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Psicoterapia nucleare e psicoterapia esistenziale

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Una delle cose che mi ha sempre stupito della psicoterapia cognitiva è la sua storica tendenza a vivere lungo dicotomie polarizzate e per molti versi inconciliabili, così come la tendenza a non vedere un punto di unione più alto.  Gli esempi più chiari emergono considerando le critiche poste all’approccio cognitivo. Da un lato le psicoterapie dinamiche e umanistiche sottolineano quanto i terapeuti cognitivi possano essere figli del DSM, dei mezzi comportamentali, attenti solo al sintomo e poco inclini a considerare la persona nella sua globalità. Dall’altro lato, i puri comportamentisti ci indicano come una sottospecie spuria, da tempo fin troppo emarginata dalla scienza e caduta nella tentazione dell’attaccamento, dello sviluppo storico della sofferenza emotiva, cose forse anche interessanti per filosofeggiare ma superflue entro un percorso di cura.

Com’è possibile conciliare queste due anime critiche opposte? Probabilmente è possibile poiché, a un esame di realtà, i terapeuti cognitivi condividono questa natura ambivalente e condividono entrambi i rischi. A volte la negano, a volte propendono chiaramente per un rischio piuttosto che un altro portando così alla nascita di micro fazioni ibride che vanno dal cognitivo-comportamentale, cognitivo-costruttivista, cognitivo-postrazionalista, cognitivo-evoluzionista, e così via. Così si moltiplicano i nomi degli approcci, un po’ come quando ogni gruppo musicale ci tiene a essere fondatore del suo genere innovativo rischiando di rimanerne per sempre l’unico e solo rappresentante.

Ma torniamo alle diatribe tra i rischi cognitivisti. Due sono i rischi concreti, due gli estremi tendenzialmente da evitare, la deriva focalizzata sul sintomo e la deriva esistenzialista. Il saggio, colui che usa una mente saggia e metacognitiva, direbbe che non esiste una tendenza giusta e una sbagliata ma che esiste una tendenza migliore in relazione al contesto. Così potremmo dire, rinunciando semmai al nostro bisogno narcisistico, elitario o di riconoscimento, che esiste una buona terapia cognitiva nucleare centrata sul sintomo e una buona terapia cognitiva esistenziale. Scritta in questo modo sembra un’affermazione perfino banale, ciò nonostante risulta quasi completamente assente dai manuali di terapia cognitiva.  Potremmo forse osare ancora di più e dire che esistono terapie che devono essere centrate sul sintomo, terapie che devono essere esistenziali sin dal loro principio e terapia che possono avviarsi sul sintomo e divenire esistenziali in una seconda fase. Possiamo infine dire che la psicoterapia cognitiva nucleare è più semplice da rendere in protocolli e forse funziona meglio qualora ne segua rigorosamente le procedure, mentre la psicoterapia esistenziale deve essere giocoforza a maglie più lasse, chiamare in causa l’aspetto evolutivo, più difficile e lenta da modificare, non è una terapia d’urgenza ma questo non vuol dire che debba esimersi dal vaglio della ricerca empirica.

Una prospettiva in cui queste due componenti siano considerate paritarie e metacognitivamente valutate nella definizione di un piano terapeutico non è in fondo una nuova terapia, essa è la terapia cognitiva così come si sta naturalmente evolvendo nel corso della storia. Nemmeno parlerei di terapia integrata, perché in fondo non v’è nulla da integrare, se non cadiamo nei rischi degli estremi i due percorsi risultano il naturale esito di un buon processo terapeutico cognitivo. Però, soprattutto i saggi, i maestri di terapia cognitiva, questo lo devono dichiarare. Loro per primi hanno la responsabilità di non presentare la terapia cognitiva come un rischio tecnico e sintomocentrico o come un rischio filosofico e quasi aclinico.

Questa prospettiva peraltro non è particolarmente nuova e, anche se non in questi termini, si aggancia alla dicotomia tra accettazione e cambiamento. La psicoterapia nucleare sta all’accettazione come la psicoterapia esistenziale sta al cambiamento? Steven Hayes e collaboratori (2003) sembrano proprio andare in questa direzione nel manuale di riferimento del loro approccio terapeutico: l’acceptance and commitment therapy (ACT). Da quando lessi questo manuale mi convinsi che tutta la componente centrata su mindfulness e accettazione non fosse poi così innovativa, nonostante sembrasse quella su cui pubblicamente i ricercatori si confrontavano, complice l’impatto comunicativo e scientifico che il concetto di mindfulness si è ritagliato in anni recenti. Per il sottoscritto, la vera rivoluzione dell’approccio ACT stava nel commitment , in quella parte del lavoro terapeutico finalizzato all’impegno nel riconoscere, scegliere e perseguire i propri valori personali. L’impegno al cambiamento mira a disegnare la propria direzionalità di vita nel tempo, una linea guida comportamentale liberamente scelta (e non imposta da aspettative altrui come da condizionamenti socioculturali), un area dove il controllo del pensiero verbale sul comportamento è possibile e funzionale. L’ACT è forse il primo intervento che ha associato un percorso nucleare sul sintomo a uno esistenziale. Soprattutto è il primo modello ad aver strutturato un intervento esistenziale in modo chiaro, rigoroso ed empirico prima che filosofico o fondato sul pensiero di un grande teorico.

Sarà interessante in futuro scrivere qualcosa su questa parte dell’ACT e sulle sue implicazioni. Per ora mi limito a sperare in un futuro della terapia (ma anche della teoria) cognitiva basato su una valutazione più saggia ed equilibrata tra cosa funziona nel processo terapeutico nucleare, cosa funziona nel processo terapeutico esistenziale, quando usare l’uno e quando usare l’altro. Soprattutto auspico che questi due aspetti vengano sempre più considerati come componenti della terapia cognitiva piuttosto che come derive antitetiche di presunti approcci innovativi e tendenzialmente autoreferenziali. Con questi presupposti credo sarebbe possibile aprire dibattiti più interessanti e nuovi rispetto alla continua simmetria di due visioni estreme in cui la critica dell’altro rischia di essere prioritario rispetto all’analisi della realtà sia clinica che scientifica.

 

Hayes, Steven C.; Kirk D. Strosahl, Kelly G. Wilson (2003). Acceptance and Commitment Therapy: An Experiential Approach to Behavior Change. The Guilford Press.

E tu, Maschio, che ne pensi? In margine a Marrazzo

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E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio. La vicenda di Marrazzo distrugge le personalità singole e ci trasforma tutti in archetipi, in figure mitologiche che vanno oltre la vita individuale e singolare. Di mitologico non c’è solo l’Ermafrodito, Natalie il transessuale. Di mitologico c’è anche lo stesso Marrazzo, ridotto a Satiro itifallico sorpreso in camicia e gambe nude, quasi ad alludere per inversione al petto nudo e alle gambe caprine del dio dionisiaco.

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio, ridotto a caricatura di se stesso, schiavo del sesso, eterno adolescente ingrifato dall’immagine dell’origine del mondo, i cui pensieri sembrano non poter far altro che assumere la forma attorcigliata della sexual addiction, contortamente ingroppata nelle proprie ossessioni. Intervistato ancora sulla triste vicenda da Concita de Gregorio, Marrazzo ha finito per scatenare l’eterna diatriba tra Uomo e Donna, Maschio e Femmina, in cui ci si rinfaccia stancamente le stesse eterne lamentele, e anzi si finisce per rinfacciare quel che pochi minuti prima si era negato. La frase più incriminata e irritante è stata naturalmente quella su Natalie. Marrazzo, perché Natalie? Perché “I transessuali sono donne all’ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria.”

Apriti cielo. Laddove nulla è più umiliante dell’allusione alla capacità di accudimento straordinaria del trasessuale. A rivelare che sopra le gambe e il sesso caprini del satiro si posano sempre il cuore e la testa umane di un ragazzino, un uomo bisognoso di affetto.

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio. Che vuol dire: confessa, hai anche tu di questi strambi desideri? E dietro questa muta domanda si celano le vecchie teorie sulle differenze tra sessualità maschile e femminile. Le pubblicazioni su questo argomento sono sempre state non frequentissime e più fondate su teorie che su dati. Per molti evoluzionisti darwiniani la femmina umana sarebbe più portata a investire su relazioni stabili e per questo cerca di incastrare, pardon di attirare il maschio in un patto di accudimento prolungato della prole. Insomma, la femmina per massimizzare la probabilità di diffondere i propri geni punterebbe sempre in qualche modo al matrimonio o ai suoi surrogati. Invece il maschio punterebbe alla fecondazione a pioggia del massimo numero di femmine possibile del pollaio, disinteressandosi dell’accudimento e delle relazioni stabili. Di qui l’eterna guerra dei sessi. Una delle ultime versioni di questa vecchia teoria la troviamo nelle opere del popolare darwinista Richard Dawkins nel suo (molto) divulgativo “Il gene egoista” (1976).

In un articolo del 1975 Gunter Schmidt notava che sebbene la ragazze mostrino comportamenti sessuali differenti rispetto ai maschi (minore interesse per esperienze sessuali al fuori di relazioni affettive, minore frustrazione se astinenti e non innamorate, significativo aumento della disponibilità sessuale se impegnate in una relazione affettiva), questi modelli non sembravano però legati a modelli innati controllati dall’evoluzione, ma a modelli culturali.

Schmidt si inseriva in un filone di emancipazione della donna basato sull’assenza di differenze. Donne quindi altrettanto ingrifate che i maschi. In questo caso, quindi, la risposta del Maschio colto con le mani in fallo non può che essere: Donna, che vuoi? Il mio destino è il tuo, e finora solo la tua debolezza sociale ed economica ti ha distolto dalle gioie del sesso mercenario. Come si sa, anche le donne scoprono il turismo sessuale e i paesi esotici si popolano di sfaccendate occidentali in cerca di amore e di accudimento.

Tuttavia, accanto al filone dell’eguaglianza c’è anche quello della differenza. L’emancipazione femminile si nutre anche della differenza, e finisce quindi per far propri gli argomenti di Dawkins: effettivamente le donne sarebbero meno interessate al sesso -anzi, alcune sostengono: per niente, siam tutte di legno- e su questo devono costruire la loro emancipazione. Di conseguenza, la caduta di Marrazzo diventa segno della difficoltà maschile a entrare in contatto con il Femminile. Abbiamo aperto una porticina e ancora una volta siamo entrati in un paesaggio popolato di archetipi: il Maschile, il Femminile. Ma è sempre il paesaggio delle nostre ferite.

E anche nel campo tradizionalista vagabondano gli stessi archetipi mitici: la sottomissione della donna è stata teorizzata sia argomentando una minore che una maggiore propensione al sesso delle donne stesse.

Un possibile compromesso è quello proposto da quattro canadesi, Wentland, Herold, Desmarais e Milhausen (2009), i quali propongono che effettivamente, accanto alle donne romantiche e poco interessate al sesso ludico e casuale, esiste una sottogruppo di donne satirescamente ingrifiate come e più degli uomini, le “highly sexual women”, capacissime di tutte le acrobazione del sesso casuale e ludico nei luoghi dedicati, virtuali e non (spiacente per chi ultimamente me lo chiede troppo spesso: non ho ancora potuto apprendere dove i 4 canadesi abbiano reclutato il loro campione di “highly sexual women”; cercatevele da soli).

Ma non basta. Wentland e colleghi notano anche che, al contrario di quanto atteso, gli uomini cercano le coccole mentre le donne, o alcune di loro, vogliono il sesso. E infatti Marrazzo ha parlato di accudimento, non di sesso.

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio. La risposta migliore è che in fondo sono fatti di Marrazzo e che il buon senso suggerisce che la “capacità di accudimento” dipende non tanto dal Transessuale, dalla Donna o dal Maschio ma, molto più probabilmente, dai 5000 euro di parcella. E ci mancava che per quella cifra il servizio non prevedesse i guanti bianchi (Tutto questo non depone a favore del buon senso di Marrazzo, donna! Cosa c’entrano il maschio e l’uomo e l’emancipazione e l’accudimento e compagnia cantante?)

E, infine, dopo che la Scienza e la Ricerca ci hanno dimostrato l’esistenza delle donne arrapate, ovvero “highly sexual women” (che consolazione!) attendiamo anche la conferma scientifica dell’esistenza di uomini poco interessati al sesso (“lowly sexual men”? Suona molto scientifico e anglo-sassone). Per la scoperta dell’acqua calda attendiamo il prossimo giro.

Dawkins, R. (1976).  The Selfish Gene. Oxford, Oxford University Press. Tr. italiana Il Gene Egoista. Milano, Mondadori, 1992.

Schmidt, G. (1975). Male-female differences in sexual arousal and behavior during and after exposure to sexually explicit stimuli. Archives of Sexual Behavior, 4, 353-365.

Wentland, J. J., Herold, E. S., Desmarais, S., & Milhausen, R. R. (2009). Differentiating highly sexual women from less sexual women. Canadian Journal of Human Sexuality, 18, 169-182.

Mindfulness o Detached Mindfulness? Questo è il problema.

DETACHED MINDFULNESS: differenze con il concetto di Mindfulness e impianto teorico

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Nel panorama delle psicoterapie cognitive di terza ondata il concetto di mindfulness ha certamente assunto il ruolo di principale protagonista, elemento di riferimento intorno al quale ruotano tutte le molteplici varietà psicoterapeutiche di questi ultimi anni. Altri articoli si sono concentrati sul descrivere nel dettaglio il concetto di mindfulness e di mindfulness based therapy (MBT, Segal, Williams & Teasdale, 2006). Mi limito a riprendere brevemente la definizione di mindfulness come esercizio meditativo, una pratica di allenamento a una forma di attenzione consapevole, intenzionale, non-giudicante, nel momento presente.

Il potente ingresso nel mondo scientifico di questo complesso concetto filosofico/religioso  di sapore orientale ha generato molti punti di vista, anche all’interno dello schieramento di scienziati che si riconoscono entro il flusso delle terapie di terza ondata. Si sono generati negli ultimi anni due schieramenti: i radicalisti e gli integrazionisti. I radicalisti sono i puristi sostenitori di protocolli MBT dove la mindfulness equivale alla componente nucleare del processo di cura, se non addirittura l’unica. Gli integrazionisti, tra tutti Steven Hayes e Marsha Linehan, attribuiscono alla mindfulness un ruolo importante ma non sufficiente e forse nemmeno il più rilevante. La mindfulness per gli integrazionisti non garantisce da sola il processo di cura.

All’interno di questa diatriba c’è stato anche spazio per nuove prese di posizione. Tra tutte spicca la posizione di Adrian Wells e della sua Metacognitive Therapy (MCT, Wells, 2008), che rispetto alla mindfulness fa una scelta diversa: la prende, la modifica in linea con il pensiero teorico metacognitivo, la riadatta in una nuova versione all’interno dell’intervento con il nome di detached mindfulness. Questa manovra clinica e scientifica ha suscitato varie reazioni. I radicalisti hanno espresso moti di indignazione condito di velate accuse di appropriazione indebita di idee (la chiama diversamente ma in realtà è solo mindfulness). Gli integrazionisti invece sembrano strizzare l’occhio a questa scelta, perché in linea con l’idea di non considerare la mindfulness come unico perno del percorso di cura. Wells non si cala pienamente in queste diatribe e prende le distanze da entrambe le fazioni ma anche dallo stesso concetto di terapia cognitiva di terza ondata a cui sembra sostenere di non appartenere.

Ma cerchiamo di comprendere le differenze tra mindfulness e detached minsfulness e proviamo a distinguere diversi livelli di analisi. Per non annoiare i lettori non mi addentrerò nell’esposizione delle tecniche di mindfulness ben descritte in molti altri articoli ma cercherò di focalizzare l’attenzione sugli elementi che distinguono la versione della terapia metacognitiva.

 

Differenze nel substrato teorico.

Già il punto di partenza teorico è differente. La DM nasce su base teorica e non esperienziale, la cornice di riferimento è la S-REF Theory (Wells & Matthews) e successivamente la teoria metacognitiva dei disturbi emozionali. All’interno di quest’ultima la DM viene descritta come una modalità di elaborazione delle informazioni antitetica alla CAS (Cognitive-Attentional Syndrome). La CAS costituisce il processo psicopatologico nucleare della teoria metacognitiva fondato su un uso costante e percepito come incontrollabile di attenzione focalizzata sulla minaccia, processazione concettuale perseverante (nella forma di rimuginio o ruminazione) e comportamenti di controllo o evitamento. La mindfulness è la trasposizione teorica e clinica di una filosofia che per prima nasce fuori dai parametri scientifici ma dentro la pratica quotidiana. Non esiste una verifica empirica della teoria della mente e della teoria clinica della mindfulness e delle MBT, mentre esistono molti lavori scientifici sulla sua efficacia e sul processo di cambiamento che produce.

 

Differenze nella definizione.

Imparare una modalità DM sarebbe quindi competitiva e in contrasto al mantenimento della CAS.  Da qui le cinque caratteristiche fondamentali della DM per Adrian Wells:

  • Metaconsapevolezza: consapevolezza del flusso automatico di pensieri non intenzionali e di sensazioni che scorrono nella coscienza.
  • Decentramento cognitivo: comprensione degli eventi mentali e corporei come eventi e non come fatti che dicono qualcosa di reale sul mondo, sugli altri o su di sé.
  • Decentramento attentivo: attenzione  flessibile e ampia, priva di ancoraggio o di orientamento volontario a un contenuto.
  • Basso processamento concettuale: riduzione dell’attribuzione di significati agli eventi osservati, eliminate etichette verbali o riflessioni o del dialogo con sé stessi.
  • Scarsa tendenza verso obiettivi: il raggiungimento di un obiettivo (es: evitare una minaccia) non viene percepito come rilevante.

La differenza con la mindfulness di tipo classico non risulta immediata ma traspare già nel significato di queste componenti. I primi due punti sono generalmente simili e condivisi da entrambe le forme. Il terzo punto (decentramento attentivo) segna invece il divario più ampio. La DM non prevede un allenamento attentivo, il cosidetto processo di “accorgersi di dove siamo con la mente e riportare il pensiero al respiro o ad altre forme di ancoraggio”, nella DM non si riporta niente da nessuna parte, si osserva poiché già riportare è una forma di evitamento che da più salienza a ciò da cui ci si allontana. Non c’è, per esempio, la concettualizzazione di “rimanere sul momento presente”. Se la mente va sul futuro, la DM sta con la mente nel futuro in modo distaccato e non concettuale. Se la mente progetta, l’individuo non solo osserva la progettazione, la riconosce come tale ma non ritorna al momento presente, resta a osservare cercando di non intervenire con volizione per modificare attivamente cosa accade nella mente.  Il quarto punto sottolinea la necessità di abbandonare meta-valutazioni durante la modalità DM, tutto ciò che accade va bene e non è necessario fermarsi a riconoscere se la nostra mente ha emesso un giudizio o una considerazione o una paura, la tendenza è quella di ridurre al minimo il nostro intervento dentro il flusso della coscienza. Allo stesso modo il quinto punto sottolinea l’assenza di obiettivi, persino l’obiettivo di allenarsi al momento presente, alle sensazioni corporee, al contatto con la realtà  viene abolito, sono tutte cose che possono riattivare la CAS e ostacolare la pura passiva contemplazione.

In questo modo la DM assume forme ancora più puriste ed estreme rispetto la classica mindfulness. Certo, resta il dubbio che questi elementi non siano realmente sufficienti a fondare un costrutto e una tecnica significativamente diversi, piuttosto che un diverso uso dello stesso processo.  Probabilmente si entra nell’influsso di dinamiche di mercato e di politica scientifica, dove per dare risalto a un punto di vista differente è necessario marchiarlo di una definizione sintetica e riconoscibile.

 

Differenza di impatto clinico

Per le MBT la mindfulness rappresenta il motore centrale del cambiamento, mentre per la terapia metacognitiva la DM è una base utile per garantire l’efficacia di tutte le altre strategie adottate, un componente, se vogliamo una base fondamentale, ma non sufficiente a sciogliere la concettualizzazione psicopatologica del caso.

L’obiettivo della DM è creare uno spazio in cui le componenti della CAS (ricordiamo: attenzione sulla minaccia, necessità di un obiettivo, rimuginio o ruminazione) sono finalmente bloccate e ferme. In un secondo momento, attraverso altre tecniche, il terapeuta può guidare lo sviluppo nuovi piani di elaborazione delle informazioni. La mindfulness mira a sostenere una “modalità essere” come nucleo del benessere psicologico. Il fine della DM, questo punto mi pare importante, non è quello di promuovere una “modalità essere” come soluzione costante e definitiva, ma creare quello spazio di controllo (incremento di controllo esecutivo)  in cui è possibile inserire nuove “modalità fare”, più variegate e adatte a diverse situazioni contestuali e soprattutto diverse dalla CAS.

 

Differenze pratiche

Infine esistono anche differenze pragmatiche nell’implementazione della tecnica. Nel concreto della sessione terapeutica la DM non viene inserita come una pratica meditativa. Anzi, l’uso della DM ricorda maggiormente le pratiche di sperimentazione comportamentale. Inizialmente il paziente fa esperienza di DM in seduta con brevi esercizi esperienziali guidati dal terapeuta. Questi ultimi sono sostanzialmente composti da immagini evocative e da stimoli presentati al paziente assieme a istruzioni che descrivano e guidino l’assunzione di una prospettiva DM. Per esempio, Wells recupera l’uso delle associazioni libere di idee, ripete al paziente una serie di parole di uso comune, istruendolo contemporaneamente a osservare come le idee si associano tra loro in catene di pensieri e immagini, facendo “un passo indietro” rispetto all’essere attivamente coinvolti in quest’attività.  La pratica a casa viene suggerita, anch’essa solo per pochi minuti ogni giorno e come allenamento preliminare più che come un esercizio costante e continuo nel tempo. In una seconda fase l’esercizio di DM viene riportato su contenuti che (1) assumono valenza emotiva negativa e (2) dipendono dalla formulazione del caso specifica del paziente. La pratica della mindfulness nelle MBT è più lunga e impegnativa e certamente meno esplicita della DM. Al paziente viene presentata una descrizione del razionale iniziale ma successivamente l’impronta è sulla pratica e sulla riflessione riguardo la pratica. D’altra parte è anche vero che la mindfulness ha il vantaggio di poter trattare agevolmente molte persone attraverso percorsi terapeutici di gruppo mentre la DM, allo stato dell’arte attuale della terapia metacognitiva, non prevede applicazioni di gruppo anche per la sua più accentuata focalizzazione sul funzionamento del singolo paziente.

L’ultima differenza potrebbe guardare l’efficacia terapeutica dei due approcci, ma riguardo a quest’ultima i dati sono ancora pochi, incerti e soprattutto manca un confronto diretto tra terapie basate su mindfulness e terapia metacognitiva. Probabilmente potremmo valutare meglio tra qualche anno.

 

Bibliografia

Segal Z.V., Williams J.M., Teasdale J.D. (2006). Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Bollati Boringhieri: Torino.

Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press.

Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.

La terapia metacognitiva di Wells: pregi e considerazioni critiche

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Si pensa di conoscere bene, di aver veramente compreso qualcosa: una persona, una teoria o una terapia. E invece non è così. Un giorno ci si rende conto che si è fatta conoscenza solo di un aspetto introduttivo, di una sala di rappresentanza, mentre invece nel tinello ci aspettano sorprese.

La terapia e teoria metacognitiva di Adrian Wells (2009) si presentano come una riforma moderata del modello cognitivo standard. Si parla di credenze, sia pure metacognitive. C’è un questionario autosomministrato, il Metacognition Questionnaire, che valuta contenuti cognitivi. Per la precisione metacognitivi. E quindi si conclude che Wells effettivamente rimane nel campo cognitivo standard, che si tratta di un tipo da seconda ondata e mezzo.

Poi però si inizia a studiare a fondo il suo modello, che lui chiama un po’ pomposamente il Self-Regulatory Executive Function (S-REF). Si inizia studiare la sua ipotesi di processo psicopatologico, il cognitive attentional sindrome (CAS). E infine si iniziano a studiare attentamente le sue tecniche terapeutiche, e si comprende che siamo in presenza di un modello massicciamente neo-comportamentale e processuale di terza ondata che col vecchio cognitivismo standard ha poco a che fare. E così improvvisamente ci si rende conto che con quei colleghi wellsiani con cui credevi di condividere un linguaggio finora hai spesso intrattenuto conversazioni comicamente ricche di equivoci. Intendiamoci: non è che non ci si è capiti per niente, ma meno di quel che si credeva.

Il modello S-REF di Wells descrive la mente secondo tre livelli. Siamo quindi già fuori dal modello profondamente unitario della mente e della terapia di quello che io chiamerei il “computazionalismo clinico semplificato” di Ellis e Beck. Come si sa, in quel modello la mente è omogenea e gli stati mentali sono controllabili in maniera abbastanza efficiente dalla elaborazione consapevole cosciente.

Già per questo lo S-REF appartiene pienamente ai modelli cognitivi di terza ondata, che tendono a sostituire questo modello unitario con teorie multilivello, in cui l’elaborazione cosciente influenza e in qualche modo regola gli stati mentali complessi. Attenzione: regola si, ma malamente. Nel senso che si tratta di un’azione regolativa non solo poco efficiente, ma che a volte addirittura disregola e finisce per inquinare e gettare sabbia negli ingranaggi dell’elaborazione non cosciente (o non online, per usare un termine alla moda).

Nel modello S-REF di Wells ci sono tre livelli: 1) primo livello, in cui sono presenti processi cognitivi rapidi e irriflessi, che si sviluppano abbastanza caoticamente tutti assieme (in gergo tecnico: sono disposti in parallelo), che producono valutazioni emotive globali confuse e genericamente negative o positive, o a un livello leggermente più sofisticato paura, rabbia, gioia e poco altro, processi che quindi si dicono metaforicamente “down” ovvero di basso livello, che “poppano” pensieri intrusivi in automatico al livello cosciente o in altri casi meno intrusivi e automatici si presentano in forma di stati emotivi, cioè percezioni vivide immediatamente legate all’azione (action readiness) e proceduralmente confuse e opache (il soggetto non sa bene perché ha una certa emozione: sa di aver paura ma non sa sempre ed esattamente bene di che ha paura); 2) secondo livello, ovvero elaborazione cosciente online con i pensieri disposti uno dopo l’altro e con un certo ordine logico (insomma, in gergo tecnico sono disposti sequenzialmente), un’elaborazione trasparente e dettagliata (il soggetto sa abbastanza bene perché pensa una certa cosa); 3) terzo livello, conoscenza depositata nella memoria a lungo termine per lo più in forma meta-cognitiva.

Finora questo modello S-REF mi era parso inutilmente complesso (e perciò pomposo e prolisso) rispetto a una terapia cognitiva delle metacredenze che mi pareva molto più semplice. Troppe chiacchiere per una terapia cognitiva che mi pareva rimanere al fondo beckiana: credenze disfunzionali, critica e ristrutturazione. Unica novità, qui si trattava di metacredenze.

Non era così. La complessità del modello generava il tratto originale di Wells, che è questa. L’originalità di Wells -che lo rende abbastanza diverso da altri riformatori (come per esempio Young)- è che per lui il problema non è affatto la  minore controllabilità del livello emotivo basso, ma nei livelli superiori e soprattutto nel livello metacognitivo depositato nella memoria e lungo termine. Le credenze metacognitive, infatti, per Wells svolgono una funzione utile solo se usate con parsimonia, anzi con estrema parsimonia. Se si esagera, invece di regolare disregolano perché finiscono per accentuare in maniera eccessiva e dannosa l’attività consapevole online. Per Wells l’attività consapevole online è utile -o meglio è funzionale- solo se usata con semplicità, pragmaticità e parsimoniosa prudenza. Se si esagera (e basta poco per esagerare) sui finisce nello stato disfunzionale e patologico cosiddetto del rimuginio (tipico degli stati ansiosi) o della ruminazione (tipico degli stati depressivi).

Rimuginio e ruminazione una volta stabiliti tendono a rigenerarsi spontaneamente, in quanto che il paziente spontaneamente tenta di gestirli “pensando”, cioè moltiplicando l’attività di pensiero consapevole online. Ma per Wells questo è strutturalmente patologico, perché l’attività online è utile solo se usata con parsimonia, forse perfino con avarizia. Esagerando si creano loop disfunzionali: appunto rimuginio e ruminazione.

Quindi per Wells gli “emotional disorders” non sono “emotional” e la sofferenza emotiva in realtà non è mai emotiva ma sempre ruminativa e metacognitiva.

Fin qui sembrerebbe esserci un certo livello di compatibilità con il cognitivismo standard. In Wells troviamo cose che in qualche modo somigliano ai circoli viziosi autorigeneranti e alle credenze patologiche. Ma in realtà non è così. Per Wells il problema non è solo nelle credenze come per Beck, ma nel processo disfunzionale stesso che generano. Per questo Wells parla di cognitive attentional sindrome (CAS). Per Wells la sofferenza emotiva di tipo depressivo e ansiosa è generata da un errore non tanto di credenze, ma di stile cognitivo. Un eccesso di attenzione e di uso del pensiero consapevole. Il problema non è tanto la credenza negativa, ma lo star lì a infinitamente ribadirsela in testa. Insomma, il rimuginio come processo e non come credenza. Questa differenza parziale nel modello teorico diventa poi abissale nel modello terapeutico.

Infatti la terapia metacognitiva di Wells, fedele ai propri presupposti, concorda col paziente un lavoro cognitivo ancora una volta parsimonioso e limitato alle sole metacognizioni, Le cognizioni beckiane del modello standard su di sè, il mondo e gli altri sono considerate del tutto ininfluenti, e si limitano ad essere il contenuto neutro del processo disfunzionale generato dall’eccesso di attività consapevole online e dalle metacognizioni depositate nella memoria a lungo termine (che così diventano le uniche credenze davvero attive; tutte le altre sono dei fantocci vuoti).

Ma perché per Wells questo lavoro terapeutico sulle (meta) credenze deve essere necessariamente parsimonioso? La risposta è semplice e credo che i lettori ci siano già arrivati da soli. Infatti, essendo l’analisi critica delle (meta) credenze fondamentalmente un lavoro di consapevolezza online, esso rischia di diventare facilmente a sua volta un ennesimo rimuginare insensato. Esso quindi va limitato a quel minimo indispensabile per iniziare a far capire al paziente che pensare bene significa pensare poco, anzi pochissimo. Se invece per capire questo ci mettiamo troppo tempo, impiegando troppe energie mentali (e terapeutiche, se siamo in seduta) ecco che abbiamo già iniziato a pensare troppo, cioè a rimuginare e/o a ruminare.

E in cosa consiste questo lavoro parsimonioso? Qui Wells è costretto in parte a contraddirsi ricorrendo all’armamentario del vecchio Beck. Il lavoro è quello classico di questioning e challenging. Il terapeuta esorta il paziente a non dare per scontate ma ad attivamente dimostrare le sue credenze metacognitive, che per semplicità qui riduco a due (ma non sono molte di più): che il rimuginio/ruminazione è utile (credenza positiva) e che il rimuginio (ruminazione è incontrollabile (credenza negativa).

Ma per Wells, lo ripeto, Il challenging beckiano va eseguito in stile minimale, non più dello stretto indispensabile. Basta sfidare il paziente a dimostrarci che effettivamente lui non può fare altro che rimuginare (vale qui la regola d’oro di Beck: non sono io che devo dimostrare al paziente che la sua credenza a sbagliata, deve essere lui che mi dimostra che è giusta). Non di più. Una volta che il paziente non riesce a dimostrarci che effettivamente lui non passa tutto il suo tempo a rimuginare e basta, si passa a una fase pienamente neocomportamentale (e quindi di terza ondata), cioè di un “comportamentismo mentale” in cui i pensieri non sono più concepiti come pensieri dotati di scopi e portatori di credenze, ma puri eventi mentali privi di senso, da desemantizzare e con i quali esercitarci a non averli!

Il ventaglio di tecniche proposte di Wells è abbastanza ampio, anche se non so quanto originale dato che non sono di formazione comportamentale. Si parla di “worry/rumination postponement” (decidere col paziente un tempo fisso quotidiano per rimuginare), “attention training tecqnique” (un elenco di tecniche di gestione dell’attenzione molto interessante per un non comportamentista come me, anche se non saprei come proporla a freddo al paziente; è lo stesso problema che ho con la mindfulnes, non ci riesco proprio a dire al paziente di punto in bianco “e adesso meditiamo!”); una forma di mindfulness chiamata “detached mindfulness” (non c’è spazio per descriverla qui, basti dire che mi pare mirata a pensare non rimuginativamente); “situational attention refocusing” (anche questo lo descriverei in un altro post); “targeting meta-emotions” (argomento che devo approfondire; comunque per ora basti dire che le meta-emozioni sembrano essere ancora una volta l’esito emotivo dell’uso eccessivo e disfunzionale delle metacognizioni, il passaggio circolare dalla conoscenza depositata in memoria al livello di base inconsapevole); “developing new plans for processing” (in pratica una gestione non metacognitiva degli stati di sofferenza, in cui l’elaborazione metacognitiva disfunzionale e mantenuta al minimo e non volizionalmente accentuata verso il disastro).

Insomma la terapia di Wells consiste in due passi: critica minimalista (e poco rimuginativa) delle metacognizioni e addestramento neo-comportamntale alla gestione metacognitivamente parsimoniosa delle metacognizioni stesse. Gestione quindi in in qualche modo “accettante” alla Hayes, anche se Wells è abbastanza diffidente verso la ACT di Hayes.

Una considerazione critica: la concentrazione estrema di Wells sulla metacognizione produce un modello terapeutico particolarmente distaccato e anemotivo, per non dire anaffettivo. Il totale disinteresse verso le cognizioni verso sé, gli altri e il mondo del paziente accentua all’estremo la tendenza alla gestione pragmatica delle emozioni tipica della terapia cognitiva (una nota personale: mi ha sempre colpito come la terapia cognitiva combini uno stile accogliente e rassicurante con  na modalità di gestione in fondo anaffettiva delle emozioni).

In tal modo il mondo personale del paziente può essere totalmente trascurato e la declinazione soggettiva delle credenze può essere del tutto non esplorata. Lo so, qui si parla di quei famigerati significati personali cari alla corrente costruttivista e che non a tutti piacciono, ovvero quelle formulazioni per cui il paziente ci dice che la paura di rimanere bloccato in ascensore è anche la paura di essere abbandonato in un luogo soffocante e senza persone che lo rassicurino. Ne riparleremo in un altro post. Per ora basti dire che qui forse è il punto di massima divaricazione con il modello di Hayes: nel mondo privo di significati di Wells i “valori” alla Hayes non hanno senso.

Questo tratto anaffettivo e quasi desertico (un mondo senza significati, ripeto) della terapia metacognitiva di Wells porta alla stupefacente dichiarazione (sempre di Wells) che questa terapia sarebbe eseguibile in un numero di sedute ancora minore del famigerato numero di 12 sedute che costituisce il totem del trattamento cognitivo (e il bersaglio delle ironie di terapeuti di altro orientamento). Wells parla addirittura di 6-8 sedute. Dopo aver letto il suo modello comprendo bene che un simile trattamento iper-formalizzato, che propone al paziente uno stringente addestramento (quasi a rotta di collo, però)  ad attutire il più possibile la tendenza a rimuginare metacognitivamente è possibile.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi: possibile con chi? Con pazienti selezionati? Magari in trial psicoterapeutici eseguiti in università da giovani ricercatori ammaestrati a somministrare questa terapia a quei pazienti selezionati, cioè che resistono e non mollano in seconda terza seduta? Per carità, c’è del giusto e del buono in tutto questo, soprattutto rispetto al terapeuta medio che invece tende a proporre troppe volte solo se stesso, la sua esperienza e -peggio- le sue idiosincrasie come metodo.

Insomma, qui però si esagera dall’altra parte (ma forse questo oscillare tra opposte esagerazioni è un inevitabile destino umano).

Naturalmente a questo punto sarebbe corretto studiare a fondo la letteratura dei trial della terapia di Wells, letteratura abbondante e sicuramente rigorosa. Ma qui il problema non è certo Wells. I limiti di questi trial trascendono il lavoro di Wells. Ci si può quindi chiedere, in attesa di andare a pazientemente controllare i dati forniti da Wells, quanti drop-out si subiscano nei trial psicoterapeutici organizzati per la terapia metacognitiva. Ci si può chiedere come siano gestiti questi drop-out, cosa si raccontino nelle riunioni cliniche i membri dello staff. Stupefacenti indici di efficacia spesso riposano su troppo ampi bacini di utenza tra i quali sono stati pescati i non troppi pazienti davvero adatti alle terapie proposte (gli studi più onesti riportano queste cifre e non sono incoraggianti). A volte ho visto in questi studi di efficacia che -è vero- la maggioranza dei pazienti che hanno finito il trattamento è migliorata significativamente, ma -è altrettanto vero- che solo una minoranza di quelli che hanno iniziato hanno poi finito. Ho voglia di rispondere: e ci mancava pure che quelli che hanno finito poi non stessero meglio!

Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York: Guilford Press.

Il controllo mentale nei disturbi dell’umore


 

La maggior parte delle teorie cognitive pongono alla base dei disturbi dell’umore la presenza di schemi cognitivi negativi attraverso cui le persone interpretano e attribuiscono significati agli eventi.

Secondo Wenzlaff e Bates in soggetti con depressione maggiore tali schemi negativi, caratteristici delle fasi depressive, vengono soppressi attivamente in un processo di controllo mentale quando i sintomi depressivi sono in remissione. Per soppressione del pensiero si fa riferimento a un processo che consiste nel provare a smettere di pensare a determinati contenuti mentali (Wegner 1989).

Secondo la teoria del controllo mentale (Wegner & Wenzlaff, 1996) vi sono due sistemi che interagiscono tra loro: un sistema definito sistema operativo intenzionale che cerca di promuovere stati emotivi desiderabili e di distogliere l’attenzione da materiale indesiderato, e un sistema definito di monitoraggio che si occupa di cercare contenuti mentali indesiderati che segnalino il fallimento del sistema operativo.

Quando le risorse cognitive diminuiscono il sistema operativo si indebolisce e prende il sopravvento il sistema di monitoraggio che ha l’effetto paradossale di portare a consapevolezza l’oggetto della propria ricerca, ovvero, i pensieri negativi e gli stati mentali non desiderati che il sistema operativo cercava di sopprimere.

Il Controllo mentale funziona quindi contro se stesso, portando alla mente proprio i contenuti mentali indesiderati.

Il funzionamento di tale meccanismo è stato ampiamente studiato in soggetti affetti da depressione che risultano piuttosto consapevoli dei loro tentativi di sopprimere pensieri negativi per mantenere un umore desiderabile o rimediare a un umore non desiderabile. Ancora poco invece si conosce circa il ruolo della soppressione del pensiero nei pazienti con disturbo bipolare.

Uno studio di Miklovitz et al. (2010) si è proposto di verificare se anche i soggetti affetti da disturbo bipolare tendono a sopprimere i pensieri negativi, e se tale tendenza si estende anche a pensieri “iperpositivi” per verificare se anche la fase maniacale possa essere il risultato di un controllo mentale inefficace questa volta su pensieri eccessivamente positivi. Si è così visto che quando un carico cognitivo interferisce con il controllo mentale i pazienti bipolari, come i depressi, sono più facilmente soggetti a un bias cognitivo negativo, rispetto alla maggior parte delle persone, sono cioè più soggetti a interpretare e giudicare gli eventi e le situazioni in senso pessimistico. Il bias negativo osservato potrebbe quindi essere il risultato di un controllo mentale inefficace, anche se i risultati sembrano in parte dipendere dalla presenza di alcuni sintomi depressivi. Non è semplice infatti attuare studi su soggetti bipolari in quanto difficilmente la loro sintomatologia, soprattutto depressiva, si trova in completa remissione. Rispetto alla soppressione di pensieri iperpositivi si osserva che, sebbene i soggetti bipolari riferiscano un maggior uso delle soppressione del pensiero anche in quest’ambito non vi sono dati significativi che confermino tale fenomeno.

Miklowitz et al. suggeriscono che ricerche future dovrebbero esaminare se la soppressione di pensieri negativi tra soggetti con disturbo bipolare sia effettivamente dovuta a un inefficace controllo mentale o è piuttosto attribuibile a un più generale bias attentivo o mnestico.

 

Bibliografia

Miklowitz, D.J., Alatiq, Y., Geddes, J.R., Goodwin, G.M., Williams, J.M. (2010). Thought suppression in patients with bipolar disorder. Journal of abnormal psychology, 119 (2), 355-365.

Wegner, D.M. (1994). Ironic processes of mental control. Psychological Review, 101, 34–52.

Wenzlaff, R.M., & Bates, D.E. (1998). Unmasking a cognitive vulnerability to depression: How lapses in mental control reveal depressive thinking. Journal of Personality and Social Psychology, 75, 1559–1571.

Tra default e odio, le emozioni politiche

 

Questo pasticcio del default americano è un triste enigma economico troppo complicato per noi, uomini e donne qualunque. E sta anche diventando un pasticcio serio. Ieri l’accordo sembrava trovato, ma poi i politici dello stesso partito di Obama si sono risentiti con il presidente, le agenzie di rating hanno iniziato a borbottare e il ballo delle borse è ripartito. 15 miliardi bruciati. Possibile? E in che senso? Già il denaro è un’entità astratta, ma il denaro delle borse mi pare particolarmente impalpabile.

E le agenzie di rating, poi. Ma che cosa sono queste agenzie? Altra entità incomprensibile per il non iniziato alla scienza triste, l’economia. Di queste agenzie so che sono tre, come le Parche che controllavano il destino degli uomini, che sono statunitensi e non greche (ma la Grecia è però un ingrediente di questo pasticcio economico), e che una di loro ha un doppio nome dal significato arcano e allusivo: “Standard & Poor’s”, con quel “Poor” là in mezzo che mi pare un malaugurio e che è incatenato a quel misterioso “Standard” che sembra dettare un modello o forse una legge. Ma quale legge? La legge del destino? O della povertà? Boh. Ah, so anche che ultimamente i cinesi hanno fatto la loro agenzia di rating che ha cominciato a sua volta a sfornare voti di buona e cattiva condotta.

Se la situazione non stesse diventando nervosamente seria, ci sarebbe materia per giocare uno degli infantili Risiko fatti di nulla e di parole, guerre mondiali combattute al bar, troni di spade e di dollari disputati nelle assemblee degli studenti universitari e liceali, con schiere di anti- e filo-americani fieramente avverse. Gli anti- naturalmente vantano la superiorità numerica, ma per fortuna manca quell’astratto furore che marcava gli anni’70. Tutto è più floscio oggi, per fortuna.

Parliamo un po’ di questo Risiko che si combatte nelle conversazioni. Imbarazzanti litigi, in cui si cita alla rinfusa un po’ di tutto, perfino ancora il vecchio Marx magari accanto a qualcuno che avendo orecchiato di liberismo economico tira in ballo von Mises.

Si tratta di vera e propria psicologia politica. Non è un modo di dire, è una scienza che va affermandosi, con le sue riviste, come ad esempio Political Psychology. Una scienza che già ha avuto il suo cambio di paradigma, da cognitivo a cognitivo-emozionale (Marcus, 2003). Insomma, anche qui si prende atto che l’azione umana non è un calcolo ponderato, ma agisce per scorciatoie che privilegiano piuttosto la rapidità delle decisioni, l’economicità, perfino la ripetitività. E nelle emozioni politiche gioca un ruolo fondamentale non tanto l’interesse, lo scopo razionale, quanto il buon vecchio senso di appartenenza, la necessità di riconoscersi in un gruppo in cui si condivida un linguaggio e si possano contare su un ventaglio prevedibili di azioni e reazioni da parte degli altri.

Soprattutto, un gruppo in cui ci si possa definire in rapporto a un nemico, o almeno un avversario. Tutto questo può suonare estraneo in una cultura democratica, ma questo è un equivoco da dissipare. La democrazia o -a essere più precisi- lo Stato di Diritto moderno (che può esserci anche democrazia senza diritti, come nell’antica Grecia) non si fonda sulla comprensione reciproca, ma sulla convenzione di non procedere all’eliminazione fisica del nemico. Democrazia significa che la lotta si effettua in termini regolati e per via puramente retorica, per persuasione senza coercizione. All’interno di queste regole, vige la più pura intolleranza e incomprensione reciproca. Ci si definisce in termini sostanzialmente manichei di puro odio, in fondo avendo ben chiaro soprattutto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Su quel che si è o che si vuole, le idee sono molto più confuse.

L’odio è l’emozione prevalente della politica (e specialmente dei regimi democratici, che da sempre vanno incontro a un caratteristico surriscaldamento politico, come aveva già notato Tucidide), uno stato emotivo prolungato il cui scopo è la netta differenziazione di se stessi rispetto all’avversario/nemico le cui idee sono considerate sempre e comunque considerate irricevibili (Ben-Zeev, 1992). Certo, in democrazia ci si mette d’accordo su certe regole: larghezza del campo, colpi più o meno proibiti, divieto dell’assalto fisico. Ma non certo sul superamento dell’odio stesso. Secondo Halperin, Canetti-Nisim e Hirsch-Hoefler (2009) questo odio non può essere ricondotto ad altre emozioni: la paura o la rabbia, ad esempio. L’odio non ha una funzione protettiva come queste due emozioni. Ma svolge una funzione definizionale. Definisce sé e il proprio gruppo in rapporto all’altro sentito come irrimediabilmente differente. Questa definizione di sé concorre a lenire l’angoscia esistenziale, incanala le decisioni in una narrazione della propria vita e del proprio gruppo almeno apparentemente coerente.

Si tratta di una ennesima versione della cosiddetta razionalità limitata di Herbert A. Simon (1997). Per Simon noi ragioniamo raramente prendendo in considerazione tutti gli elementi necessari per una decisione fondata. In realtà un smile grado di razionalità assoluta è impossibile, poiché ci costringerebbe a raccogliere una quantità immensa di informazioni davanti ad ogni decisione. Piuttosto, si preferisce imboccare scorciatoie, come quella che ci fa definire di un certo orientamento politico e soprattutto ci rende chiari a quale orientamento politico ci opponiamo (le emozioni negative danno sempre più soddisfazioni).

Allo stesso modo, un evento come il default americano spreme in noi emozioni di odio o di identificazione emotiva prima ancora che siano chiari i contorni concreti dell’evento. L’irritazione per l’egemonia culturale ed economica americana possono stimolare l’odio, mentre processi di identificazione possono innescare idee opposte. Questo naturalmente finché il default rimane un’idea astratta. Le cose possono cambiare e anche piuttosto rapidamente se oggi o nei prossimi giorni questo default si dovesse convertire in una crisi economica vera e non solo finanziaria come finora. In situazioni di emergenza, la mente mette da parte le scorciatoie emotive.

Ben-Zeev, A. (1992). Anger and hate. Journal of Social Philosophy, 2, 85–110.

Halperin, E., Canetti-Nisim, D., & Hirsch-Hoefler, S. (2009). The Central Role of Group-Based Hatred as an Emotional Antecedent of Political Intolerance: Evidence from Israel. Political Psychology, 30, 93-123.

Marcus, G. E. (2003). The psychology of emotion and politics. In D. O. Sears, L. Huddy, & R. Jervis (Eds.), Oxford Handbook of Political Psychology (pp. 182–220).New York:OxfordUniversity Press.

Simon, H. A. (1997). Models of Bounded Rationality, Volume I, II, III. The MIT Press,Cambridge,MA.

Molla il biscotto!

kid cookies © Paul Moore - Fotolia.comI bambini che riescono a resistere ai dolci potrebbero diventare adulti rispettosi della legge. Fermati! Non toccarlo! Siediti e sta’ calmo! Ascoltare questo tipo di esortazioni potrebbe determinare il futuro dei vostri bambini.

Un nuovo studio suggerisce che le persone che hanno mostrato meno autocontrollo da piccole una volta cresciute incorrerebbero più facilmente in pericoli per la salute, un numero maggiore di debiti e problemi legali nel corso della vita. L’idea che  la forza di volontà sia importante per il successo non è nuova. Già negli anni Sessanta Walter Mischel, psicologo della Columbia, ha studiato in un gruppo di bambini di 4 anni la capacità di resistere alla tentazione di assaggiare biscotti dimostrando che essi erano anche più bravi a scuola e con punteggi migliori nelle valutazioni. Venivano poi descritti dai genitori come più attenti, educati e intelligenti.

Incuriosita da questo risultato, la psicologa Terrie Moffitt della Duke e i suoi colleghi, ha condotto uno studio longitudinale per mettere alla prova l’ipotesti secondo la quale gli individui con più forza di volontà, che da bambini erano in grado di resistere alla tentazione di mangiare i biscotti, raggiungevano successi maggiori nella vita, rispetto a quelli che non ci riuscivano.

Il team internazionale ha monitorato nel corso del tempo circa 1000 bambini neozelandesi, nati tra il 1972 e il 1973, dall’età di 3 anni fino ai 30 e altri 500 gemelli eterozigoti inglesi, nati tra il 1994 e il 1995, dall’età di 4 ai 12 anni. I fattori presi in considerazione sono stati: l’autocontrollo, l’impulsività, la perseveranza nel raggiungimento di un obiettivo, il grado di disciplina e l’iperattività.

Paragonati al gemello più disciplinato, i bambini che avevano meno autocontrollo a 5 anni, a 12 con più probabilità avevano cominciato a fumare, andavano male a scuola e si comportavano più impulsivamente.

Sembrerebbe anche che questi problemi relativi alla condotta e ad un temperamento impulsivo, continuino anche per il resto della vita. I partecipanti ai due studi una volta cresciuti, basandosi su dati socioeconomici e il quoziente intellettivo, mostravano, a 30 anni, una forza di volontà minore e avevano un tasso più alto di problemi di salute (inerenti a peso, problemi polmonari e malattie, sessualmente trasmissibili). A 32, erano tre volte più dipendenti da tabacco, alcol e droghe pesanti o avevano commesso un crimine.

La dr.ssa Moffitt spiega che le persone non si categorizzano in base alla disciplina o alla sua assenza, ma  si collocano su uno spettro ed  è sempre possibile raggiungere un maggiore autocontrollo.

Insomma, i genitori con  bambini che non riuscano a resistere alla tentazione di un biscotto o di qualsiasi altro dolcetto, possono tirare un sospiro di sollievo e ricordare che l’autocontrollo e la disciplina si ottengono anche grazie all’apprendimento, all’educazione e al buon esempio di chi ci circonda.

 

http://www.pnas.org/content/108/7/2693

http://news.sciencemag.org/sciencenow/2011/01/dont-take-that-cookie.html?ref=hp

Come diventai paranoico: questo è un complotto (in teoria)!


E se un giorno desiderassi diventare paranoico, come potrei riuscirci? Quale percorso cognitivo dovrei seguire per costruirmi una credibile mentalità paranoica? Il nocciolo di questo modo di pensare è, come si sa, vedere e temere complotti dappertutto. Per fare questo, occorre nutrire delle buone teorie personali su cosa sono e come funzionano i complotti. Se lo conosci lo eviti. Vediamo come.

Gli elementi comuni delle teorie del complotto prevedono dei “potenti” che agiscono deliberatamente e sistematicamente per evitare che certi fatti diventino di pubblico dominio allo scopo di mantenere la propria posizione dominante. Il modo in cui queste cospirazioni vengono macchinate determina le tre tipologie in cui possono essere classificate:

Le cospirazioni ostruttive hanno lo scopo di impedire che qualche evento possa accadere. Un esempio potrebbe essere quello che vede la lobby del petrolio impegnata nella lotta alla diffusione del motore che funziona ad acqua.

Le cospirazioni oppressive riguardano le cospirazioni all’origine delle disuguaglianze sociali e delle privazioni di diritti politici. Sotto questa categoria rientrano le teorie riguardanti le tecnologie aliene di cui la CIA sarebbe in possesso ed utilizzate dal governo americano contro i propri cittadini, oppure la teoria secondo la quale il virus dell’HIV sarebbe stato creato in laboratorio e poi diffuso nelle comunità di “indesiderabili”.

Le cospirazioni ingannevoli, parenti strette delle teorie ostruttive, sono attuate per illudere che le cause alla base di problemi di ordine sociale, politico o economico siano diverse da quelle che in realtà sono. Un tragico esempio di questa tipologia è stato utilizzato negli anni ’30 in Germania da un certo Hitler, il quale accusò gli ebrei di essere la causa di tutti i problemi che la Germania stava attraversando in quel periodo.

Recentemente l’università dell’Ohio ha condotto una ricerca su 1010 adulti per determinare le credenze coinvolte nelle teorie della cospirazione riguardanti l’attacco terroristico alle torri gemelle. Il risultato ha evidenziato che il 36% del campione riteneva molto probabile o abbastanza probabile che il governo fosse coinvolto in vario modo negli attacchi.

Le possibili ragioni alla base di un così consistente radicamento nella popolazione di tali credenze sono state correlate dal sociologo Ted Goertzel a tre tratti:

– Uno stato di disaffezione o di alienazione rispetto al “sistema”

– La tendenza a non fidarsi delle altre persone

– Un senso di insicurezza legato alla continuità del proprio lavoro
Le teorie del complotto forniscono il “nemico” da accusare di fronte ai quei problemi che diversamente sarebbero troppo astratti ed impersonali per essere affrontati, fornendo inoltre risposte facilmente disponibili per risolvere le contraddizioni fra la realtà dei “fatti” e il sistema di credenze individuali.

Una teoria del complotto per avere successo deve quindi rinforzare la credenza personale secondo cui forze esterne siano responsabili di qualche aspetto spiacevole o indesiderabile della propria vita; se l’individuo si sente oppresso da  una cospirazione di “potenti”, che rende vano ogni sforzo individuale di miglioramento, si solleva inoltre dalla responsabilità soggettiva nei confronti della propria condizione.

http://www.world-mysteries.com/newgw/gw_rmd1.htm

Goertzel, T. (1994): Belief in Conspiracy Theories, Political Psychology 15: 733-744) Disponibile su  http://crab.rutgers.edu/~goertzel/conspire.doc.

Le terapie psicologiche del disturbo borderline di personalità

 

Dalla letteratura scientifica emergono diversi approcci psicoterapeutici efficaci nel trattare il disturbo di personalità borderline. In particolare, i recenti trial clinici sostengono che questa tipologia di pazienti trae i benefici maggiori da forme di psicoterapia strutturate e specifiche per questo disturbo. Le prove empiriche forniscono un’evidenza che favorisce soprattutto la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT: Linehan, 1993) e il trattamento basato sulla mentalizzazione (MBT: Bateman & Fonagy, 2004). Ciò che appare rilevante è che una forma di psicoterapia efficace si dimostri più efficace del cosiddetto “trattamento usuale” (TAU – Treatment As Usual). L’obiettivo di queste terapie è offrire un metodo per promuovere la regolazione delle emozioni e la risoluzione dei problemi che incorrono nella vita di questi pazienti (Paris, 2010). I risultati della ricerca empirica hanno mostrato che una forma di psicoterapia ben strutturata può produrre esiti che i TAU non riescono ad ottenere. Vediamo nel dettaglio le componenti di questi approcci psicoterapeutici.

La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT, Dialectical-Behavioural Therapy) è un adattamento della terapia cognitivo-comportamentale. È stata elaborata dalla psicoterapeuta statunitense Marsha Linehan (1993) e il suo cardine è l’addestramento alla gestione delle emozioni disforiche e alla ricerca di comportamenti alternativi all’automutilazione e all’abuso di sostanze. Il programma prevede incontri individuali, di gruppo e reperibilità telefonica del clinico.

Lo studio di efficacia iniziale ha mostrato come la DBT sia nettamente superiore al TAU nel ridurre le automutilazioni, l’abuso di sostanze e il numero di ricoveri ospedalieri (Linehan et al., 1991; Linehan et al., 1993).

Tuttavia rimangono delle questioni non risolte. Nonostante il campione originale abbia effettuato questo tipo di psicoterapia più di 20 anni fa, non c’è stato alcuno studio di follow-up, perciò non è noto se i pazienti trattati abbiano mantenuto i loro progressi e abbiano continuato a migliorare. Inoltre, altre evidenze empiriche (McMain et al., 2009) sembrerebbero mostrare che, sebbene la DBT sia più efficace di altri trattamenti, può corrispondere ad altre terapie che siano altrettanto strutturate e designate appositamente per questa popolazione clinica.

Il Trattamento Basato sulla Mentalizzazione (MBT, Mentalization Based Treatment) è una tecnica elaborata da Bateman e Fonagy a partire dal 2004, che deriva dal concetto secondo il quale i pazienti borderline necessitano di imparare a “mentalizzare”, ossia a stare fuori dai propri stati d’animo, osservando accuratamente le emozioni proprie ed altrui. La teoria alla base dell’MBT suggerisce che questa capacità si sviluppi mediante un processo di esperienze infantili nelle quali le persone si sentono considerate nei pensieri degli altri (specialmente dei genitori) all’interno di una relazione di attaccamento sicuro con figure significative in grado di tenere “a mente” e considerare l’altro (Bateman & Fonagy, 2004). Nei pazienti con disturbo di personalità borderline questa capacità sarebbe compromessa a causa di un atteggiamento scarsamente mentalizzante e “riflessivo” da parte delle figure di riferimento, i quali non risponderebbero adeguatamente alle esperienze emotive del soggetto, causando così un trauma evolutivo.

L’MBT parte da una base teorica psicanalitica ma utilizza anche metodi cognitivi. Infatti questo trattamento è simile, in molte componenti, alla DBT: in entrambe le forme di psicoterapia i pazienti sono addestrati ad osservare le loro emozioni, a tollerarle e a gestirle in una maniera più adattiva. Nella MBT, tuttavia, l’addestramento è meno dettagliato e formalizzato rispetto alla DBT. Il paziente è piuttosto continuamente stimolato e incoraggiato a mentalizzare ogni suo stato emotivo e impulsivo, ma non gli si mostra operativamente –mediante esercizi cognitivi o comportamentali- come potrebbe realizzare questa mentalizzazione.

Nel 1999 è stato condotto un primo test tramite un trial clinico randomizzato su un campione modesto (n=41) in un programma della durata di 18 mesi: gli esiti hanno mostrato che la MBT era superiore rispetto ai TAU. Successivamente, il campione è stato osservato per 8 anni, notando un miglioramento stabile nella sintomatologia clinica.

Lo studio più recente sulla MBT, in un campione più largo di pazienti (n=134), ha fornito la più significativa evidenza riguardo alla sua efficacia (Bateman, Fonagy, 2009). Sono stati confrontati 18 mesi di MBT con un TAU. l’MBT è risultato nettamente superiore nel diminuire tentati suicidi e ricoveri ospedalieri. Gli autori hanno dunque concluso che i loro dati confermano la necessità di una psicoterapia strutturata per il disturbo di personalità borderline.

Altri approcci psicoterapeutici che risultano efficaci nel trattamento del disturbo borderline sono la Psicoterapia focalizzata sul transfert (Transference Focused Therapy, TFP) di Kernberg (validata in un trial del 2002). Anche la TFP, come la MBT, non si pone l’obiettivo di insegnare delle abilità ma di incoraggiare il paziente a integrare le rappresentazioni di sé e degli altri; la Terapia Cognitivo-Analitica (Cognitive Analytic Therapy, CAT) di Ryle (1997), un’altra combinazione di terapia cognitivo-comportamentale e terapia analitica, che applica la teoria delle relazioni oggettuali per aiutare i pazienti a stabilire un senso di sé più stabile, e la Terapia Focalizzata sugli Schemi (Schema Focused Therapy, SFT) sviluppata da Young (1999), che mira a modificare gli schemi maladattivi che derivano da esperienze negative nell’infanzia.

 

AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2002). DSM IV-TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Text Revision. Masson Ed, Milano

BATEMAN A., FONAGY P. (2004). Psychotherapy for Borderline Personality Disorder: Mentalization Based Treatment. Oxford: Oxford University Press

BATEMAN A., FONAGY P. (2006). Mentalization Based Treatment: A Practical Guide. New York: John Wiley

Bateman A., Fonagy P. (2009). Randomized controlled trial of outpatient mentalization based treatment versus structured clinical management for borderline personality disorder. Am J Psychiatry (Epub ahead of print).

LINEHAN M. (1993). Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Trad. it. di Ascoli M., D’Amore C. (2001). Edizione italiana BARONE L. (a cura di); Cortina Ed., Milano

MAFFEI C. (2008). Borderline. Struttra, categoria, dimensione. Cortina Ed., Milano

McMain S., Links P., Gnam W., et al. (2009). A randomized trial of dialectical behavior therapy versus general psychiatric management for borderline personality disorder. Am J Psychiatry (Epub ahead of print)

NATIONAL INSTITUTE FOR HEALTH AND CLINICAL EXCELLENCE (2009). Borderline personality disorder: treatment and management. NICE clinical guideline 78. Developed by the National Collaborating Centre for Mental Health

OLDHAM J., GABBARD G., GOIN M. et al. (2001). American Psychiatric Association Practice Guidelines: Practice Guideline for the treatment of borderline personality disorder. American Journal of Psychiatry, 158: 1-52

PARIS J. (2008). Treatment of Borderline Personality Disorder: A Guide to Evidence-based Practice. Guilford Press, New York

PARIS J. (2010). Effectiveness of Different Psychotherapy Approaches in the Treatment of Borderline Personality Disorder. Cur Psychiatry Rep 12: 56-60

RYLE A. et al. (1997). Cognitive Analytic Therapy and Borderline Personality Disorder: The Model and the Method. Hoboken, NJ: John Wiley

SKODOL A., BENDER D. (2009). The Future of Personality Disorders in DSM-V? American Journal of Psychiatry 166: 4

YOUNG J. (1999). Cognitive Therapy for Personality Disorders: A Schema Focused Approach, edn 3. Sarasota, FL: Professional Resource Press

Pillole o parole?


antidepressivi

La New York Review of Books, uno dei più prestigiosi giornali del mondo anglosassone, pubblica  tra giugno e luglio due articoli di Marcia Angell che costituiscono un attacco duro e severissimo al mondo psichiatrico moderno.

Ha vinto nel mondo psichiatrico il punto di vista che quasi tutto dipenda da squilibri chimici nel cervello. Questo ha portato ad una crisi grave delle psicoterapie e al fatto che la maggior parte degli psichiatri ormai distribuiscono solo farmaci e non parlano più con i pazienti se non per inferire da alcune cose che essi dicono, i “sintomi” che necessitano di essere curati.  E che essi cureranno, sintomo per sintomo. Il risultato di questo è che oggi il 10% circa degli americani sopra i sei anni si cura con farmaci psicotropi.

Kirsch, l’autore di uno dei  libri recensiti nell’articolo (2011) si chiede se gli antidepressivi funzionano e arriva a sconcertanti risposte. Il punto è questo: le case farmaceutiche che distribuiscono e guadagnano sui farmaci sono divenute negli anni non solo parte del sistema diagnostico che definisce le malattie mentali e le categorizza, ma anche di come esso debba essere trattato.

Quando tutto è iniziato (anni 50) non si sapeva affatto come questi primi farmaci funzionavano:  ad esempio la clorpromazina, uno dei primi farmaci che si sono studiati a metà degli anni cinquanta,si dimostrò capace di  abbassare i livelli di dopamina nel cervello. Questo fatto ha fatto inferire (in modo del tutto arbitrario) che malattie come la schizofrenia fossero causate da un eccesso di dopamina nel cervello.  Insomma , come dice il NYTRB, invece di trovare un farmaco che curasse una anomalia, si è postulata una anomalia per giustificare il funzionamento del farmaco.

Ma non si è ancora trovata nessuna certezza sugli agenti causali della depressione. Kirsch ha studiato per anni i placebo e il problema del funzionamento degli psicofarmaci contro la depressione.  E qui arriva nel suo libro l’attacco a come sono strutturati i trial randomizzati. Questi trial durano 8,10 settimane.  E dopo avere studiato almeno 38 di questi trial kirsch arriva al preoccupante risultato che in sostanza i placebo funziona almeno tre volte meglio del nessun trattamento, e gli antidepressivi funzionano poco meglio dei placebo.  (la proporzione è del 75%, cioè il placebo funziona il 75% di come funzionano gli antidepressivi) . I dati kirsch li ha presi dalla food and drug andiminstration, non dalla letteratura pubblicata. Il motivo c’è, nella letteratura riportata non vengono riportate le ricerche che danno dati non positivi.  Se due trial dimostrano un effetto positivo e vengono pubblicati su journal e 10 trial dimostrano una inefficacia o peggio, non vengono pubblicati. Voi capite che questa prassi influenza grandemente le decisioni per il trattamento,  che poi gli psichiatri ( e spesso anche i medici di base) prendono con i loro pazienti.

Kirsch è riuscito ad avere i dati dal FDA (federal and drug administration) e ha trovato 42 trial di sei farmaci. La maggior parte erano negativi. I placebo funzionavano circa l’82% dei farmaci.

Come vedete differenze minime. Le differenze statistiche minime a favore dei farmaci non appaio non significative dal punto di vista clinico.

I trial clinici sono fatti in doppio cieco, vuol dire che né il clinico né il paz sanno chi prende il placebo e chi prende il farmaco, Kirsch è andato a studiarsi alcuni trial clinici che fornivano placebo con effetti simili ai farmaci e udite udite, se si dava una sostanza con effetti collaterali simili al farmaco, spariva la differenza tra placebo e antidepressivi. Alcuni pazienti quindi, sentendo gli effetti secondari, deducono che stanno prendendo l’antidepressivo durante il trial e si convincono che stanno migliorando a causa del farmaco.

Kirsch sostiene che molti degli aneddoti clinici del miglioramento dei pazienti in cura per antidepressivi potrebbero essere dati da questo bias della narrazione comune.

Ma questo cosa significa per noi?

Stiamo attenti, il problema non è di non avere chiari i meccanismi base di funzionamento, la medicina funziona spesso così, abbasso la febbre in ogni caso, indipendentemente dalla comprensione del perché quel corpo malato abbia avuto un rialzo della temperatura,  è una pia illusione che l’unico intervento medico corretto sia quello seduto su una comprensione assoluta del disturbo che si presenta, illusione che ha fatto molto male alla psicologia, dove spesso si è tentato di trovare coerenze assolute, e gerarchicamente inoppugnabili, dove invece occorreva il coraggio di interrompere circoli viziosi di mantenimento, o intervenire semplicemente partendo dall’alleviare la sofferenza.

Il problema attiene alla credibilità della ricerca.

Good news: Sono anni ormai che l’intervento psicoterapeutico è sotto attacco proprio a causa della potenza e forza del mondo psichiatrico pro farmaci, quindi se se ne discute la scientificità può essere un passo verso una apertura a favore degli interventi psicologici.

Bad news: per i ricercatori in psicoterapia, un attacco a trial farmacologici potenti, ben finanziati,  dove i parametri da studiare sono precisi e facili da tracciare, (misurare la dopamina) può mettere in discussione il valore di trial clinici dove i parametri sono: il perfezionismo, l’intolleranza dell’incertezza, credenze molto più difficili da definire e rendere operazionalizzate, e dove la compiacenza con il ricercatore e la manipolazione dei parametri da parte del paziente può essere sicuramente un elemento importante di disturbo sull’andamento dell’esperimento.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Angell, M. (2011). The Epidemic of Mental Illness. New York Review of Books, 58, 11, June 23.
  • Angell, M. (2011). The Illusions of Psychiatry. New York Review of Books, 58, 12, July 14.
  • Kirsch, I. (2011) The Emperor’s New Drugs: Exploding the Antidepressant Myth. Basic Books, New York.

Genitori in attesa e aspettative sul futuro


Un gruppo di ricercatori finlandesi dell’ University of Tampere e dell’ University Central Hospital di Helsinki ha analizzato, in ben 745 coppie finlandesi in dolce attesa, le aspettative sulla futura relazione con il figlio e ne ha esaminato le correlazioni con i livelli di stress dei genitori durante il primo anno di vita del bambino. Gli aspetti della relazione genitori/figli che sono stati indagati e sui quali si concentrava l’analisi delle aspettative erano intimità emotiva e l’autonomia individuale; entrambe dimensioni fondamentali perchè relative a processi di sviluppo attivi sia a livello dell’individuo che a livello del sistema familiare: la capacità di stare in relazione e quella di differenziarsi.

I ricercatori si proponevano di verificare se rappresentazioni genitoriali prenatali problematizzate, cioè negative o sbilanciate, rispetto a temi così centrali nella costruzione della relazione genitore/figlio e della identità individuale, potessero predire problemi di adattamento nel passaggio alla genitorialità durante il primo anno di vita del bambino.

A tutte le coppie, nel secondo trimestre di gravidanza, a 2 e 12 mesi dopo il parto, è stato chiesto di compilare un questionario self report sulle rappresentazioni familiari; a due e 12 mesi dopo il parto è stato anche somministrato l’Abidin’s Parenting Stress Index, per testare il livello di stress dei genitori

le hp dei ricercatori prevedevano che sia aspettative molto positive che aspettative molto negative avrebbero correlato con alti livelli di stress genitoriale, ma contrariamente all’ipotesi i risultati hanno evidenziato che aspettative prenatali alte coincidevano, in entrambe le dimensioni, con bassi livelli di stress nel primo anno di vita del bambino.

L’ hp che aspettative moderate potessero favorire minore stress genitoriale si è dimostrata sensata solo per quanto riguarda le aspettative paterne sulla propria autonomia dal bambino: questa previsione si è avverata a due mesi di vita del bambino, suggerendo che nei primi mesi di paternità aspettative idealizzate possano scontrarsi con la realtà ed essere espressione di perfezionismo, atteggiamento pericoloso perchè di ostacolo agli adattamenti genitoriali nel caso in cui il genitore venga deluso (Kalmuss, Davidson, & Cushman, 1992). Anche aspettarsi eccessiva autonomia da parte del bambino, proprio quando il legame con il genitore è stretto e il bambino è molto dipendente e bisognoso di attenzione, può interferire con lo sviluppo di un buon attaccamento.

L’indagine prevedeva che venissero indagate sia le aspettative prenatali sulla relazione di ciascun genitore con il bambino che le aspettative di ciascun genitore sulla relazione che il partner avrebbe avuto con il bambino.

Sorprendentemente aspettative moderate sull’intimità tra partner e figlio, sia nelle madri che nei padri erano invece associate ad alti livelli di stress. Per spiegare questi risultati i ricercatori hanno ipotizzato che aspettative moderate potessero essere espressione di ambivalenza nel guardare alla relazione tra il proprio partner e il bambino; al contrario, aspettative molto positive o molto negative sulla relazione tra il partner e il figlio, rifletterebbero una più chiara definizione delle relazioni all’interno della famiglia e quindi un maggiore equilibrio e una minore problematicità. Inoltre in quelle famiglie in cui ci si aspetta che uno dei genitori sarà emotivamente distante dal figlio potrebbero essere in atto dinamiche compensatorie: questa aspettativa porterebbe a un rafforzamento della relazione dell’altro genitore con il figlio.

In accordo con la teoria dei sistemi familiari, aspettative negative (non solo della propria relazione con il bambino ma anche di quella del partner) predicono il futuro funzionamento della propria relazione con il figlio e coincidono con un alto stress genitoriale.

Dal punto di vista clinico e della salute mentale, le aspettative prenatali potrebbero essere un valido strumento per prevedere futuri problemi genitoriali. In quest’ottica maggiore attenzione dovrebbe essere data a quei genitori che durante la gravidanza già hanno aspettative negative, idealizzate o ambivalenti sul bambino in arrivo e sulla genitorialità, o preoccupazioni sulla futura relazione tra il partner e il bambino. Le ragioni di aspettative “caute”, ostili o distorte andrebbero approfondite perché potrebbero essere un forte indicatore di rischio per le future relazioni genitori-figli. Interventi focalizzati sulla relazione dovrebbero cominciare precocemente perché i risultati della ricerca mostrano che aspettative negative, idealizzate o ambivalenti, misurate prima del secondo trimestre di gravidanza, sono predittive di problemi genitoriali durante il primo anno di vita del bambino. Inoltre anche la qualità dei primi scambi affettivi e comunicativi è importante per lo sviluppo ottimale del bambino e per la sua salute mentale.

Insomma chi si fascia la testa ancor prima di romperla forse non sempre sta esagerando!

Flykt M. e coll..(2009) Prenatal expectations in transition to parenthood: former infertility and family dynamic considerations. Journal of Family Psychology 2009 Dec; 23(6):779-89.

Kalmuss, D., Davidson, A., & Cushman, L. (1992). Parenting expectations, experiences and adjustment to parenthood: A test of violated expectations framework. Journal of Marriage and the Family, 54, 516–526.

Io sarò con la tua bocca (Esodo 4, 12)


 

boccaNon è la prima volta che leggo questa  stuzzicante notizia, dal sapore inconfondibilmente  catto-dandy. La prima volta mi fu segnalata da un  amico che inorridito commentava: “Non ci credo, è un  complotto della Chiesa Cattolica”. E invece pare che sia vero. La relazione tra sesso orale e tumore della bocca c’è. Punto. Che fare? Prevenire, naturalmente. E anche stavolta si raccomanda l’uso preventivo del preservativo. Ancora nessuno osa invece raccomandare di astenersi. Forse non ne vale la pena impiegare la propria reputazione di bigotto per criticare le pratiche preliminari del piacere. O forse si. Lo faccio io e dico: è proprio necessario? È proprio impossibile rinunciare a un desiderio? Pensieri di bigotto di mezza età. Intanto rimando agli studi di Gabriele Caselli, esperto di statura internazionale (sul serio) di psicologia del desiderio.  Almeno capiamo cosa ci accade, quando decidiamo di rinunciare a rinunciare.

Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.

La strage di Oslo e la percezione sociale del cristianesimo


La strage di Oslo e le percezione sociale del cristianesimo.

La strage di Oslo e dell’isola di Utøya genera troppe domande che rischiano di sposarsi a risposte troppo semplici. La personalità anti-sociale, le idee estremistiche, il ruolo dei fondamentalismi e delle religioni monoteistiche e non, i totalitarismi secolari. E poi i videogiochi, l’uso perverso dei social network, l’ambiente dei gruppi estremisti. In questo calderone lo psicologo teme di non poter dire nulla di particolarmente originale e nemmeno nulla di rassicurante.

Mi limito a riflettere su un aspetto della tragedia: Andres Breivik, l’autore della strage, ha dichiarato di essere un cristiano. Lasciamo da parte il problema di cosa sia un cristiano e ancor più di cosa sia un vero cristiano e se e quanto Breivik lo sia. Atteniamoci al nucleo emotivo della faccenda, perché in esso riposano gli aspetti psicologici. Anche per il terrorismo islamico si è spesso disquisito su cosa sia il vero Islam, con puntualizzazioni probabilmente buone e giuste. Ma in termini di “minaccia percepita” ciò che oggi potrebbe contare è che Breivik ha rivendicato la strage (anche) in nome del suo cristianesimo.

Quando Osama bin Laden realizzò l’attentato alle Twin Towers diede inizio a un equivoco confusivo, anche se poi quella confusione aveva le sue ragioni. Osama attaccò l’Occidente, definendolo cristiano e “crociato”. È vero che talvolta se la prendeva anche con la secolarizzazione della vita occidentale, ma la sua terminologia utilizzava termini religiosi che –ancora una volta- si imprimevano nella mente anche quando non appropriati: cristiani, crociati, e così via.

Personalmente, mi è capitato di osservare qualcosa di simile perfino nel pur secolarizzato stato d’Israele: alcuni (non tutti) colleghi ebrei si rivolgevano a noi dicendo “voi cristiani”. A noi italiani in visita ci parve inutile stare a spiegare che il termine era abbastanza fuori luogo: i colleghi italiani che mi accompagnavano erano tutti atei e il mio personale cristianesimo mi definiva in misura meno incisiva e pubblica rispetto alla loro ebraicità.

Dopo l’11 settembre per la laicità occidentale è iniziato un periodo di disorientamento. Come conservare la propria laica equidistanza rispetto a tutte le religioni, e al tempo stesso prendere atto che, almeno in quei giorni (giorni che iniziano ad apparire stranamente lontani), la minaccia maggiore sembrava provenire dall’Islam?

A questo equivoco se ne aggiunse un altro. Molti occidentali laici, ma di formazione e mentalità più storicistica e romantica (e per questo differente rispetto a chi privilegiava l’illuminismo progressista), sentirono di doversi muovere per difendere non solo i valori dell’individualismo secolarizzato, ma anche la loro radice storica che era anche cristiana.

Non basta. Covava inoltre in alcuni uno strano desiderio di farla pagare a certe frange eccessivamente terzomondiste del fronte illuminista, frange che non rispettavano poi troppo l’attesa equidistanza illuministica da tutte le religioni e lo stesso equidisgusto per tutte le Tradizioni. Alcuni tradivano invece simpatie verso le Tradizioni che storicamente occidentali non erano. La solita innocua paccottiglia di fascinazione per le spiritualità orientali nelle sue varie reincarnazioni. Oppure la teoricamente meno innocua abitudine di indossare la kefiah (ma anche in questo caso spesso tutto si risolveva in un terzomondismo bonario e privo di conseguenze). Una delle ultime manifestazioni è stato un certo recente entusiasmo turistico per l’antica città di Istanbul.

Come guerra di civiltà, era abbastanza innocua e soft. Soft non è un mio termine, ma di un autorevole blogger dell’Unità: “non c’era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori ‘soft’ come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme”.

Di qui una polemica tra laici illuministi e mezzo-laici filo-cristiani più o meno devoti. Ad ascoltare queste discussioni, prevaleva la sensazione che l’Occidente si fosse tramutato in un consesso di giovani tromboni, un’assemblea di studenti fuori corso un po’ troppo saputi, tutti presi a discutere sull’esistenza o meno delle radici cristiane. Di lì a poco, molti finirono per essere infastiditi soprattutto da se stessi e dalle proprie ossessioni.

Il tutto oggi suona più chiassoso che dannoso, e al fondo innocuo. È vero che nel frattempo gli americani scatenarono una guerra in Iraq, ma col tempo la minaccia terroristica divenne una periodica tragedia che spuntava tra i titoli dei notiziari della sera: Madrid, Londra, e qualche altra esplosiva notizia. Tutto sconfinò nella banalità del male.

Era un modo per esorcizzare in qualche modo i difetti della “modernità liquida”, come la ha definita Zygmunt Bauman (2000). La società liquida conferisce all’uomo e alla donna la libertà di costruire liberamente il proprio percorso di vita, limitando al massimo i ruoli predefiniti, le attese, le pressioni e le costrizioni sociali. Tuttavia, l’atmosfera rarefatta della modernità non è per tutti, o forse è per tutti e per nessuno. La libertà va a cozzare contro un altro dei bisogni fondamentali dell’uomo, che è il bisogno di prevedibilità. E nel campo sociale e culturale la prevedibilità assume la veste politicamente non correttissima del senso di appartenenza.

Negli altri cerchiamo non solo lo stimolo e la novità, ma anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, di sensibilità, di storia personale. Negli altri cerchiamo perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie. Insomma un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi (Baumeister e Leary, 1995). Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise. Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro sgradite apparizioni. Per questo appare ingenuo il discorso di chi vorrebbe ridurre il pensiero conservatore a pavido timore del cambiamento e della novità.

Nel processo di secolarizzazione che ha investito le società occidentali, la vita sociale è andata incontro a un doppio processo sia di diminuzione che di intensificazione del senso di appartenenza. I due processi sono logicamente in contraddizione reciproca, ma le contraddizioni logiche possono benissimo convivere, sia pure conflittualmente, nell’arena emotiva delle persone e delle comunità sociali. E così in Occidente, accanto a un crescente stile di vita individualistico e secolarizzato, cresce anche il grado di coinvolgimento in forme di associazione neo-identitarie (Banks e Gingrich, 2006).

Da tutto questo è nato un lungo equivoco, che la strage norvegese dirime con il sangue. L’illusione che il cristianesimo potesse essere un nucleo identitario accettabile anche per la laicità illuministica, un nucleo sufficientemente elastico e adattabile da poter essere accettato anche dalla secolarizzazione moderna. Vivere “veluti si Deus daretur”, vivere come se Dio ci fosse, senza crederne l’esistenza. Espressione forte e acrobatica per un credente monoteista, ma comunque inaccettabile per un laico non credente.

Qualcuno ha sognato di poter concepire una difficile armonia tra l’individuo cristiano che ha sciolto i legami con le religioni etniche pagane e il (quasi) conseguente individualismo laico. Purtroppo non basta segnalare le affinità storiche tra l’individuo cristiano che rompe con i legami di sangue e di clan per vivere in una intimità solitaria (e quindi già così moderna) la sua fede e l’individuo moderno che organizza personalmente e ancor più solitariamente del cristiano la sua vita secondo i suoi scopi. La figliolanza storica non implica automaticamente unità di intenti. Ci sono delle inevitabili conflittualità psicologiche e culturali tra mentalità cristiana e modernità.

Conflittualità che sono al fondo della natura della libertà occidentale. Un assassino come Breivik le ha portate all’estremo, segnando una sorta di punto di svolta che però può rendere tutti più consapevoli di se stessi. Ma non è detto che rimarcare le differenze sia una diminuzione. La laicità occidentale non si riduce a mera conseguenza storica del cristianesimo e a sua volta il cristianesimo è qualcosa di più grande e grave del limitarsi ad essere la religione etnica dell’Occidente.

 

Banks, M., Gingrich, A. Neo-nationalism in Europe and beyond. In M. Banks, A. Gingrich (a cura di), «Neo-nationalism inEurope and beyond: perspectives from social anthropology». Berghahn,Oxford, 2006, pp. 136-161.

Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press, Cambridge. trad. it.: ”Modernità liquida”, Ed. Laterza, Roma-Bari 2002.

Baumeister, R. F., Leary, M. R. The need to belong: Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation. In «Psychological Bulletin», 117, 1995, pp. 497- 529.

Brewer, M. B. The social self: On being the same and different at the same time. In «Personality and Social Psychology Bulletin», 17, 1991, pp. 475-482.

Amy Winehouse: morte senza riabilitazione (she said “no, no, no”)


La malinconica morte di Amy Winehouse sembra consigliare reazioni stranamente silenziose. Il lutto per una giovane donna che scompare troppo presto e il rammarico per un talento reciso a 27 anni lasciano senza molte parole i fan e i giornalisti. E questa afasia sembra l’unica novità di un evento che sembra singolarmente incapace di parlarci e dirci qualcosa che vada oltre l’umana pietà.

Il silenzio è soprattutto quello degli appassionati di musica. I fan di Winehouse sono muti e attoniti. Muti perché determinati a non voler dare un senso a questa morte che vada oltre la tristezza della morte stessa. La mitologia della rockstar maledetta e che muore giovane è scomparsa. Non è più il tempo in cui i Jethro Tull si chiedevano se per caso non fosse venuto per loro il tempo di morire giovani, perché ormai già troppo vecchi per il rock’n’roll: correva l’anno 1976 e loro pubblicavano “Too Old to Rock ‘n’ Roll: Too Young to Die!

Oggi l’appassionato di musica non comprende il maledettismo vissuto o recitato dei suoi idoli. Amy Winehouse aveva già compromesso la sua produzione musicale da qualche anno, in un gorgo di insicurezze, droghe e perfino anoressia e bulimia. Ma, oltre l’umana pena, le reazioni dei fan sono state il fastidio, la delusione e l’irritazione del cliente insoddisfatto che reclama un servizio all’altezza, e non l’identificazione con qualcuno che condivide un destino bruciato di maledizione e lo esprime a un livello più alto. Non ho prove certe che confortino quel che scrivo, se non i commenti che ho letto in blog abbastanza popolari, per esempio qui.

Fastidio e non identificazione. Oppure sentimentalismo, che forse è ancor peggio, ancor più lontano dal maledettismo eroico. Per esempio Ernesto Assante che scrive: “Perchè viene da pensare che nessuno abbia avuto abbastanza coraggio, abbastanza forza, abbastanza amore per farla smettere, per fermarla, per arginare il caos che aveva dentro e che la portava a vivere una vita fatta di eccessi.”

Non credo sia questa la risposta. Non credo che non ci sia stato abbastanza amore o attenzione. O almeno non lo credeva Amy Winehouse. La risposta era già nelle parole di una delle sue canzoni più famose, il potente rhythm’blues Rehab: ‘They tried to make me go to rehab, I said “no, no, no”’. ‘C’hanno provato a mandarmi in disintossicazione, ma io ho detto “no, no, no”’ Ma più ancora delle parole conta la musica: il potente sottofondo rhythm’blues si unisce a una voce che non è da giovane rockstar arrabbiata contro un mondo che non la comprende. L’universo musicale della Winehouse non ha il corto respiro adolescenziale di chi ce l’ha coi genitori o gli insegnati o qualche altra autorità.

Non siamo di fronte a un giovanilistico rock’n’roll. La sua è una voce più adulta e meno propensa al vittimismo, una voce nera e profonda, quasi da baritono-donna. Amy Winehouse, questa ebrea londinese, canta come una cantante nera già avanti negli anni e che ha lasciato alle spalle il nervosismo richiedente dei giovani.

Insomma, rispetto agli anni ’70, gli anni delle grandi rockstar morte giovani, questa nostra sembra essere un’età meno propensa al maledettismo o al sentimentalismo, meno propensa a dare la colpa alla società, più consapevole che per disintossicarsi occorre la collaborazione (la cosiddetta compliance) del paziente (e spiacente se lui o lei dicono “no, no, no”), e meno propensa a comprendere le ragioni di chi spreca, o non sfrutta fino in fondo, il proprio talento.

Mal di testa? Oltre la solita aspirina


 

Le statistiche indicano che circa il 20% degli italiani soffre abitualmente per il mal di testa. Il costo sociale di questo disturbo   ammonta al milione di euro all’anno. E’ difficile dire cosa lo scateni visto che può configuarsi sia come sintomo di altri disturbi o costituire una malattia a sè. Insieme alle cause di tipo organico (alterazioni vascolari, del sistema nervoso, muscolare, ormonale, etc.) può essere scatenato da fattori legati allo stile di vita che procurano stress: troppo lavoro, mancanza di sonno, un’alimentazione scoretta, un consumo di alcol eccessivo o addirittura una postura scorretta. Quali che siano le cause il risultato è sempre lo stesso, una diminuzione del benessere del singolo e della sua qualità di vita, che può durare poche ore o protrarsi per giorni. Il tipo peggiore è sicuramente la cefalea a grappolo a volte indicato come “mal di testa da suicidio” a causa del dolore quasi insopportabile che causa in chi soffre e che solitamente coinvolge un solo lato del viso. Cosa la provochi non è ancora chiaro, studi recenti suggeriscono che siano coinvolti cambiamenti nella struttura dell’ipotalamo. Una struttura del cervello implicata, tra le altre cose, nella regolazione dei ritmi circadiani, ovvero il ciclo giornaliero dell’organismo che detta quando dormire, regola la temperatura corporea e la pressione sanguigna. Un’alterazione dell’ipotalamo potrebbe spiegare quindi la frequenza degli attacchi e perché sembrino avvenire particolarmente spesso intorno ai solstizi. Tra le cure che possono apportare sollievo, le inalazioni di ossigeno, farmaci che regolano le aritmie e LSD, la droga allucinogena simbolo degli anni 70!

Torsten Passie, psichiatra presso la Scuola Medica di Hannover e colleghi hanno deciso di testare la molecola 2-bromo-LSD, una variante non allucinogena, impiegata inizialmente dai laboratori Sandoz – la società svizzera che storicamente ha scoperto gli effetti psichedelici di un fungo parassita della segale che causava la “febbre del pellegrino” con allucinazioni e dolori articolari – come farmaco per la cura della cefalea. I dati preliminari su un campione di 6 pazienti, mostrerebbero come tutti i partecipanti allo studio hanno riportato una riduzione della frequenza degli attacchi, e cinque pazienti hanno riferito di non aver più avuto attacchi per mesi dopo l’assunzione.

Gli studi proseguiranno. Non ci resta che sperare e nel frattempo andare a cercare i pantaloni a zampa chiusi in soffitta!

http://news.sciencemag.org/sciencenow/2011/06/lsd-alleviates-suicide-headaches.html

Rimanda a domani la perfezione


 

Il rimandare è attività comune a tutti ma le ragioni che ci inducono a farlo sono diverse.

A rischio procrastinazione, ebbene sì, ci sono anche loro, i perfezionisti, coloro che fondano il proprio valore personale nell’eccellenza delle prestazioni.

Perchè mai persone così interessate a fare bene dovrebbero però concedere a se stessi il lusso di procrastinare? Forse perchè la frustrazione di aver rimandato un compito è comunque meno dolorosa della constatazione di non aver raggiunto la perfezione?

In tal senso procrastinare è un via di fuga, una strategia per non incrinare il proprio valore così saldamente ancorato all’esito perfetto delle proprie performance.

La strada che conduce il perfezionista alla procrastinazione è dunque un percorso in discesa.

Il punto di partenza è la tendenza a standard elevati. Se ad essi si accompagnano però garanzie di successo insufficienti, dal momento che ottenere meno della perfezione non è un’opzione considerata, il perfezionista sperimenta un senso di forte disagio a cui reagisce  col tentativo di nascondere a se stesso le proprie imperfezioni. In un attimo si ritrova ad affrontare attività giudicate meno pericolose perchè non coinvolte nella determinazione del proprio valore e il compito tanto temuto viene rimandato.

Ma come se ne esce? L’unica soluzione possibile sembrerebbe quella di accettarsi come persona fallibile concedendosi di fare il meglio che si può e non assecondando rigidi canoni di perfezione.

Ecco qualche pratico consiglio:

– tenere presente che il desiderio di eccellere non va abbandonato ma è ben diverso dall’aspirazione di essere perfetti;

– coltivare un atteggiamento mentale orientato all’apprendimento piuttosto che al risultato: solo gli errori ci insegnano come fare meglio la prossima volta;

– esercitarsi a essere meno critici verso se stessi e gli altri sottolineando le cose che vanno bene;

– chiedersi più spesso “quanto me ne importerà di ciò tra un anno?”  aiuterà se stessi a calare le situazioni in una prospettiva più ampia;

– fare spazio all’idea di abbastanza bene, ancora meglio celebrare gli errori;

– allenare la propria mindfulness: prendere nota del proprio scopo poi dimenticarlo e godersi il viaggio per arrivare alla meta.

Knaus, B. (2010). Break a Perfectionism and Procrastination Connection Now. Learn to overcome perfectionism and procrastination simultaneously. Science and Sensibility. Psychology Today.

Fate l’amore, non fate la guerra.


I figli dei fiori già ne erano a conoscenza, ma una ricerca pubblicata su Nature conferma la loro tesi: fare l’amore è l’antidoto contro l’aggressività.

Al grido di ‘peace and love’ un gruppo di ricercatori del California Institute of Technology (Caltech) di Pasadena ha individuato una correlazione tra le aree cerebrali che governano l’aggressività e quelli che rispondono agli stimoli sessuali. Quando questi sono attivati, nella fase di passione tipica dell’accoppiamento, si riscontra una disattivazione dei neuroni che regolano l’aggressività.

La ricerca per ora è stata condotta solo su cavie animali, nella fattispecie topi, ma gli studiosi sono convinti che i risultati ottenuti si possano estendere anche al genere umano.

Dayu Lin, David Anderson e colleghi, hanno infatti individuato l’area cerebrale predisposta al controllo dell’aggressività. I neuroni ‘litigiosi’ sarebbero localizzati nell’ipotalamo ventromediale, una piccola zona del cervello deputatata anche alla regolazione del comportamento sessuale. Il gruppo di Pasadena è partito da studi precedenti che individuavano genericamente l’ipotalamo come area dell’aggressività; e proprio in quest’area si sono concentrati per stabilire con maggior precisione quale zona della suddetta struttura svolgesse questa funzione. Per fare ciò hanno monitorato l’attività cerebrale dell’ipotalamo dei topi innescando degli ‘scontri’ fra le cavie.

Durante lo studio i ricercatori hanno rilevato che sia durante questi ‘scontri’ che durante l’attività sessuale veniva attivata la medesima zona dell’ipotalamo, l’area ventromediale.

Di conseguenza, Dayu Lin e colleghi si sono concentrati su questa zona per comprendere le basi del comportamento aggressivo.

Nella seconda parte dello studio si sono serviti un nuovo metodo d’indagine, l’optogenetica, che combina tecniche ottiche e genetiche di rilevazione, allo scopo di sondare circuiti neuronali e di manipolarli artificialmente provocando reazioni in un tempo nell’ordine dei millisecondi.

Dopo aver posizionato gli elettrodi sul cranio delle cavie, per studiare le zone di attivazione, i ricercatori hanno reso i topi sensibili alla luce blu introducendo un gruppo di geni nel loro cervello.

In seguito, grazie all’utilizzo di fibre ottiche direttamente montate al cranio dell’animale, Lin e Anderson hanno stimolato i neuroni dei topi per studiarne le reazioni indotte  a livello comportamentale.

I risultati evidenziano che quando attraverso una scarica di luce blu venivano attivati i neuroni dell’aggressività e nella gabbia c’erano solo topi di sesso maschile, questi attaccavano immediatamente i propri simili, cavie castrate o anestetizzate, ma anche oggetti. Se invece si modificava la variabile sesso, ovvero nella gabbia venivano posti topi maschi e femmine, lo stato di aggressività mutava rapidamente in stimolo sessuale e risultava impossibile innescare artificialmente lo stimolo violento, quasi i due stati fossero mutualmente escludentesi.

Quindi, concludono gli autori, il desiderio e il sesso sopprimono i comportamenti violenti ma, di contro, in presenza di uno soggetto ‘sconosciuto’ (cavie castrate/ anestetizzate o oggetti inanimanti) si attivano le reazioni che servono all’animale per proteggere se stesso da un rivale di sesso maschile.

Da questo studio emergerebbe l’esistenza di un legame competitivo tra il sesso e l’aggressività, competitività che, se ben sfruttata, potrebbe dar ragione ai cari vecchi hippies.

Dayu Lin, Maureen P. Boyle, Piotr Dollar, Hyosong Lee, E.S. Lein, Pietro Perona, David J. Anderson. ( 10 February 2011). Functional identification of an aggression locus in the mouse hypothalamus. Nature, 470, 221-226.

Le cure materne fanno crescere, anche il cervello


 

Che l’interazione della mamma con il proprio figlio sia fondamentale per la sopravvivenza e lo sviluppo del bambino è cosa tanto nota da apparire scontata, ma sono in pochi a sapere che questi scambi precoci hanno importanti conseguenze anche sullo sviluppo cerebrale.

Peculiarità intrinseca al nostro cervello è quella di essere diviso in due emisferi – destro e sinistro- con caratteristiche funzionali separate. Come molti studi dagli anni ’90 a oggi hanno oramai confermato, le basi di tali asimmetrie hanno origine già durante il periodo fetale, per poi continuare a svilupparsi durante tutta l’infanzia. Non si tratta però di un puro meccanismo biologico. Al contrario: sarebbe la capacità del neonato di sintonizzarsi con la mente di altre persone, e in particolare di chi si prende cura di lui, che si rivela fondamentale per la maturazione dei circuiti cerebrali. Sarebbe infatti l’ambiente affettivo primario in cui è immerso il bambino a influire sia in senso positivo che in senso negativo sulla comparsa del primitivo emisfero destro in via di sviluppo; nelle interazioni faccia a faccia, infatti, il bambino utilizza proprio la produzione della corteccia destra della mamma, la quale regola le emozioni che andranno a loro volta a modulare l’emisfero destro del piccolo. Questo significa che il neonato, già dai primi giorni di vita, modula le sue emozioni in base a quelle che vede espresse dalla madre ed è proprio da tali interazioni con il caretaker che dipende lo sviluppo dei primitivi circuiti cerebrali. Questo processo diventa sempre più complesso e matura nel primo anno di vita con il crescere del bambino e con l’intensificarsi degli scambi affettivi con la madre. Solo intorno ai 18 mesi, invece, si ha la maturazione dell’emisfero sinistro, collegato allo sviluppo del linguaggio, alle funzioni esecutive e alle abilità astratte.

In uno studio di Davidson e collaboratori sono stati analizzati i tracciati elettroencefalografici di bambini di 10 mesi alla separazione dalla madre. I dati mostrano un’evidente asimmetria frontale nell’EEG sia durante la fase di interazione con la madre che durante la separazione. In particolare i bambini che piangono molto alla separazione dalla madre mostrano un aumento dell’attivazione frontale destra durante questa fase in misura significativamente maggiore rispetto ai bambini che invece non piangono. Sembra possibile affermare, quindi, che già nel primo anno di vita, l’attivazione frontale destra sia associata ad affetti negativi, a paura e ansia. Come confermano altri studi, ad esempio, in madri depresse si è riscontrata una significativa riduzione delle capacità di condividere stati affettivi positivi. Queste donne e i loro figli presentano una forte diminuzione dell’attività frontale destra, e se la depressione persiste dopo il primo anno di vita del bambino, i bambini possono continuare a esprimere tali pattern di attivazione frontali.

Ecco perché storie di traumi precoci costituiscono un ambiente inibente la crescita e la maturazione dell’emisfero destro. Studi di brain imaging hanno dimostrato, infatti, che l’emisfero destro si attiva quando vengono richiamate alla mente le memorie emotive, mentre a livello del linguaggio queste memorie possono essere del tutto inaccessibili.

Davidson, R. J., & Fox, N. A. (1989). Frontal brain asymmetry predicts infants response to maternal separation, Journal of Abnormal Psychology, 98, 127-131.

Schore, A. N., (2001). The Effects of Early Relational Trauma on Right Brain Development, Affect Regulation, & Infant Mental Health, Infant Mental Health Journal, 22, 201-269.

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