragione che li spinge a rinviare qualsiasi cosa a domani.

La categoria più numerosa è quella degli evitanti e si tratta di coloro che rimandano perchè ritengono il compito poco gradevole. Se anche voi avete l’abitudine di sfilare la multa dal tergicristalli e di accartocciarla nel cruscotto probabilmente fate anche voi parte di questa tipologia.

Se invece vi ritrovate a tagliare l’erba del giardino con un casco da minatore in piena notte, siete con buona probabilità dei disorganizzati, incapaci di gestire il vostro tempo e di stimare efficacemente la durata di un compito.

Esistono poi i dubitanti, coloro che passano molto tempo a chiedersi se sia il caso di cambiare lavoro visto che ogni mattina preferirebbero morire piuttosto che recarsi in ufficio, ma la cui insicurezza blocca ogni iniziativa concreta.

C’è poi chi utilizza la procrastinazione all’interno delle relazioni con gli altri, il cosidetto procrastinatore interpersonale. Qualche esempio? Un marito che non butta la pattumiera per indispettire la moglie, un bambino che non raccoglie i giochi da terra perchè tanto lo farà mamma o una fidanzata che non cucina le polpette al fidanzato per non sentirsi dire “sono meglio quelle di mamma”.

Il procrastinatore del tipo tutto o niente tende invece ad avere due modalità di affrontare un compito: o al 100% o lascia perdere. A tale atteggiamento si aggiunge spesso una notevole difficoltà a dire “no” alla richieste che gli vengono fatte con la conseguenza di ritrovarsi spesso sommerso da troppe responsabilità.

Infine abbiamo il ricercatore di piacere, un’espressione elegante per definire colui che più comunemente viene indicato come pigro. Questo fannullone rimanda semplicemente perchè non è nell’umore giusto per svolgere alcuna attività.Volete anche in questo caso degli esempi? Mi dispiace, non ne ho voglia!

Ramirez Basco,  M. (2009). The Procrastinator’s Guide to Getting Things Done, New York: Guilford Press




Sam, un amico virtuale per i bambini autistici


Gli ultimi dati raccolti dagli esperti confermano che circa la metà dei soggetti affetti da autismo possiedono buone capacità intellettive, ma mantengono serie difficoltà di adattamento negli ambienti sociali e lavorativi a causa della grave compromissione delle loro abilità di interagire e comunicare con gli altri.

I trattamenti comportamentali si sono dimostrati efficaci soprattutto nell’incrementare il potenziale intellettivo degli individui con autismo ma con più fatica sono stati in grado di promuovere le carenti abilità sociali.

Una risposta a tale esigenza arriva dalla realtà virtuale e si chiama Sam, un individuo dal rassicurante aspetto di un bambino di 8 anni, che si è dimostrato capace di favorire la messa in atto di comportamenti interattivi e comunicativi da parte dei compagni di gioco affetti da disturbi dello spettro autistico.

Justine Cassell, dirigente del Center for Technology and Social Behavior della Northwestern University, e il suo gruppo di ricerca hanno osservato sei bambini autistici ad alto funzionamento, di età compresa tra i 7 e gli 11 anni, giocare per un’ora sia con un bambino reale che con Sam.

L’analisi di tali interazioni ha evidenziato un incrementale utilizzo di frasi legate alla situazione specifica nella sessione di gioco con il pari virtuale, mentre tale utilizzo di frasi contingenti non aumentava quando il soggetto autistico interagiva con il bambino reale.

La felice scoperta non sta certo nell’aver individuato nel bambino virtuale il perfetto compagno di giochi per bambini che presentano carenze nell’area delle abilità sociali, ma nella possibilità di aiutare questi bambini a generalizzare le abilità di interazione apprese nelle realtà virtuale al contesto di vita reale. La sfida ovviamente sarà capire come!

Tra i principali motivi che inducono i bambini autistici ad una maggiore apertura nei confronti del pari virtuale sembrano esserci la sua infinita pazienza e la capacità di non mostrare mai segnali di noia nel giocare con l’amico autistico. Le sue conversazioni, il suo comportamento e il suo modo di apparire possono inoltre essere programmati così da favorire determinati comportamenti sociali e sollecitare l’interesse nel bambino che gioca con lui.

In attesa che Sam sbarchi anche Italia, le persone coinvolte a vario titolo nel trattamento dell’autismo potrebbero cominciare già a trarre da lui qualche utile spunto per insegnare a tutti coloro che interagiscono con i bambini affetti da tale disturbo un po’ di quella infinita pazienza e amore incondizionato dimostrato da Sam.

Fonti e bibliografia:

ScienceDaily – Mar. 8, 2008
www.psychcentral.com – Mar. 21, 2011
Howlin P., Baron-Cohen S. e Hadwin J., (1999) Teaching children with autism to mind-read, John Wiley & Sons Ltd

Prevenire le ricadute con la mindfulness


La mindfulness è da molti anni uno strumento terapeutico la cui efficacia è oggetto di verifica rigorosa. È ormai dimostrato che la pratica costante della mindfulness riduce di circa il 50% il rischio delle ricadute depressive. Inoltre, chi nella vita ha avuto più di un episodio depressivo, con la mindfulness potrebbe arrivare a prevenire le ricadute addirittura del 70% circa. I due protocolli terapeutici elaborati da Segal e colleghi, e poi rivisti e adattati da molti altri nel mondo, sono il MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) e la MBCT (Mindfulness- Based Cognitive Therapy). Al di là di questi due programmi, però, sembra efficace e opportuno inserire degli interventi di mindfulness all’interno di percorsi psicoterapici più complessi e “vestiti” sul singolo paziente.

Un aspetto rilevante è che esistono esercizi di pratica informale, che possono aiutare tutti ad avvicinarsi alla pratica della mindfulness. Pratica diversa cosa rispetto alla pratica all’interno di una psicoterapia, ma comunque interessante e utile per accostarsi a questa affascinante meditazione.

Un esempio?

Ecco un semplice esercizio insegnato da Pietro Spagnuolo (trainer mindfulness) che vi permetterà di comprendere meglio in cosa consiste la pratica dell’attenzione consapevole

“Scegli un’attività della vita quotidiana che esegui in generale in modo automatico, forse pensando ad altro. Ad esempio, quando ti lavi i denti, fai colazione, prepari il caffè, dai da mangiare al gatto o al cane o fai la doccia. Proponiti di svolgere questa attività quotidiana con consapevolezza, portando la tua attenzione a quello che stai facendo, alle sensazioni che provi, ai tuoi movimenti. Nel corso di questo esercizio, quando la mente divaga, nota dove sta la mente e riporta la tua attenzione all’attività che stai svolgendo”.

Attenzione, “attenzione” non è uguale a “controllo”. Stai con quel che c’è, senza giudicare o importi che qualcosa sia come non è.

Una volta praticata, concediti qualche minuto per riflettere (e magari scriverlo qui):

COSA E’ ACCADUTO?

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Bibliografia

Segal Z.V., Williams J.M., Teasdale J.D. (2006). Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Bollati Boringhieri: Torino.

Spagnulo P. (2009). Mindfulness – la meditazione per la salute. Ecomind: Salerno.

Teasdale, J. D., Segal, Z. V., Williams, J. M. G., Ridgeway, V., Soulsby, J., & Lau, M. (2000). Prevention of relapse/recurrence in major depression by mindfulness-based cognitive therapy. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 68, 615–623.

La verità, vi prego, sull’amore

 


Guardando una coppia di innamorati che passeggia mano nella mano si può pensare “Che teneri!” “Che carini! Come sono affiatati”. Oppure si può guardare la stessa coppia con l’occhio critico e indagatore e chiedersi: ”Ma com’è l’amore che stanno provando? Quante forme d’amore esistono? E quale stanno provando ora?”. È con questo sguardo curioso che nel corso degli anni i ricercatori hanno identificato quattro principali forme d’amore, che nascono, si sviluppano e si manifestano in modi molto differenti, ma tutte sensibili ai mutamenti che una persona affronta crescendo.

Ma quali sono questi tipi di amore? L’ Amore amicale, l’ Amore romantico, l’Amore compassionevole e il cosiddetto “Adult Attachment Love” termine da addetti ai lavori non facilmente traducibile. Il letterale “Amore da attaccamento adulto” non suona benissimo, ma ci accontentiamo in attesa di una traduzione migliore

L’amore amicale è il legame d’amicizia (philia) che unisce due persone. Si basa su un profondo sentimento d’ affetto, di fiducia e soprattutto sulla condivisione di interessi. Su un generico senso di familiarità e vicinanza che rende la relazione piacevole e che spesso da la sensazione a coloro che lo provano di non essere soli, di poter contare sull’ altro in caso di bisogno. È una forma d’amore “lento” perché si sviluppa dolcemente crescendo sempre di più giorno dopo giorno, ma una volta instauratosi è uno degli amori più stabili. Non a caso, infatti, Walster & Walster (1978) hanno ipotizzato che l’amore romantico si trasformi dolcemente in un profondo amore amicale come quello che si può scorgere incontrando una coppia di vecchietti, magari talvolta in lite fra loro, ma legati da un sentimento che va ben oltre alla semplice abitudine.

Se chiedessimo a dei passanti che cos’è l’amore, forse la maggior parte di loro ci darebbe la descrizione dell’amore romantico, ovvero il sentimento che nasce fra due innamorati. Purtroppo spesso questo tipo di amore viene ricondotto solo all’ aspetto passionale. Infatti, un luogo comune è “non c’è amore senza attrazione fisica”. In realtà, invece, è il risultato dell’equilibrio che si instaura fra l’amore passionale, l’amore erotico (o eros), l’essere innamorato e l’amore amicale. Fin dai tempi antichi l’uomo si domanda cosa possa accendere l’amore romantico, ma questo è un enigma tuttora irrisolto sebbene sia stata avanzata un’ipotesi. Infatti sembrerebbe che l’attrazione e il desiderio siano generati dalla curiosità di conoscere e scoprire l’altro, dall’imprevedibilità e dalla sorpresa. Non a caso il nemico principale della passione è la “routine” all’interno della coppia che col tempo porta inevitabilmente la passione a spegnersi, lasciando il posto, se l’unione non si basata su una buona armonia dei diversi tipi d’amore, ma solo su quello passionale, ad un timido amore amicale o ancor peggio all’indifferenza.

L’amore compassionevole è l’amore verso il prossimo. Gli antichi lo definivano agaph (agapé) ovvero l’amore disinteressato rivolto alla cura e la protezione dell’altro. A partire da questa concettualizzazione spesso è stato associato all’amore che un uomo di chiesa può offrire oppure all’amore dei genitori verso i figli. Recentemente, Clark e colleghi (Clark e Monin 2006) hanno osservato come proprio questo tipo d’amore possa essere alla base delle dinamiche del vivere sociale. Inoltre molte ricerche hanno notato come anche quest’amore sia coinvolto nell’alchimia che lega una coppia. Infatti sembra attivarsi ogni qual volta uno dei due partner è in difficoltà e ha bisogno di supporto e sostegno.

Infine, l’ultima forma d’amore è l’ Adult Attachment Love, l’amore da attaccamento adulto. Descritto sia Harlow (1958) e che da Bowlby (1979) che hanno osservato come i bambini siano dotati di un complesso sistema di comportamenti innati che si attivano in presenza di una possibile minaccia con lo scopo di ricercare la protezione e il conforto dalla persona preposta alla cura (solitamente la madre). Nell’adulto, l’attaccamento, allo stesso modo lega la persona al partner con un complesso sistema di comportamenti che inconsciamente determinano anche la scelta del compagno.

Nel corso della vita tutti sperimentano questi quattro tipi d’amore e spesso accade che un tipo si trasformi in un altro in modo naturale e quasi impercettibile. Così come noi cresciamo anche i nostri sentimenti maturano e si evolvono permettendoci di costruire una fitta rete di affetti e relazioni.

Walster, E., Walster, G. W. (1978). A New Look at Love. Reading, MA: Addison-Wesley

Clark, M. S., & Monin, J. K. (2006). Giving and receiving communal responsiveness as love. In R. J. Sternberg & K. Weis (Eds.), The new psychology of love (2nd ed.). New Haven, CT: Yale University Press.

Harlow. H. F. (1958) “The nature of love”. American Psychologist, 13, 673–685.

Bowlby, J. (1979). The Making and Breaking of Affectional Bonds. London: Tavistock

Berscheid, E. (2010). Love in the Fourth Dimension. Annual Review of Psychology, 61, 1–25.

I doni del cioccolato

Addio carote. Una gustosa tavoletta di cioccolato può migliorare la nostra vista.

Ricercatori dell’Università di Reading hanno dimostrato, in un campione di giovani-adulti, un miglioramento delle capacità visive due ore dopo avere consumato 35 grammi di un particolare tipo di cioccolato fondente, rispetto al gruppo che aveva assunto cioccolato bianco.

Le virtù del cioccolato, o meglio, dei flavonoidi contenuti nel cacao, sono note già da tempo soprattutto per le loro proprietà anti-ossidanti e i benefici sul sistema cardiovascolare. Studi recenti ci dicono di più: questi preziosi componenti, che si trovano naturalmente in grandi quantità in cibi come frutti di bosco, tè verde, vino rosso e -appunto- nel cacao, avrebbero un importante ruolo anche sulle nostre funzioni cerebrali. Il meccanismo secondo cui i flavonoidi agiscono sul nostro cervello dipenderebbe dal loro potere vaso-dilatatorio e dal conseguente aumento del flusso sanguigno. Studi condotti sia su animali che sull’uomo hanno messo in evidenza un miglioramento delle nostre funzioni cognitive come attenzione, ragionamento spaziale e memoria e, più recentemente, del nostro sistema visivo. Questo accadrebbe proprio perché, aumentando il flusso sanguigno all’occhio e al cervello, si avrebbe un incremento della funzione della retina e della parte del cervello che è responsabile delle funzioni visive, avendo come risultato un miglioramento della vista.

Ulteriori studi stanno testando questa ipotesi anche su persone anziane. “Noi siamo più interessati all’effetto dei flavonoidi sull’abilità di percepire il contrasto, ovvero di identificare un oggetto dallo sfondo. Questa capacità cala rapidamente dopo i 60 anni, questo è il motivo per cui le persone dopo questa età sono le prime a smettere di guidare la sera”, dice il dott. David Field dell’Università di Reading.

Anche se è ancora presto per affermazioni certe ed effetti a lungo termine, noi possiamo intanto continuare a spruzzare cacao sul nostro cappuccino!

 

Anatomia dell’amore


Alcuni antropologi e psicologi definiscono l’amore come un universale culturale, ovvero uno di quei concetti presenti in tutte le culture fin dall’origine dell’uomo. Nonostante ciò bisogna attendere fino al 1958 e lo studio di Fritz Heider sulle relazioni interpersonali, per trovare il primo lavoro empirico sull’amore e sui suoi meccanismi. Sorprende come anche nello studio delle relazioni più intime sia stata posta più attenzione a espressioni come l’aggressività, conflittualità e ostilità piuttosto che all’amore. Una possibile spiegazione è che queste espressioni negative se emergono vadano tenute sotto controllo a causa degli effetti dannosi che potrebbero avere rispetto ai presumibili effetti positivi dell’amore. La ricerca negli anni ha identificato diversi tipi di amore: l’amore amicale, quello romantico, l’amore compassionevole e l’amore del legame d’attaccamento. Un aspetto interessante è come questi tipi siano coinvolti in momenti diversi nella relazione e in misura differente nei suoi protagonisti in una visione strutturata dell’amore, in cui ogni tipo nasce e si manifesta in maniera diversa. Oggi questi aspetti rimangono ancora inesplorati e non strutturati in una teoria empirica. Un tentativo di sviluppare un approccio temporale dello studio dell’amore è stato formulato dalla Dott.ssa Berscheid che propone il “Temporal Model for Love”, teoria che incorpora i diversi tipi di amore all’interno di una ricerca longitudinale per valutare come e se questi  possano integrarsi.

La prossima settimana andremo ad approfondire questa nuova anatomia dell’amore per comprendere meglio le relazioni, come mutano nel tempo o come possono finire.

Berscheid, E. (2010). Love in the Fourth Dimension. Annual Review of Psychology, 61, 1–25.

Heider, F. (1958). The psychology of interpersonal relations. Wiley: New York.

Ma che cos’è questa mindfulness?


Sempre più conosciuta e praticata sia in psicoterapia cognitiva sia in contesti molto differenti, dalla formazione dei manager allo sport, la mindfulness è una forma di meditazione applicabile all’attività clinica. La mindfullness è una pratica di attenzione consapevole, intenzionale, non-giudicante nel momento presente”. Jon Kabat-Zinn, primo al mondo a portare la mindfulness nel contesto psicoterapico, dice che per nutrire il terreno del nostro atteggiamento, affinché la nostra pratica della consapevolezza possa crescere rigogliosa e fiorire, dobbiamo coltivare sette atteggiamenti: non giudizio, pazienza, la “mente del principiante” (essere disposti a guardare ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta), fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare, impegno nella pratica e visione di ciò che si desidera per se stessi. Negli ultimi venticinque anni la mindfulness è stata efficacemente applicata su diverse psicopatologie. Esempi? depressione, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, post-traumatico da stress, dipendenze, dolore cronico e fibromialgie, solo per citarne alcune.

Ma quali sono i motivi per cui i terapeuti, soprattutto cognitivi, usano la mindfulness nei percorsi di psicoterapia? Quali ragioni ci rassicurano che la mindfullness non è una sorta di misticismo new age, poco affine alla psicoterapia, disciplina scientifica e interessata alla ricerca sull’efficacia? Tra gli studi che dimostrano l’efficacia della mindfulness nella prevenzione delle ricadute depressive c’è il “Mindfulness-Based Stress Reduction Program” svolto al Medical Center in Massachusetts e in molti altri centri nel mondo. Esso conferma gli effetti neurobiologici e fisiologici rilevati in letteratura scientifica.

Il rischio che la mindfulness venga confusa e scambiata con tante altre cose (rilassamento, ipnosi, forme più e meno legittime di trance indotta) è reale e vale la pena fare un po’ di chiarezza. Per questo motivo, nei prossimi articoli vedremo cosa ci insegna la letteratura scientifica sulla mindfulness in merito alla pratica e al suo uso all’interno di strategie terapeutiche con persone con diversi disturbi psicologici, evitando di usare la mindfulness solo perché è di moda. Inoltre, cercheremo di fare un po’ di chiarezza sul come la mindfulness dovrebbe integrarsi in una cornice teorico-clinica precisa e scientificamente fondata. Inoltre, descriveremo alcuni piccoli esercizi per praticare la mindfulness e iniziare a coltivare la nostra consapevolezza.

Da mesi sogni di vedere quel film? Allora ti siedi a destra


Leggiamo su Cafè Psicologico una notizia interessante e divertente. Secondo uno studio del giapponese Matia Okubo soggetti destrimani, se invitati e calorosamente motivati  a vedere un film, mostrano una spiccata preferenza per i posti a sedere localizzati nel lato destro della sala. Questo fenomeno non si osserva nei soggetti mancini e negli ambidestri e scompare del tutto nei soggetti destrimani non motivati alla visione del film.

Okubo ha osservato questo comportamento in un esperimento condotto su 200 studenti. Dopo avere accertato la dominanza manuale dei soggetti, agli studenti veniva detto che di li a poco avrebbero visto un film. A una parte di loro era stato detto che il film che si apprestavano a vedere aveva avuto ottime recensioni, mentre alla restante parte di studenti era stato detto che il film aveva avuto pessime recensioni. Gli studenti mancini e ambidestri in nessuna delle due condizioni avevano mostrato preferenze tra destra e sinistra nella scelta dei posti, mentre il 74% degli studenti destrimani altamente motivati a vedere il film ha scelto di sedersi alla destra dello schermo; ma questa preferenza nella scelta dei posti si annullava se i soggetti destrimani non sono motivati a vedere il film.

La spiegazione? Occorre ripassare un po’ di psicologia fisiologica. L’emisfero destro è più abile del sinistro nell’elaborazione delle informazioni visive ed emotive e questa supremazia è molto più marcata nei soggetti destrimani, rispetto a quanto avvenga nei mancini e negli ambidestri. Secondo Okubo, i destrimani desiderano ottimizzare la capacità di elaborazione delle informazioni visive/emotive. Per questo essi tendono a preferire i posti a sedere alla destra dello schermo del cinema in modo che l’input visivo raggiunga preferibilmente l’emicampo sinistro e venga così elaborato dall’emisfero destro. E se l’input visivo fosse ritenuto poco rilevante? In concreto: e se il film non fosse ritenuto interessante? In questo caso sarebbe poco economico per il nostro cervello  ottimizzare la processazione delle informazioni. E quindi un posto a sedere varrebbe l’altro.

Okubo, M. (2010). Right movies on the right seat: Laterality and seat choice. Applied Cognitive Psychology, 24, 90-99.

Il Primo Congresso di Terapia Metacognitiva

Manchester - Primo Congresso di Terapia Metacognitiva

Dal 11 al 13 maggio a Manchester si è svolta la prima Conferenza Internazionale di Terapia Metacognitiva. Si tratta di una recente evoluzione della terapia cognitivo-comportamentale. In essa l’intervento terapeutico si concentra principalmente sul modo in cui le persone pensano e sulle regole implicite che governano il modo di pensare.

La terapia metacognitiva di Wells è una delle evoluzioni della precedente teoria metacognitiva di Flavell (1979). Essa nasce a metà degli anni ’90 da alcuni studi scientifici teorici sugli stili attentivi, cioè su come di solito le persone usano la propria attenzione. Nel corso degli anni gli studi si sono estesi alla psicologia clinica e agli stili di pensiero perseverativi come il rimuginio ansioso, la ruminazione depressiva o rabbiosa, la paranoia e infine il pensiero desiderante. Tutti questi stili di pensiero e stili attentivi costituiscono la cosiddetta Sindrome Cognitivo-Attentiva (SCA, Wells & Matthews, 1994) che sintetizza ciò che di controproducente avviene nella mente delle persone.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
Clicca sull’immagine per leggere: Musica e Didattica Metacognitiva. Autore: Lucio Montagna

La SCA è sostenuta dalla presenza di alcune regole e credenze implicite che governano l’uso del pensiero e dell’attenzione (es: rimuginare mi aiuta a essere pronto al peggio, pensare alle cause dei problemi mi aiuta a trovare una soluzione, prestare attenzione a tutti i segnali di rifiuto mi serve per proteggermi da un abbandono improvviso). Molte di queste regole tendono a tenere le diverse componenti della SCA costantemente attive e mantengono un livello di malessere nella forma di emozioni negative o di comportamenti impulsivi e dannosi.

 

Le ricerche sull’efficacia della terapia metacognitiva sono solo all’inizio e attualmente deve essere considerata come una terapia sperimentale, tuttavia questa prima conferenza internazionale ha presentato alcuni dati incoraggianti sulla possibilità di integrare interventi su metacognizioni e sulla SCA ai protocolli di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Flavell, H. G. (1979). Metacognition and cognitive monitoring: A new area of cognitive-developmental inquiry. American Psychologist, 34, 906 – 911.
  • Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.
  • Wells, A. (2008). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press

Telomeri e psicoterapia

Telomeri e Psicoterapia -

Avete presente i cappuccetti di plastica alle estremità dei lacci delle scarpe? Senza di loro il tessuto si sfilaccerebbe in poco tempo. E cosa sono i telomeri? Guardiamo l’illustrazione in testa a questo post. Distinguiamo facilmente i cromosomi. I telomeri sono quei cappuccetti rossi alle estremità dei cromosomi. E come i cappuccetti dei lacci, essi impediscono lo sfilacciarsi precoce.

Ma la psicoterapia che c’entra? Un legame c’è, scrive l’Economist. Si sa che lo stress cronico  accorcia prematuramente i telomeri e accelera lo sfilacciarsi -cioè l’invecchiamento- dei cromosomi.

In un congresso della associazione per la ricerca sul cancro a Orlando (Florida), il prof. Edward Nelson della Università della California ha dimostrato che un conseling telefonico offerto a donne con un tumore del collo dell’utero non solo ferma l’accorciamento dei telomeri, ma ne promuove la riparazione.

Le implicazioni cliniche sono chiare: non solo le donne si sentivano psicologicamente meno vulnerabili, ma anche l’efficienza del sistema immunitario ne traeva beneficio. E questa è un’ottima notizia per comprendere meglio la relazione sempre più evidente tra corpo e mente. Ricerche simili, condotte da Elizabeth Blackburn dell’Università della California, hanno trovato delle conferme a questo dato, ma che si riferiva  all’esercizio fisico che ha effetti simili non solo sul benessere psicologico ma anche sui telomeri. Le donne continuavano ad essere malate, a curarsi, ma il livello di stress calava e il corpo reagiva in modo deciso e verificabile.

Evidentemente questi dati vanno confermati, ma tutto questo a prima vista sembra promettente per noi psicoterapisti. E perché? Perché dimostra, o almeno suggerisce che parlare, alleviare  lo stress in una relazione empatica, consentire a chi soffre di ragionare, di esprimere emozioni e di sentirsi ascoltato, ha implicazioni preziose che stiamo cominciando a cogliere solo ora, a livello non solo emotivo e psicologico, ma del corpo nel suo insieme.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ANCORA SUI TELOMERI: Cellule Staminali: nuovo passo avanti. Restaurando Telomeri

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