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Mercoledì 5-10-2011

rassegna stampaIl Potere della Mimesi che Vince il Razzismo.

Gli esseri umani sono animali profondamente empatici: mentre osserviamo gli altri muoversi il nostro cervello presenta una naturale tendenza a riprodurre mentalmente le stesse azioni osservate, a entrare in “risonanza” con l’altro. Questo processo inconsapevole e automatico risulta però inibito nel caso in cui l’altro sia oggetto di pregiudizi razziali. Ma se il pregiudizio razziale riduce la simulazione mentale, può la mimica ridurre il pregiudizio? Sembrerebbe di sì! Uno studio pubblicato recentemente sul Journal of Experimental Social Psychology dai ricercatori della University of Toronto, mostra come è stato possibile ridurre il pregiudizio razziale semplicemente incoraggiando i partecipanti allo studio a imitare i movimenti dell’ “altro” di differente etnia. Gli effetti empatici della mimica per ora sono stati verificati solo a breve termine ma i ricercatori si dicono convinti che un prolungamento del periodo di imitazione possa favorire una riduzione del pregiudizio anche a lungo termine.

Disturbo Post Traumatico da Stress.

La terapia cognitiva e le terapie basate sull’esposizione (Prolonged Exposure, PE), sia precoci che tardive, sembrano ridurre efficacemente i sintomi del disturbo post traumatico da stress (PTSD) in pazienti che hanno recentemente avuto esperienze traumatiche. E’ quanto appurato da un gruppo di ricercatori israeliani dell’Hadassah University Hospital di Jerusalem grazie a uno studio che ha coinvolto più di 250 pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di PTSD entro 10 giorni dall’evento traumatico. I risultati sottolineano inoltre come anche il trattamento tardivo sia una soluzione efficace in quei casi in cui l’intervento clinico precoce è impedito dalle difficili condizioni ambientali, come uno scenario di guerra o nel caso dei disastri naturali.

Meno Pillole per Tutti!

Leggiamo su PsyPost che nel mondo scientifico cresce la consapevolezza che in alcuni casi l’uso a lungo termine degli antidepressivi possa aumentare la vulnerabilità biochimica alla depressione e peggiorarne sia gli esiti che la sintomatologia, diminuendo anche l’efficacia di futuri trattamenti farmacologici e riducendo la durata dei periodi di libertà dai sintomi. sono questi i dati presentati in un recente studio condotto da Giovanni Fava ed Emanuela Offidani  dell’università di Bologna e pubblicato sul Progress in Neuro-psychopharmacology and Biological Psychiatry. Per contestualizzare la dicotomia oppositiva tra trattamento farmacologico e psicoterapico: Pillole o Parole? di Sandra Sassaroli.

Siccome non mi piaci, non credo al tuo dolore.

Se un paziente non è di nostro gradimento rischiamo di prendere meno sul serio la sua sofferenza. E’ quanto emerge da uno studio dei ricercatori dell’Università di Ghent, Belgio e  pubblicato sul numero di ottobre di  Pain®. Le implicazioni per tutti gli operatori della salute e in generale per chi svolge professioni di assistenza è lampante: se sottovalutiamo il disagio del paziente rischiamo di fornire meno cure e attenzioni del necessario compromettendo anche gli esiti del trattamento, che rischia per questo di essere inadeguato o insufficiente. Forse avere consapevolezza di ciò che ci suscita simpatia o antipatia e ammettere coraggiosamente i nostri pregiudizi può essere d’aiuto!

Amanda e Raffaele: la giusta sconfitta della psicologia

Articolo pubblicato su Affari Italiani il giorno 04-10-2011

Amanda Knox - Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/saschapohflepp/Il verdetto assolutorio per Amanda e Raffaele ci insegna una cosa. Che tra psicologia e giustizia c’è una relazione difficile e piena di incomprensioni. La giustizia persegue una verità giuridica, in cui non conta tanto stabilire ipotesi su una verità plausibile, ma comprendere se ci sono le condizioni minime per condannare qualcuno. Insomma, se ci sono le prove incontrovertibili e al di là di ogni ragionevole dubbio. La psicologia, invece, per sua natura produce ipotesi sul carattere, sulla personalità… CONTINUA A LEGGERE su Affari Italiani.

Amanda Knox e il rito del capro espiatorio

Scapegoat_© RTimages - Fotolia.comIl processo ad Amanda e Raffaele ci offre la possibilità di spendere qualche parola sul meccanismo psicologico del capro espiatorio. Su questo tema la letteratura scientifica è infinita, quindi mi limito a scrivere qualche parola su un solo autore, l’antropologo Renè Girard. Per Girard, il capro espiatorio svolge la funzione di prendere su di sé i conflitti tra le persone quando diventano intollerabili. È qualcosa che possiamo forse aver osservato in noi stessi. Se litighiamo con qualcuno, e soprattutto se litighiamo con qualcuno che amiamo, a un certo punto la tensione del conflitto può diventare intollerabile e spaventarci. Uno dei modi per diminuire la temperatura diventa allora cambiare argomento. Ma non basta. Occorre trovare qualcosa su cui sfogare la rabbia e la tensione. Una possibile soluzione è prendersela con qualcun altro, possibilmente un terzo assente. Molti litigi si ammorbidiscono nel gossip.

Secondo Girard questo stesso meccanismo trasposto al livello sociale è appunto quello del capro espiatorio. Gli uomini riescono a riconciliarsi tra loro unendosi nell’odio per qualcun altro, un capro espiatorio che carichi su di sé non il male del mondo, ma l’odio del mondo. Odiando qualcuno riusciamo a superare le antipatie e le incomprensioni, sia pure nell’entusiasmo passeggero della folla che riconosce finalmente in qualcuno l’origine di tutti i mali, di tutti i contrasti, di tutte le incomprensioni, di tutti i conflitti e delle discordie e dei limiti e dei difetti personali che ci dividono quotidianamente.

Per un momento non è più necessaria la diuturna fatica di ammettere le proprie manchevolezze ma ci si può unire in una solidarietà perfetta, assoluta, nel compito semplice e gratificante di punire il colpevole. È estremamente difficile definirsi e rapportarsi con l’altro con onestà e chiarezza, dire chi si è in quella clarità cristallina in cui coincidono semplicità e complessità. Più semplice è ritrovarsi nell’odio condiviso e nella definizione di ciò che non si è, nell‘additare un nemico comune. Meglio ancora, nel punirlo linciandolo.

E’ questa l’ipotesi di Girard, ipotesi esplicativa sul ruolo del capro espiatorio per la formazione delle società umane. Gli uomini superano le diffidenze e il fastidio reciproco in un sacrificio, il sacrificio di un essere umano che, facendosi carico del male, renda uniti gli altri, i sacrificatori. Con questo di certo non scompaiono le incomprensioni e le tensioni sociali, ma il mito fondativo agisce nel tempo insinuandosi nelle crepe che separano gli individui. Questa colla, sinuosa ed efficace come il serpente, impedirebbe che le spaccature si allarghino, o almeno lo impedisce finché il ciclo evolutivo di quella società non si conclude, poiché ogni opera umana che abiti sotto il sole è comunque caduca.

BIOGRAFIA:

  • Girard, R. (1972). La violence et le sacré, trad. it. La violenza e il sacro, a cura di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Adelphi, Milano 1980.
  • Girard, R. (1998-2001). La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, testi scelti a cura di Giuseppe Fornari, Santi Quaranta, Treviso.

In medio stat virtus: Mindfulness e Disturbo Bipolare

Meditation - Licenza d'uso: Creative Commons. Proprietario: http://www.flickr.com/photos/grimsanto/In una ricerca pubblicata sull’ultimo volume di Psychotherapy Research, Paul Chadwick e i suoi colleghi dell’Institute of Psychiatry del King’s College, del Royal Holloway dell’Università di Londra e del Royal South Hants Hospital di Southampton hanno esplorato, tramite una ricerca qualitativa, come la pratica della mindfulness porti benefici agli individui con diagnosi di Disturbo Bipolare. La ricerca ha indagato le esperienze derivanti dalla pratica della mindfulness e come tale pratica sia correlata alla qualità della vita e alla gestione del Disturbo Bipolare.

Gli autori sottolineano diverse ragioni per cui chi soffre Disturbo Bipolare possa trarre beneficio da un percorso di mindfulness, inserito all’interno dell’intervento psicoterapeutico. Come per la depressione, il rischio di ricadute è alto e sappiamo che in quel caso la MBCT è efficace, anche nei pazienti in cura farmacologica con stabilizzatori dell’umore. Stress e ansia sono elementi clinici importanti del disturbo bipolare e la mindfulness aiuta nella gestione di entrambi, inoltre ha come fine ultimo lo sviluppo di un atteggiamento orientato alla “self-acceptance”, accettazione radicale di sé. Tutte queste ragioni fanno pensare alla mindfulness come a uno strumento terapeutico molto importante e efficace.

Nella ricerca di Chadwick e colleghi, sono state utilizzate metodologie qualitative per esplorare le esperienze di persone con Disturbo Bipolare che hanno praticato le tecniche di mindfulness per almeno 18 settimane. Sono state utilizzate delle interviste semi-strutturate registrate, trascritte testualmente e analizzate attraverso approfondimenti tematici (concentrarsi su ciò che è presente; maggiore consapevolezza dello stato/cambiamento dell’umore; accettazione; praticare la mindfulness nei diversi stati d’umore; riduzione/stabilizzazione delle emozioni negative; rapportarsi in modo differente ai pensieri negativi; riduzione dell’impatto dello stato dell’umore.).

Tutti i partecipanti hanno riferito di aver riscontrato dei benefici e dei cambiamenti attraverso la pratica della mindfulness. Sembra che la mindfulness, tra gli altri benefici, abbia permesso anche degli “insight” (presa di consapevolezza) rispetto ai processi di cambiamento.

BIOGRAFIA:

  • Chadwick P., Kaur H., Swelam M., Ross S., Ellett L. (2011). Experience of mindfulness in people with bipolar disorder: A qualitative study. Psychotherapy Research. 21(3). pp. 277-285.
  • http://www.tandfonline.com/doi/ref/10.1080/10503307.2011.565487

Gli indignati di Wall Street non convincono. Ma la colpa è solo degli americani

Questo articolo è pubblicato su affaritaliani.it il giorno 3-10-2011

english © asiln - Fotolia.comLe notizie dagli Stati Uniti lasciano perplessi. Le agitazioni degli indignati davanti Wall Street. Il presidente Obama pessimista sulla sua rielezione per la crisi economica. La crisi stessa. Insomma, concluso il grande periodo di sviluppo economico da Reagan a Clinton, l’esplosione finale con Bush jr. sembra aver lasciato macerie. Eppure questo quadro depressivo non è esauriente. L’egemonia culturale americana e anglo-sassone continua la sua marcia. Marcia a volte inclusiva e accogliente, altre volte arrogante.  Leggendo, ad esempio, le ultime righe di un articolo di Simon Kuper sul Financial TimesContinua a leggere su Affari Italiani.

L’opinione: faticate, studiate!

Questo journal vuole incoraggiare l’espressione delle idee dei giovani psicologi e psichiatri italiani, troppo spesso un po’ riservati. Per questo volentieri pubblichiamo questo piccolo pensiero della nostra redattrice. Lo pubblichiamo così come è, fresco di forno senza revisioni.

student - © Laurence Gough - Fotolia.comLavorando da diversi anni nelle scuole e vedendo molti bambini, all’inizio di questo anno scolastico qualcosa mi ha colpito più del solito e, da psicologa, mi ha fatto riflettere. Noto, infatti, che sta diventando sempre più richiesto il cosiddetto “modulo” introdotto dal ministro Gelmini e che consiste nella possibilità del genitore di scegliere per i propri figli iscritti alla scuola elementare 27 ore settimanali invece delle tradizionali 40. Senza entrare nel merito della riforma, ciò che mi spinge a pensare sono le motivazioni della maggior parte dei genitori nel scegliere questa possibilità invece che quella classica: “40 ore sono tante, poi si arriva a casa stanchi”, “tanto io non lavoro e posso preparare il pranzo, quello della mensa non piace a mio figlio e poi posso seguirlo io nei compiti”, “mio figlio non è neanche andato alla scuola materna e preferisco tenerlo a casa il pomeriggio, così si riposa” e così via. Insomma, ho l’impressione che più passi il tempo più si stia diffondendo nella nostra società un senso di “iper-tutela” dei bambini, che io chiamerei piuttosto iper-protezione da tutto ciò che è fatica, lavoro, studio, sacrificio. Mi ricordo la mia maestra delle elementari che ci ripeteva come la scuola fosse una palestra di vita, che tutto ciò che si impara a scuola è un allenamento a ciò che poi si va incontro nella vita, e forse anche di più, perché ciò che incontri a scuola magari non lo incontrerai più nel corso della vita.

Questa osservazione mi riporta indietro a qualche mese fa, quando mi trovavo a Boston proprio in concomitanza dell’inizio dell’anno accademico e ciò ho visto erano strade e atenei colmi di asiatici, gli studenti che stavano per iniziare l’università. E trovandomi lì ho pensato che è proprio vero che i cinesi ci stanno superando. In America, per entrare in università, occorre passare dei severissimi esami di ammissione e avere frequentato determinate scuole superiori uscendone con voti brillanti. È possibile quindi che gli asiatici siano tutti più intelligenti di noi? Credo che la risposta vada cercata altrove. I cinesi studiano tantissimo, parlano un inglese eccellente e si preparano al meglio, vincendo su chi è meno preparato ma soprattutto meno motivato a farcela. La famiglia orientale tramanda ai figli il senso del dovere e del sacrificio, la rinuncia al gioco e allo svago in favore del lavoro duro. Tutte cose molto lontane dal modo occidentale di crescere i figli, ma che dovrebbero farci riflettere criticamente, non solo perché le cosiddette tigri d’oriente stanno prendendo i posti migliori nelle università e nel mondo del lavoro, ma anche perché, come dice Sandra Sassaroli nel post “La depressione e il dolore”, concentrandoci troppo sulla felicità dei nostri figli e sulla loro protezione, ci dimentichiamo di insegnargli che cosa sia il dolore, la fatica, l’insoddisfazione.

Sabato 01-10-2011

rassegna stampaVuoi mangiare meno? Usa la mano non dominante! Anche mangiare è una questione di abitudine, basti pensare all’associazione pop-corn e cinema. Un nuovo studio di David Neal e colleghi, pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin e riportato da Research Digest, ha evidenziato come durante la proiezione di un film  anche i consumatori abituali di pop-corn, se veniva loro indicato di utilizzare la loro mano non dominante (ad esempio, la mano sinistra per i destrimani), effettivamente mostravano un minor consumo di pop-corns rispetto a quando veniva loro indicato di utilizzare la mano dominante. In questo senso, quindi l’impedimento dell’esecuzione automatica di un’abitudine alimentare, manipolato a livello sperimentale, avrebbe evidenziato automatismi del comportamento alimentare legati all’abitudine indipendentemente da piacere e dalla fame!

 

Twitter rivela i cambiamenti d’umore delle persone durante l’arco della giornata: Science pubblica un interessante studio condotto da ricercatori della Cornell University, che ha visto l’impiego di twitter come “database” da cui estrarre dati utili in relazione ai cambiamenti di umore e stati emotivi espressi da ben 2.5 milioni di utenti nei loro Tweets. I ricercatori hanno analizzato ben 509 milioni di Tweets in 84 nazioni per un periodo di tempo di 24 mesi. I risultati? La maggior parte di noi, in tutto il mondo, presenta un picco di buon umore nelle prime due ore della giornata e, ovvio per la psicologia del senso comune, migliore nel week-end: dimostrato, anche se con inevitabili limiti metodologici, anche da un punto di vista scientifico.

 

Gli smartphones rivoluzionano il modo di fare ricerca nelle scienze psicologiche: ancora tecnologia e il suo impatto sui nostri processi cognitivi, emotivi e comportamentali. Questa volta è nel mirino proprio la ricerca in psicologia: i nuovi telefoni cellulari, altrimenti conosciuti come smartphones, regalano opportunità di ricerca solo dieci anni fa impensabili: invece di “rinchiudere” i poveri soggetti sperimentali in angusti laboratori di psicologia per studiarne i processi mentali, i ricercatori della Royal Holloway University of London hanno lanciato un’applicazione free per iPhone e iPad, chiamata “Science XL:Test your word power”. Considerando che la stima del numero di utenti di iPhone nel 2013 in tutto il mondo superi 1 miliardo, le potenzialità offerte dall’utilizzo di tali dispositivi per gli esperimenti psicologici sono enormi soprattutto in termini di numero dei campioni sperimentali.

 

Le persone che si imbarazzano facilmente sono anche le più affidabili. Uno studio condotto presso la University of California e pubblicato questo mese su Journal of Personality and Social Psychology suggerisce che un moderato grado di imbarazzo, un’emozione sociale che non va confusa con la vergogna, potrebbe essere una cosa buona poiché suggerisce come il soggetto in esame possa avere una maggiore probabilità di essere più affidabile e generosa! Il caro vecchio imbarazzo, quindi, non per forza va considerato un nemico nelle nostre relazioni interpersonali.

 

Prime evidenze del legame tra tendenza a iper-interpretare le situazioni sociali e disturbi di personalità negli adolescenti. Uno studio pubblicato su  Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, che ha incluso111 adolescenti, ha fornito per la prima volta evidenze empiriche che supportino l’associazione tra tratti  tipici del disturbo di personalità borderline e la tendenza a “ipermentalizzare” le relazioni interpersonali, ovvero a eccedere in inferenze e attribuzioni di stati interni per comprendere e predire il comportamento degli altri. Leggi l’articolo pubblicato dalla University of Houston.

Your first day of school will be scary!

Parents’ words and anxiety disorders – part 2

kid preoccupation © Mike Kiev - Fotolia.comIn part one of this series I briefly discussed the onset, prevalence, severity and course of anxiety disorders. I also highlighted some parental behaviors that are thought to encourage the development of shy and anxious behavior in children. In part 2 of this series I am discussing the thoughts that anxious parents may have regarding their own ability to manage social situations as well as their thoughts of their children’s ability.

Highly anxious individuals tend to think of unfamiliar situations as more threatening than individuals with low levels of anxiety(Eysenck, MacLeod & Mathews, 1987). Applying this, researchers have investigated mothers’ thoughts and expectations of their children’s hypothetical performance in unfamiliar situations. Interestingly, these studies have shown that in the context of anxiety, mothers think their children will be worried and have more negative expectations of their children’s performance. Mothers also expect their children to be more vulnerable (Creswell et al. 2008). While these findings regarding mothers’ thoughts are interesting, do anxious children have similar thoughts and expectations of their own ability? The answer appears to be yes. Compared to non-anxious children, anxious children have thoughts containing higher levels of threat and more negative feelings regarding these types of situations. Anxious children also estimate that they have a lower capacity to cope with these unfamiliar situations compared to non-anxious children. However, the mental state of parents was not investigated in this study (Muris, Luermans, Merkelbach & Mayer, 2000).

While these findings are interesting, perhaps the most influential studies have shown those mothers’ threat interpretations and distressful thoughts are strongly associated with their children’s thoughts. Mothers’ threatening thoughts were also found to have an impact on their children’s thoughts over an extended period of time. It also appears that an increase in mothers’ threat interpretations is associated with their children paying greater attention to threat in their own environment (Creswell, O’Connor & Brewin, 2006)

So what does all this mean? Well, it appears that anxious mothers and children are both interpreting unknown situations in a similarly anxious manor. But are these anxious thoughts communicated between mothers and their children? For the next part of this series, I will discuss the effect of anxiety on family discussions.

BIBLIOGRAPHY:

  • Eysenck, M. W., MacLeod, C., & Mathews, A. (1987). Cognitive functioning and anxiety. Psychological Research, 49, 189 – 195.
  • Creswell, C., O’Connor T. G., & Brewin, C. R. (2008). The impact of parents’ expectations on parenting behaviour: An experimental investigation. Behaviour and Cognitive Psychotherapy, 36, 483 – 490.
  • Creswell, C., O’Connor T. G., Brewin, C. R. (2006). A longitudinal investigation of maternal and child „anxious cognitions’. Cognitive Therapy and Research, 30, 135 – 147.
  • Muris, P., Luermans, J., Merckelbach, H., & Mayer, B. (2000). ‘Danger is lurking everywhere’. The relation between anxiety and threat perception abnormalities in normal children. Journal of Behavior Therapy & Experimental Psychiatry, 31, 123 – 136.


La depressione e il dolore

mountain bridge © Bato - Fotolia.comQualche settimana fa ho letto una notizia. Un ragazzo di 16 anni si butta da un ponte sulla Dora, un volo di 50 metri e muore. La sua ragazza lo aveva lasciato. La giornalista ci spiega che non ce l’ha fatta a superare il dolore, che era triste, che non sorrideva più. Storia dolorosa, che ci colpisce tutti. Che ci fa riflettere, a noi psicoterapisti. Ci vengono in mente due cose. La prima, dura, sulla depressione. Forse il ragazzino era vulnerabile geneticamente alla tristezza e alla depressione e al primo grande stress, non ce l’ha fatta. Non si poteva fare nulla, un esordio depressivo, difficile da riconoscere in anticipo. Ma questa riflessione ci lascia freddi, è troppo fatalista e troppo descrittiva. Non ci dice nulla.

Ci vengono in mente altri pensieri. In fondo la parte sostanziale del nostro lavoro quotidiano sta proprio nella tristezza e nell’ansia e nell’insegnare ai nostri pazienti che non dobbiamo fuggire dalle emozioni troppo dolorose ma fidarci che esse sono adatte a noi e che da sempre siamo fatti per caderci dentro per poi uscirne.

Mi viene in mente un articolo che ho letto ieri sulla New York Review of Books. Amy Chua:Battle Hymn of the Tiger Mother. Un libro scritto da una madre cinese dura e perfezionista sul metodo educativo che ha usato per le sue figlie. La Chua trova che l’educazione occidentale moderna indebolisca i figli con una esagerata attenzione alla loro felicità, mentre sostiene che in Cina i figli vengono educati alla durezza della vita e alla preparazione ad ottenere il massimo delle loro potenzialità. Non tenendo in alcun conto le loro emozioni di pigrizia, stanchezza e desiderio di fare altro.

Questo mi ha fatto pensare al nostro atteggiamento in Europa con i figli. Li proteggiamo troppo dal dolore? Li sogniamo felici e soddisfatti? Ci dimentichiamo di insegnargli per troppa protezione e amore, che l’accettazione del dolore è il punto  cruciale che ci rende atti alla vita? Le emozioni di dolore non sono mai troppe, non dobbiamo mai pensare che siano troppo per noi, sono ineluttabili e sta a noi scegliere di attraversarle.

Chiudo con George Steiner, e con il suo libro sulla morte della tragedia. Steiner sostiene che la nostra società ha inventato il lieto fine e che poche società nel passato sono state capaci di fronteggiare in modo duro e netto il tema della tragedia dell’essere vivi. Impariamo noi stessi e insegniamo ai nostri pazienti a fronteggiare le tragedia sapendo che sono costruite per noi. E che noi siamo fatti per caderci dentro, sopravvivere, e guardare avanti.

La cura per l’asma: le montagne russe.

rollercoaster_© Gabriele Prandini - Fotolia.comDue olandesi, Simon Rietveld e Ilja van Beest, hanno scoperto che i sintomi dell’asma possono essere trattati facendo un giro sulle montagne russe. Pensate possa essere uno scherzo? Ebbene, questa affermazione è il risultato di una ricerca sperimentale eseguita su 25 donne affette da asma severa e, ovviamente, un gruppo controllo di 15 soggetti sani. Il seguente lavoro è stato finanziato da ben due organismi, la Netherlands Asthma Foundation e la Netherlands Organization for Scientific Research, che stressavano i soggetti, partecipanti alla sperimentazione, attraverso la realizzazione di ripetuti giri sulle montagne russe. I risultati hanno mostrato che lo stress emotivo negativo e la pressione sanguigna raggiungevano il loro picco poco prima della corsa sulle montagne russe, mentre subito dopo aver cominciato il giro lo stress emotivo positivo e la frequenza cardiaca raggiungevano un picco positivo.

Inoltre, la dispnea nelle donne con asma era superiore poco prima della corsa rispetto a quando erano nel vortice della giostra. Questo fenomeno veniva rilevato anche nei soggetti in cui vi era una riduzione della funzione polmonare, indotta proprio dalle montagne russe. Gli autori, dunque, concludevano che i soggetti affetti da asma cronica se stressati e stimolati tendono a percepire in termini di associazioni familiari, note, acquisite, la dispnea a stati d’animo positivi o negativi, favorendo o una sotto-percezione o una sovra-percezione della dispnea, a seconda della valenza emotiva esperita in una situazione specifica. Tradotto in parole semplici: se a un asmatico piacciono le montagne russe, tutto il suo corpo si dimentica della sua dispnea. Tutto ciò suggerisce una possibile soluzione anche per tutti coloro che sperimentano dispnea per problemi dovuti all’ansia. Allora, montagne russe per tutti!

BIBLIOGRAFIA:

  • Rietveld S, van Beest I. (2007). Rollercoaster asthma: when positive emotional stress interferes with dyspnea perception. Behaviour Research Therapy, 45, 977-87.

Il cambiamento: possiamo prenderla con filosofia? – Viva tutto! Di Bolelli e Cherubini

Il modo migliore per comprendere un libro dal titolo un po’ indecifrabile è leggerlo. Anzi, parlarne con l’autore. E’ quanto accaduto ad un piccolo sodalizio di ricerca culturale di Studi Cognitivi composto da Elena Malgrati e dal sottoscritto. Il libro è “Viva tutto!” (2010) di Franco Bolelli e Lorenzo Cherubini, meglio noto come Jovanotti, e ripercorre un lungo scambio di idee che i due hanno intavolato attraverso lettere, mail e conversazioni vis à vis.
Cambiamento © Orlando Florin Rosu - Fotolia.com

 

 

 

 

Franco Bolelli è un filosofo che si occupa di innovazione culturale, nuove modalità di comunicazione, potenzialità del progresso umano. Si tratta di un libro molto stimolante, nel quale lo sguardo più fanciullesco di Jovanotti si incontra con le consapevolezze talvolta disincantate di uno studioso dell’animo umano. Il titolo è stato il primo argomento di dibattito tra me ed Elena Malgrati; come possiamo intendere “Viva tutto!”, specie se consideriamo le molteplici esperienze negative che l’uomo nella propria individualità e l’umanità nel complesso della storia vivono e hanno attraversato? Si tratta di un’espressione ingenua che mira a promuovere un libro o c’è qualcosa di più? Curiosi di appurarlo e motivati dalla presenza nel testo di numerosi spunti che potevano interessare anche la nostra pratica clinica, ci siamo confrontati con Franco Bolelli ricevendone l’impulso definitivo a scrivere un articolo che sarà pubblicato sui “Quaderni” Sitcc. “Viva tutto!” è la sintesi di alcune indicazioni molto preziose per la terapia cognitiva, che in parte abbiamo accostato al sassaroliano “ogni cosa è per noi”. L’esperienza umana contiene in sé una spinta propulsiva alla vita che all’interno di un setting clinico possiamo identificare con le risorse attuali e potenziali del paziente. Chi chiede il nostro aiuto sperimenta una condizione in cui le possibilità evolutive sono bloccate da credenze disfunzionali, costrutti rigidi, modalità di relazione interpersonale che organizzano i vissuti attorno a bisogni e scopi che il soggetto non riesce né a gestire emotivamente né a modificare in maniera strategica.

La terapia accresce la consapevolezza dei processi, le capacità autoriflessive e questo può determinare un progresso positivo nel funzionamento psicologico, ma un cambiamento sostanziale richiede che il lavoro clinico raggiunga in profondità le potenzialità creative, ristrutturanti dell’individuo. Ci riferiamo non solo a ciò che egli mostra di saper fare nel presente, ma anche ai percorsi che potrebbe intraprendere abbandonando la rigida protezione delle proprie certezze ed esplorando alternative innovative.

La psicoterapia, cogliendo e validando la sofferenza del paziente nel prendere distanza da schemi patologici divenuti per lui una base sicura, si differenzia da alcuni orientamenti di pensiero più recenti che conferiscono alle abilità individuali un potere curativo pressoché assoluto, sottostimando il peso degli ostacoli ambientali e della storia personale. “Viva tutto!” e le convinzioni di Franco Bolelli coniugano la fiducia nell’homo faber suae fortunae ad un’attenzione verso le difficoltà poste da nuove esigenze di adattamento al contesto di vita, parallele alla formazione di una realtà sociale caotica, aggressiva e spesso incapace di ancorare le relazioni a valori condivisi. La possibilità di una scelta autonoma in grado di superare e integrare la sofferenza ci fa pensare a tante situazioni cliniche incontrate; la nascita, nella vita del paziente, di uno scenario evolutivo che non sia solo la somma delle parti che egli è riuscito razionalmente a legare, ma anche e soprattutto il risultato di un’originale scoperta di sé, costituisce il reale obiettivo della psicoterapia e pone presupposti affascinanti per un dialogo tra essa ed altre discipline, in particolare la filosofia.

Mercoledì 28-09-2011


Fonte: Plos ONELa percezione dell’appartenenza etnica varia in funzione dei vestiti indossati.
Un nuovo studio pubblicato lunedi su PLoS ONE evidenzia come indizi relativi a un certo status sociale, ad esempio il vestiario indossato da una persona, influenzino la percezione dell’appartenenza etnica. I ricercatori hanno presentato ai soggetti sperimentali alcuni visi computerizzati, ambigui dal punto di vista della pigmentazione della pelle, presentati a mezzo busto e vestiti rispettivamente in giacca e cravatta oppure in tenuta da guardiano; hanno quindi chiesto loro di determinarne l’appartenenza etnica di tali visi. Dai risultati è emerso che, a parità di pigmentazione della pelle dei volti presentati, quelli in giacca e cravatta avevano più probabilità di essere valutati come caucasici “bianchi”, al contrario di quelli in tenuta da guardiano che venivano più facilmente valutati come afroamericani.

Estetica & Neuroscienze. L’estetica è un concetto sviluppato dalla filosofia dell’arte nel diciottesimo secolo. Teoricamente l’apprezzamento estetico deriverebbe da processi diversi da quelli coinvolti nella valutazione degli oggetti ordinari. Nuove ricerche nel campo della biologia evoluzionistica e delle neuroscienze stanno ora rovesciando questo paradigma di divisione tra ciò che è arte e ciò che non lo è. Dall’utilizzo delle mappature di neuroimaging risulta evidente che le stesse aree attivate nell’apprezzamento estetico di un quadro sono in funzione nel determinare se una fetta di torta è o meno appetibile. Trovate i risultati della ricerca su Scientific American.

Autocontrollo, cibi grassi e funzione esecutiva. Uno studio coordinato da Peter Hall, direttore del Health Behavior Research Lab – University of Waterloo sottolinea il ruolo rilevante della funzione esecutiva nel moderarsi rispetto al consumo di cibi grassi. I dati raccolti su 208 adulti sottoposti a specifici compiti sperimentali per valutare la funzione esecutiva, evidenziano una correlazione negativa tra prestazioni ottimali in tali tasks e consumo di cibi ad alto contenuto di grassi; d’altro canto coloro che avevano prestazioni più scadenti presentavano anche un maggiore consumo di tali cibi.

La caffeina riduce il rischio di depressione nelle donne? Le donne che bevono almeno due tazze di caffè al giorno sarebbero meno a rischio di sviluppare sintomi depressivi. Lo suggerisce una ricerca pubblicata su Archives of Internal Medicine, e riportata anche da BBC News, che ha coinvolto più di 50.000 donne americane. Gli esperti ad ogni modo riconoscono che tale studio debba essere approfondito soprattutto per comprendere i meccanismi che porterebbero a tale riduzione del rischio di depressione. Quindi, donne è troppo presto per concedersi caffè a scopi preventivi…

Menti più veloci, teenagers più intelligenti. Gli adolescenti diventerebbero più intelligenti poiché le loro menti sarebbero sempre più veloci. Questa è una delle conclusioni cui è giunto un gruppo di studiosi della University of Texas, a San Antonio. Lo studio verrà pubblicato nella prossima edizione di Psychological Science. I ricercatori per identificare la correlazione positiva tra intelligenza e velocità mentale hanno analizzato i risultati di 12 diversi test di intelligenza e di velocità mentale somministrati a 6,969 adolescenti nel 1997 all’interno del National Longitudinal Survey of Youth.

 

Control and perceived criticism in eating disorders

Control and perceived criticism in eating disorders: their psychopathological role and significance for treatment Sandra Sassaroli+, Giovanni M. Ruggiero° + Studi Cognitivi, Post-graduate cognitive psychotherapy school, Foro Buonaparte 57, 20121 Milano;

Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Post-graduate cognitive psychotherapy school, Foro Buonaparte 57, 20121 Milano

La felicità è negli occhi di chi guarda

Gli sguardi o la loro assenza possono discriminare gli stati d’animo.

Sad eyes © Konstantin Sutyagin - Fotolia.comBruce Springsteen cantava “gli occhi tristi non mentono mai”, uno studio sembra confermare che di certo sono “sfuggenti”. J.Hills e Michael B. Lewis, due ricercatori, rispettivamente, della Ruskin University di Cambridge e della Cardiff University, hanno confermato quanto aveva già suggerito, nel 1982, uno psicologo di Stanford, il professor I.H. Gotlib, ovvero che le persone depresse tendono ad evitare di guardare l’altro negli occhi.

L’esperimento che hanno condotto i due studiosi consisteva nel far ascoltare a 36 partecipanti, divisi in tre gruppi, tre tipi di musica diversi: una allegra, la siglia di A-Team, una triste, il Requiem di Mozart e una riconosciuta come neutra, il tema musicale di “Caccia ad Ottobre Rosso”, con lo scopo di indurre nei soggetti uno stato emotivo rispettivamente a valenza positiva, negativa o neutra.

Successivamente veniva testata la capacità dei soggetti di trovare delle piccole modifiche realizzate al computer sui dettagli di immagini raffiguranti volti. L’esperimento ha permesso ai ricercatori di appurare le differenze nel processo di riconoscimento delle espressioni facciali influenzato dallo stato emotivo dei soggetti, basandosi su quali zone del volto i tre gruppi focalizzavano maggiormente la loro attenzione.

I partecipanti che avevano ascoltato la musica allegra si focalizzavano per un tempo significativamente maggiore sugli occhi, non solo rispetto ai soggetti “tristi”, ma anche al gruppo di controllo.

Che la capacità di riconoscere le espressioni del volto giocasse un ruolo importante nelle interazioni sociali era noto da tempo. Ciò che di nuovo suggerisce l’esito di questo studio è che uno stato emotivo più positivo, dato per esempio dall’ascoltare una musica allegra, può avere implicazioni sulle modalità con cui focalizziamo la nostra attenzione nel riconoscere le emozioni dal volto degli altri e quindi anche sul modo di vivere le interazioni e le relazioni con gli altri.

Biografia:

  • Hills P. J., Lewis M. B. (2010). “Sad people avoid the eyes or happy people focus on the eyes? Mood induction affects facial feature discrimination“. British Journal of Psychology (2011), 102, 260–274.
  • Gotlib, I. H. (1982). “Self-reinforcement and depression in interpersonal interaction: The role of performance level“. Journal of Abnormal Psychology, 93, 19–30. doi:10.1037/0021-843X.93.1.19

Come la mente reagisce ai “non luoghi”

Restaurant scene - © Adrian Hillman - Fotolia.comLa notizia del suicidio di una donna in un locale di Torino, unita all’annotazione che gli avventori hanno continuato a consumare i cocktail, ci fa riflettere su come la nostra mente -e il nostro cuore- reagiscono alle circostanze e alle situazioni. Continua a leggere su Affari Italiani.

EDRS 2011: Le neuroscienze all’assalto dei disturbi alimentari

Edimburgh - Licenza d'uso: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons“Il rischio di contrarre anoressia nervosa aumenta in individui col gene 5-HTTLPR-S/S che ricevono l’allele MAOA-L da madri MAOA-S/L”. Quando ho sentito questa frase, ascoltando la sessione plenaria di Kenneth Nunn, neuropsichiatra infantile australiano appassionato di disturbi alimentari e della nuova neuroscienza del cervello, una frase mi ha schiaffeggiato la mente: “che ci faccio qui?”

Che ci faccio qui? Sono a Edimburgo, al congresso della EDRS (Eating Disorders Research Society). È il terzo congresso che mi concedo in un mese, e comincio a pensare che forse ho esagerato. D’accordo, il dovere e il piacere di tenersi aggiornati, ma mi chiedo quanto sia sano collezionare congressi con la stessa inesorabile costanza con cui il nostro primo ministro colleziona avventure boccaccesche e intercettazioni.

E invece il congresso è molto interessante, anche se non c’è quasi nulla di cognitivo. La plenaria è militarmente occupata da una banda di psichiatri seguaci delle neuroscienze: Brian Lask, Kenneth Nunn, Mark Rose e Ian Frampton. Uno dopo l’altro i quattro presentano un modello intregrato neurologico e psicologico dei disturbi alimentari. La mente direttiva del gruppo è evidentemente Nunn, uno studioso che da anni approfondisce la mappatura delle funzioni psicologiche delle varie zone del cervello, dando un contributo forte al nuovo paradigma connessionista della mente/cervello che ha sostituito il vecchio modello computazionalista della mente, quello per intenderci su cui noi terapeuti cognitivi abbiamo campato per un paio di decenni. Campato un po’ di rendita a volte, la rendita di chi poteva automaticamente auto-attribuirsi il titolo di psicoterapeuta scientificamente corretto e ammodo grazie alla parentela con i cugini scienziati cognitivi puri della mente, tutti più o meno computazionalisti (cioè seguaci del modello scopi-credenze; insomma come noi terapeuti, ma a un livello di sofisticazione più alto).

Ma torniamo ai neuroscienziati di Edimburgo. Il modello di Nunn non è poi particolarmente rivoluzionario. Dice delle cose che noi terapeuti cognitivi avevamo un po’ detto: che il disturbo alimentare è una forma di ansia. Questo è il principio di partenza.

Ma naturalmente per Nunn l’ansia non è una credenza cognitiva, o non è solo una credenza cognitiva, ma è una funzione neurocognitiva stanziata nell’amigdala. La domanda successiva che si pone Nunn è: perché questa focalizzazione dell’ansia sul controllo del cibo e dell’aspetto corporeo? La risposta che egli da non è cognitiva, ma neurocognitiva: perché risulterebbero disturbate anche funzioni  e zone cerebrali specifiche che controllano la rappresentazione e la definizione di sé in termini sia sociali che dell’aspetto corporeo. Inoltre sarebbero disturbati anche centri neurologici più primitivi come quello del controllo della fame e della percezione viscerale. Insomma l’anoressia è uno stato di allarme ansioso che verso l’alto, cognitivamente, genera timori e inadeguatezze sociali e verso il basso difficoltà e confusioni nella rappresentazione e percezione del corpo, della fame e della sazietà e in generale delle percezioni corporee, ricevute a livello centrale in forma di esperienze terrificanti e traumatiche.

Questa ipotesi viene ripetuta per quasi tutto il congresso da vari studiosi, tutti portando dati di neuro-imaging, livelli ormonali, attivazione cerebrale e genetica. Una vera e propria ondata neuroscientifica invade il congresso. Per esempio Favaro e Santonastaso, autori di uno degli studi più ammirati, portano dati che dimostrano l’attivazione alterata di non so quali vie cerebrali dorsali e ventrali, alterazioni che dimostrano come le anoressiche abbiano dei gravi deficit nella valutazione nel tempo presente della loro forma corporea. Invece l’iperattivazione di altre vie dimostrerebbe che la rappresentazione del corpo rimarrebbe fissata in una informazione a lungo termine del passato, la situazione di partenza in cui erano cicciottelle prima di ammalarsi. Insomma queste si vedono sempre grasse.

Riassumendo, l’ipotesi cognitiva del disturbo alimentare come variante dell’ansia sociale e dell’ossessività resiste, ma le neuroscienze portano una serie di dati che sottolineano anche l’importanza dei disturbi dei centri neurali della rappresentazione corporea e della percezione viscerale. Dall’incontro dei due disturbi, cognitivo ansioso e neurologico percettivo, scaturirebbe il disturbo alimentare.

Il definitivo trionfo di questa ipotesi è stato suggellato dal prestigiosissimo nome di Baron-Cohen, il famoso neuroscienziato, che ha portato dati a favore dell’esistenza di stati autistici nell’anoressia, difficoltà di elaborazione dell’informazione sociale a livello viscerale che si trasformano in stati emotivi terrificanti che la paziente anoressica poi controlla concentrandosi su un dato numerico, il peso del corpo. L’autismo faciliterebbe la tendenza a focalizzarsi su informazioni quantitative piuttosto che qualitative e viscerali, meno prevedibili. Ma al tempo stesso queste informazioni quantitative in qualche modo e metaforicamente alluderebbero alle paure di tipo sociale e viscerale che tormentano l’anoressica.

E la terapia? Le proposte sono essenzialmente due: ancora una volta la mindfulness (ebbene si, sta diventando un’ossessione e una panacea) e la cosiddetta “cognitive remediation therapy” di Kate Tchanturia.

La mindfulness è citata con frequenza ma un po’ genericamente. A domanda specifica: “si, ma di quale mindfulness si parla?” molti hanno risposto citando il protocollo della Linehan adattato ai disturbi alimentari. E basta, senza poi approfondire troppo l’argomento.

Passando alla cognitive remediation therapy (CRT), questo è un protocollo ideato da Kate Tchanturia, terapeuta che lavora a Londra nel gruppo di Janet Treasure. Il nocciolo dell’idea è che i disturbi cognitivi dell’anoressia vadano affrontati non al livello dei contenuti cognitivi, la paura di ingrassare, il perfezionismo o il senso d’inadeguatezza, ma a livello dei processi, rieducando la paziente a ragionare in maniera meno ristretta e autistica e più globale e flessibile, attraverso un vero e proprio addestramento cognitivo che somiglia più a un apprendimento che a una terapia.

E la terapia cognitiva standard? Fairburn ha brillato non solo per la sua assenza, ma anche per il fatto che nessuno si è accorto della sua assenza. Il che è più grave. La terapia cognitiva standard per i disturbi alimentari non è morta, ma le si conferisce il rispetto che si tributa a una vecchia amica che non ha però nulla di nuovo da dire. Nessuno mette in discussione che rimanga il trattamento di elezione per la bulimia non complicata da disturbo di personalità. Ma ormai per l’anoressia e per la bulimia complicata l’orientamento è verso la mindfulness o la CRT della Tchanturia. C’è da sottolineare una cosa: in un ambiente non cognitivo come la EDRS nessuno si sogna di definire queste nuove terapie come trattamenti cognitivi di terza ondata. No, semplicemente sono nuove terapie, senza sottolineare troppo l’aggettivo cognitivo, anche nel caso della CRT.

Tutto questo, credo, è un preciso messaggio per noi terapeuti cognitivi. Ormai la sensazione generale è che il lavoro sulle credenze cognitive sia ritenuto esaurito. Molti al di fuori del campo cognitivo sono disposti a riconoscerne l’importanza, ma pochi si aspettano qualcosa di nuovo da lì.

Si tratta di uno sviluppo che è parallelo nel campo delle scienze cognitive al superamento del modello computazionale classico, quello per intenderci che riteneva di poter descrivere l’intera attività mentale in termini di  algoritmi informativi perfettamente rappresentabili nel campo di coscienza: insomma le credenze.  La riscoperta del cervello va in parallelo con la scoperta dei limiti di padronanza, di mastery, della conoscenza esplicita sugli stati mentali e corporei. Si valorizzano invece stati mentali non compiutamente rappresentazionali, ma di tipo motorio-viscerale ed emotivo. Il che, in parole semplici, significa soprattutto terapie al tempo stesso più esperienziali, più meditative e più comportamentali.

Insomma, cose non troppo diverse dalla terza ondata cognitiva. Ma va ripetuto: con una differenza. Che questi neuropsichiatri non sono cognitivisti. O non lo sono particolarmente. E quindi non sono disposti a chiamare “terza ondata cognitiva” queste nuove terapie. Anzi, quando si tratta di parlare di stati emotivi intensi e vividi, un po’ come fa Young nel campo cognitivo, questi neuropsichiatri non esitano a denominare quelle tecniche con il termine “tecniche psicodinamiche”. Attenzione quindi a ciò che sta accadendo. La relazione speciale tra terapia cognitiva e scienza cognitiva della mente è finita. Ora c’è questa nuova neuroscienza della mente/cervello, che a quanto pare non riserva trattamenti di favore alla terapia cognitiva rispetto ad altre terapie.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011

Kernberg & Clarkin - Padova 2011L’occasione è ghiotta, Clarkin e Kernberg con la TFP (Transference Focused Psychotherapy) rappresentano il modello più evoluto, nell’ambito del mondo psicanalitico, per il trattamento dei disturbi gravi. La rilettura del DSM in chiave di alta e bassa intensità borderline, sembra clinicamente intrigante. Kernberg si presenta come la vecchia star, instancabile e pieno di illuminazioni cliniche. Clarkin, il sistematizzatore che si muove sullo sfondo con in mano la ricerca e la diffusione del modello. E’ sempre bello assistere alle sedute che portano con generosità.

Cosa del loro modello può essere realmente utile ad un cognitivista? Innanzitutto la capacità di monitorare, analizzare e gestire in modo fine la relazione con i pazienti. La cura degli aspetti della relazione è minuziosa. Nel mondo cognitivista questo aspetto è ancora di recente acquisizione, abbiamo da imparare. L’esperienza italiana sulla relazione con il paziente deve molto a Giovanni Liotti.

Poi il contratto, esplicito, netto, chiaro. Prima del contratto ci si concentra solo a capire quali siano i modelli relazionali disfunzionali principali, non si interpreta, non si interviene. Solo dopo il contratto si può lavorare all’interpretazione, ma all’interno di un quadro di setting protetto con le unghie e con i denti. Poi il coraggio di avere con i pazienti un assetto collaborativo di fondo ma la capacità di un confronto anche duro, con lo scopo di proteggere in ogni momento gli scopi strategici dell’intervento.

Note curiose: Kernberg nelle sedute chiede sempre al paziente: “cosa pensa?”, qualcuno nel pubblico gli chiede: “perché non ha chiesto anche cosa prova?” Kernberg risponde: “non mi piace chiedere cosa si prova (feelings) perche invito il paziente con questa domanda a un eccessivo allargamento dei significati e questo rende vaga la risposta, in fondo ogni volta che si prova qualcosa si pensa anche e quindi meglio andare sul preciso”. Questo è illuminante per noi cognitivisti che siamo spinti da tutte le parti a vergognarci di chiedere cosa pensi, come se fosse una naturale limitazione del campo di indagine, il segno di una scarsa attenzione alle emozioni. Un vecchio psicanalista ci insegna come essere nuovi cognitivisti.

Kernberg & Sassaroli - Padova 2011
Otto Kernberg e Sandra Sassaroli

Cosa mi manca nel modello Kernberg? Le indagini e gli interventi della TFP si svolgono essenzialmente nell’area delle relazioni oggettuali, l’io e l’altro e il rapporto tra loro. Rimane la fiducia tipicamente psicodinamica nell’idea che la comprensione dei movimenti relazionali che si giocano nel rapporto transferale e controtransferale, bastino e mettano in moto il cambiamento “di per sé”.

Manca allora la fatica (tipicamente cognitivista) a non limitarsi a svelare i conflitti ma aiutare il paziente a pensare, cercare, sperimentare le alternative anche concrete ai nodi patologici e ai comportamenti sintomatici.

Venerdì 23-09-2011

rassegna stampaUomini e donne sono ugualmente collaborativi? I nostri stereotipi e la psicologia del senso comune generalmente ci portano a credere che le donne sarebbero più cooperative degli uomini. Una meta analisi effettuata su più di 50 anni di studi e pubblicata su Psychological Bulletin evidenzia come uomini e donne cooperano in ugual misura se posti in situazioni in cui obiettivi individuali e di gruppo sono in opposizione. Attenzione però: gli uomini sarebbero più cooperativi tra di loro rispetto a quanto non lo siano donne con altre donne! A quali condizioni le donne tenderebbero a collaborare maggiormente rispetto agli uomini? Solo se in gruppo con il sesso opposto!

Ridi che ti passa l’agitazione. Secondo uno studio che è stato presentato ieri presso il National Dementia Research Forum 2011, la cosiddetta “humour therapy” sarebbe efficace tanto quanto gli ampiamente usati farmaci antipsicotici, per la gestione dell’agitazione e dei disturbi comportamentali in pazienti con demenza. SMILE study, così il nome del progetto di ricerca in questione, ha infatti dimostrato una diminuzione dei comportamenti agitati e una flessione del tono dell’umore nei pazienti affetti da demenza non solo durante le 12 settimane del programma di Humor Therapy, ma anche un mantenimento di tali miglioramenti anche a 26 settimane di follow-up.

Disturbo ossessivo-compulsivo: non solo pillole, ma anche parole. Psychiatric News riporta oggi i risultati di una ricerca pubblicata sul Journal of the American Medical Association in cui si illustrano i risultati di un trial clinico effettuato su 124 pazienti pediatrici (età compresa tra i 7 e i 17 anni) con una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). I risultati dopo 12 settimane mostrano come i pazienti sottoposti a una terapia cognitivo-comportamentale affiancata al trattamento farmacologico, abbiano risposto in maniera significativamente più positiva rispetto a quelli  trattati unicamente con i farmaci.

Più responsabilità per le donne, ma…meno sesso. L’aumento di responsabilità nella donna potrebbe portare a un calo dell’attività sessuale. E’ quanto suggerisce uno studio condotto dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. Ad ogni modo, tranquille occidentali: per ora lo studio ha analizzato donne residenti nei paesi dell’Africa Sub-Sahariana, evidenziando come l’aumento di autonomia della donna e maggior responsabilità nelle decisioni della vita familiare possa essere correlato a una diminuzione dell’attività sessuale.

La segregazione di genere a scuola: effetti sulla performance scolastica e stereotipi di genere. Science pubblica in questi giorni un interessante articolo in merito all’ educazione scolastica “separata” per femmine e maschi all’interno di classi omogenee. L’educazione basata sulla segregazione di genere non presenterebbe differenze significative in termini di esiti di apprendimento e performance scolastiche rispetto a programmi scolastici eterogenei dal punto di vista del genere. D’altro canto, secondo Fabes, autore dell’articolo, la separazione di maschi e femmine nei programmi scolastici renderebbe più salienti proprio gli stereotipi di genere.

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