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EABCT 2011: tre impressioni finali

Ruggiero_reykjavikTre impressioni conclusive dal congresso EABCT 2011 e uno  sguardo di saluto a Reykjavik, città di piccole case. Rimane in  mente il primo quarto d’ora di Clark, surreale lezione sul  modello cognitivo della fobia sociale talmente risaputa da rasentare la provocazione e tradire l’affanno di chi teme di  aver già detto in passato quel che aveva da dire e di essersi  ritrovato per caso o per errore ancora sul palco a contemplare  come si possa sopravvivere alla propria vitalità.  Rimane in mente l’assenza della metacognizione di Wells e della ACT di Hayes, saperi clinici che paiono avviarsi verso quelle una di scissioni che speravamo non affliggessero il cognitivismo clinico. E rimane in mente invece la pervasiva presenza della mindfulness, unico sostegno innovativo allo scheletro del cognitivismo standard. Strano destino, il razionalismo cognitivo forte, attivo e consapevole che si sposa a una pratica contemplativa che sembra invece rinnegare ogni aspirazione alla padronanza  mentale attiva. È questo il futuro? Metacognizione e ACT salpano per l’altrove, mentre la mindfulness è l’improbabile sposa orientale del cognitivismo standard. All’EABCT 2011 parrebbe di si.

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Reykjavik si è dimostrata ospitale. Piccola capitale del nord, la sua estate corrisponde a un terso inizio di aprile italiano con qualche crudeltà metereologica. Case basse dipinte di bianco e tutte con giardino come si usa al nord. Una lunga strada costeggiata di pub ospita una vita notturna brilla ma apparentemente priva delle esagerazioni alcoliche di altri paesi freddi. Molti pub avevano una saletta per ballare al piano di sopra salendo le scale, ma con finestre sulla strada che impedivano la claustrofobia di altre discoteche d’occidente. Nel 2012 a Ginevra.

Omega 3, formula per essere (anche) più felici

Omega3 - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/gi/52518258/Che l’olio di fegato di merluzzo facesse bene alla salute ce lo dicevano già i nostri nonni, ma ora la ricerca scientifica ci dice di più: i ben noti Omega 3, oramai venduti sotto forma di integratori alimentari di ogni genere, allevierebbero anche i sintomi depressivi. Ma che cosa sono esattamente queste sostanze e come agiscono sul nostro organismo? Gli Omega 3 non sono altro che catene di grassi polinsaturi essenziali che si trovano prevalentemente in pesci, crostacei, noci e alcuni oli vegetali e che sono indispensabili al mantenimento delle membrane cellulari. Va sottolineato che negli ultimi 150 anni nelle culture occidentali si è assistito a un sostanziale cambiamento nelle abitudini alimentari, ovvero si è andati via via sostituendo grassi polinsaturi derivanti da pesce e verdure con grassi saturi animali e oli di semi, con evidenti conseguenze sul nostro sistema cardiovascolare. Negli ultimi due decenni, però, diversi studi epidemiologici hanno messo in evidenza qualcosa di ancora più ampio, in particolare un effetto che questi Omega 3 avrebbero sui disturbi dell’umore e in particolare sulla depressione. Studi condotti in Islanda, Finlandia e sulle popolazioni circumpolari hanno evidenziato una correlazione inversa tra alimentazione a base di pesce e depressione stagionale. Risultati analoghi vengono pubblicati anche su The Journal of Nutrition, Health & Aging, in cui donne depresse che assumono quotidianamente integratori di Omega 3 mostrano una significativa diminuzione dei sintomi depressivi; anche l’Australian and New Zeland Journal of Psychiatry riporta un articolo in cui il livello di depressione si ridurrebbe addirittura del 50% in persone che assumevano integratori di Omega 3, avendo un effetto del tutto simile al farmaco antidepressivo fluoxetine. Questi risultati sembrano molto promettenti, ma sul come avviene questa connessione tra acidi grassi ed effetto antidepressivo i dati non sono ancora definitivi. A livello neurofisiologico sembrerebbe che tali sostanze favoriscano la diminuzione degli acidi grassi saturi all’interno della membrana cellulare e nel plasma e che aiutino la produzione di determinati enzimi che inibiscono sostanze presenti nel sangue associate allo stato depressivo. Inoltre, la proprietà già note degli Omega 3 di mantenere l’integrità delle membrane cellulari favorirebbe una maggiore fluidità delle sostanze all’interno e all’esterno della cellula e aiuterebbe la metabolizzazione di alcune monoamine implicate nella depressione. Gli acidi polinsaturi, poi, influiscono sul nostro sistema cerebrale incoraggiando la plasticità sinaptica, favorendo la protezione delle cellule cerebrali e facilitando la neurotrasmissione. Studi di brain imaging su pazienti depressi hanno dato supporto a questa ipotesi, mostrando appunto come nel campione di soggetti a cui era stata somministrata una dose elevata di Omega 3 la fluidità delle delle membrane cellulari sia significativamente maggiore rispetto al campione di controllo. Anche se le ricerche in questo ambito sono ancora piuttosto scarse e si tratta di studi correlazionali, le implicazioni cliniche sono già notevoli sia dal punto di vista del trattamento della depressione – e più in generale anche dei disturbi dell’umore – sia dal punto di vista della qualità della vita che possiamo offrire ai nostri pazienti.

Bibliografia:

  • M. Rondanelli, A. Giacosa, A. Opizzi, et al. (2010). Long chain omega 3 polyunsaturated fatty acids supplementation in the treatment of elderly depression: Effects on depressive symptoms, on phospholipids fatty acids profile and on health-related quality of life, The Journal of Nutrition, Health & Aging.
  • Parker G, et al. (2006). Omega-3 Fatty acids and mood disorders, Am J Psychiatry, 163:969–978.

“Amore non è Amore se (non) muta”

amoreDue persone, una coppia, un matrimonio, il nucleo da cui si sviluppa la famiglia, in altre parole l’unità fondamentale della società. Naturale quindi che da sempre lo studio della relazione che nasce tra moglie e marito abbia catturato l’attenzione dei ricercatori con lo scopo di indagare i fattori che rendono quest’unione duratura e, soprattutto, soddisfacente.

Nel corso degli anni sono state proposte differenti “ricette del matrimonio perfetto”, questo perché nel corso della storia i motivi per cui ci si sposa, sono molto cambiati. Un tempo il “matrimonio tradizionale” era un vero e proprio contratto fondato su interessi economici, alleanze politiche e status sociali. Col tempo e lottando contro chi sosteneva che solo il matrimonio tradizionale potesse garantire un unione felice, quest’usanza è decaduta per lasciare il posto al “matrimonio moderno”, ovvero quello basato sui sentimenti. Oggi ben l’80% dei soggetti intervistati sostiene che non potrebbe sposare una persona della quale non fosse innamorato. Così spesso si pensa al matrimonio basato solo sull’amore romantico, come quello che viene rappresentato nei film, dove la coppia si distingue soprattutto su gesti eclatanti, frasi romantiche e tramonti in riva al mare. Ma questi saranno veramente i presupposti per “…e vissero per sempre felici e contenti”? !?

I ricercatori pensano di no. Diversi studi dimostrerebbero come i matrimoni che si basano solo sulla passione siano destinati a fallire molto rapidamente. Con il passare del tempo la soddisfazione della coppia tenda inevitabilmente a diminuire (Van Laningham et al. 2001), a causa di problemi che la coppia non riesce a risolvere ad esempio la mancanza di intimità e di attività condivise o la riduzione dei rapporti sessauli (Rogge & Bradbury 2002). Un altro aspetto che sembrerebbe emergere dalle ricerche è che, contrariamente a quanto si pensa, non sia tanto la presenza di sentimenti negativi a portare alla lunga ad una rottura definitiva, quanto la lenta diminuizione, fino alla scomparsa, di sentimenti “positivi”, pazienza, comprensione, dolcezza e scopi comuni, che permettano ai partner di trovare le motivazioni per superare le difficoltà che si presenteranno.

Proprio a causa di questo andamento discendente dell’amore, affinchè la coppia duri nel tempo, è indispensabile che non si basi solo su un forte amore romantico, ma che a questo si accompagni quello amicale così da permettere, grazie ai sentimenti di vicinanza e alla condivisione di obiettivi e interessi comuni, nuove soluzioni a vecchi problemi (Berscheid 2010).

La domanda di sempre resta ancora però: l’amore eterno esisterà? la risposta sembrerebbe affermativa, ma, a differenza di quanto di quanto affermava Shakespeare in un celebre sonetto: non resta sempre identico a se stesso, ma continua a mutare e a trasformarsi parallelamente ai cambiamenti in chi lo prova.

  • Ellen Berscheid (2010) “Love in the Fourth Dimension”; Annu. Rev. Psychol. 61:1–25
  • Van Laningham J, Johnson DR, Amato P. (2001) “Marital happiness, marital duration, and the U-shaped curve: evidence from a five-wave panel study”. Soc. Forces 79:1313–41
  • Rogge RD, Bradbury TN. (2002) “Developing a multifaceted view of change in relationships”. See Vangelisti et al. 2002, pp. 228–53

EABCT 2011: Sulla ruminazione e oltre

ruminazione

Al congresso EABCT non potevo certo mancare a un simposio sulla ruminazione depressiva. Tra quelli a disposizione scelgo le presentazioni curate da Nick Moberly e colleghi, affiliati all’Università di Exeter e vicini ai lavori teorici e clinici di Ed Watkins e della Rumination-Focused Cognitive Behavioral Therapy. Nutrivo la convinzione di poter trovare quel raro connubio tra ricerca scientifica e pratica clinica. Non mi sono sbagliato. La domanda del simposio era: cosa spinge i pazienti depressi a ruminare in modo così costante e prolungato?  Perché è così difficile smettere? Le risposte certamente stimolanti.

Ricordo a mo’ di premessa che altri studiosi di ruminazione depressiva (Adrian Wells e Costas Papageorgiou) hanno suggerito come il motore del pensiero analitico, ricorrente e negativo abbia sede in alcune regole o convinzioni, più o meno esplicite, ormai radicate nella mente delle persone. Alcune di queste convinzioni sottolineano l’ipotetica utilità del ragionamento astratto: analizzare il mio malessere mi aiuta a capirne le cause, solo se mi analizzo posso uscire da questa condizione, se comprendo il perché le cose succedono posso essere una persona migliore. Altre convinzioni invece sono di tipo negativo: non riesco a smettere di pensarci e di analizzarmi, tutto questo pensare prima o poi appesantirà gli altri e li allontanerà. Regole e credenze malsane sulla ruminazione sarebbero quindi il bersaglio principale delle frecce tecniche del terapeuta.

Dall’altra sponda del fiume cognitivo, Martin e Tesser (1996) pensano che la ruminazione depressiva si attiverebbe qualora scopi e obiettivi personali siano frustrati. Seguendo questa linea teorica, Moberly e collaboratori, descrivono la ruminazione come diretta conseguenza (naturalmente controproducente) di un eccessivo attaccamento ai propri scopi, sia legati al momento presente, che di tipo esistenziale. Sappiamo che la tristezza serve all’uomo per riorganizzare i propri scopi e le proprie scelte a fronte di una perdita o di un fallimento. Ma cosa succede se la persona non è disposta a cambiare i propri scopi? Resta attaccata a ciò che ha perso (es: una persona cara, ma anche un lavoro) o all’ideale che vorrebbe raggiungere (es: diventare una rockstar ricca e famosa).

La tristezza e la depressione sono così il limite della perseveranza, cioè il confine oltre il quale ‘perseverare’ assume una valenza negativa e deleteria per il benessere emotivo. Invece alcune persone non riconoscono il valore e il ruolo della tristezza e non accettano di lasciare andare qualcosa a cui s’erano profondamente legati, fosse anche un desiderio. A loro non resterebbe che perdersi nei meandri della ruminazione.  In fondo l’ambizione che paga diventa nota agli occhi dei più, ma quanto è estesa per esempio l’ambizione che non paga? La ruminazione è un rifugio d’emergenza, ci illude di fare qualcosa mentre stiamo solo pensando. Ci fa sentire ancora attaccati a uno scopo che in realtà non è raggiunto. Ci porta sollievo dal dolore che comporta rinunciarvi completamente.  In sintesi, quando la tristezza è intensa e lo scopo irrecuperabile o lo abbandoni o ti ci attacchi con il pensiero, poiché non esistono altre azioni concrete da svolgere.

La linea terapeutica diventa quindi quella di salire oltre il gradino dei processi immediati, il qui e ora, il nucleare. Occorre salire e toccare tasti esistenziali, connessi al progetto di vita, tasti che possono ostacolare l’abbandono della ruminazione. Occorre toccare  gli obiettivi che il paziente non vuole abbandonare, mostrargli ciò che sta evitando. Mi allargo ancora. Occorre toccare il significato dell’abbandono di questi obiettivi. Poiché l’attaccamento a essi, attraverso la ruminazione, impedisce in qualche modo di accettare il dolore di una perdita o di un fallimento, su scala anche esistenziale. In fondo ritornano due temi centrali delle recenti riflessioni di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero, che spero di interpretare correttamente. La prima: io posso ruminare su temi astratti ora per non toccare il concreto fallimento (o abbandono) di scopi esistenziali e di componenti importanti del mio progetto di vita. La seconda:se imparo a regolare la ruminazione e a ridurla, allora passo attraverso un contatto di maggiore sofferenza emotiva, la cura cioè passa anche attraverso fasi di peggioramento dello stato d’umore.

Forse anche nel mondo della ricerca si sta iniziando a costruire un ponte empirico tra il funzionamento specifico del momento presente e la traiettoria cognitiva esistenziale.

EABCT 2011: Beliefs over control interact with intolerance of uncertainty and metacognition on worry

EABCT 2011: Marsha Linehan

EABCT 2011: ReykjavikEABCT 2011, Reykjavik. Una cornice spettacolare per la mia iniziazione. Da novellina a questa emozionante esperienza europea, mi avvicino ai grandi nomi con il rispetto reverenziale che meritano.

Terzo giorno EABCT, keynote serale di Marsha Linehan, con un update sugli Emotion Regulation Skills proposti dalla Dialectical Behavior Therapy. Sala gremita, con partecipanti che arrivano a prendere posto mezz’ora prima. Puntuale alle 16:30 sale sul palco la Linehan iniziando con una breve introduzione alla DBT e al motivo per cui era stata inizialmente concepita: “suicide is an important factor: if you want to treat you patient, you first have to keep him alive” è lo statement di apertura, pragmatico, in tipico stile americano, e a seguire una carrellata di informazioni sullo stato dell’arte della DBT. Alcuni dati di evidenza scientifica: l’insegnamento di abilità di gestione delle emozioni sembra essere un fattore cruciale che media gli effetti della DBT; questi skills comprendono tecniche di mindfulness (la mindfulness sembra l’argomento alla moda di questo congresso, esplorata ampiamente da Melanie Fennell ieri e da vari simposi distribuiti nelle diverse giornate), esercizi per la tolleranza delle emozioni negative, la regolazione emotiva e l’efficacia interpersonale.

La Linehan sottolinea l’importanza dei gruppi skills all’interno della terapia dei pazienti con disturbo borderline di personalità, restringe lo scopo di questi gruppi al solo e unico insegnare abilità e metodologie senza entrare nel merito della sofferenza del singolo paziente, che è invece tutta affidata al terapeuta individuale. Il fine ultimo di questi gruppi è infatti l’insegnamento al paziente di comportamenti finalizzati alla regolazione emotiva, come primo step verso la gestione più funzionale delle proprie emozioni percepite ora come intollerabili.

Continuando con il chiaro stampo concreto che la contraddistingue, la Linehan va avanti e elenca alcune delle abilità che è opportuno insegnare al paziente: se il disagio emotivo sta in un dato di fatto, la risposta è il problem solving concreto; se invece concentrare la propria attenzione su un aspetto del problema non è utile ma provoca sofferenza, la soluzione è la distrazione.

Mi affascina guardare al mondo dei disturbi di personalità attraverso le lenti della Linehan. Vedere come i pazienti siano concepiti come bambini, come inesperti delle emozioni e delle abilità di gestione emotiva, e non come persone “disturbate”. Viene proiettata una sorta di flow-chart decisionale che aiuti i pazienti stabilire se e come esprimere il proprio disagio, come interrogarlo per capire meglio quale sia la situazione reale e quale quella esperita da loro nel momento di sofferenza. I pazienti sono guidati da caselle che chiedono “la mia emozione è adeguata alla situazione?”, e procedono in base alle risposte per arrivare a definire il comportamento più consono da mettere in pratica.

Il comportamento per cambiare l’emozione, ancora prima di lavorare sulle cognizioni e le credenze. Mi ricorda l’apprendimento dei bambini, che prima di arrivare all’età del “perché, mamma?” si fanno guidare mano nella mano verso cosa sia più opportuno fare in determinate situazioni. Vedo questa donna energica e positivamente agguerrita dire ai suoi pazienti “per ora non chiedere, non hai ancora gli strumenti per gestire la situazione da solo. Nessuno te lo ha mai insegnato, te lo insegno io”. Puntuale con la mia riflessione, la Linehan colora di aneddoti i dati riportati, come l’importanza di dare fiducia al paziente anche a fronte di una sua evidente bugia, esperienza per lui riparatoria, che può arrivare a fargli dire “Marsha, you are the first person who decided to believe me”.

Affascinante, complicato, impegnativo. Stimolante. Hopeful.

EABCT 2011: “Yes…But…” Cognitive response to partial success: an exploratory research

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey YoungE ora tocca alla Schema Therapy di Jeffrey Young. Che ne pensate? Per aiutarvi a capire e farvene un’idea, vi racconto cosa ho ascoltato qui a Reykjavik da un simposio e da una keynote dedicate a questo modello terapeutico. Keynote e simposio entrambi curati da Arnoud Arntz, che è ormai il proconsole in Olanda e forse in Europa di Jeffrey Young.

Tra i nuovi modelli emersi, la Schema Therapy è quello in qualche modo che più rimane fedele al principio cardine del cognitivismo clinico classico: l’approfondimento dei contenuti mentali. A differenza della ACT di Hayes, della terapia metacognitiva di Wells o delle varie terapie basate sulla mindfulness, tutte terapie che in qualche modo invitano a pensare meno e che teorizzano che il pensare bene coincida con il pensare poco, la Schema Therapy di Young invece propone un ricco campionario di schemi cognitivi applicabili ai disturbi di personalità.

Ma se si fosse limitato a questo, Young non avrebbe in fondo proposto nulla di nuovo rispetto a un’operazione già effettuata da Beck, che anch’egli si cimentò nella descrizione delle credenze cognitive dei disturbi di personalità. Young aggiunge ai contenuti mentali cognitivi delle componenti emotive, esperienziali, interpersonali, evolutive e comportamentali.

Il quadrato emotivo-esperienziale-evolutivo-interpersonale è il contributo più caratterizzante della Schema Therapy. Per Young i contenuti cognitivi distorti, le credenze insomma, devono essere analizzati nella loro radice evolutiva, cioè nella loro origine in esperienze infantili dolorose, e vanno trattati non solo attraverso la ristrutturazione cognitiva esplicita, ma anche attraverso una rievocazione emotivamente vivida dell’esperienza relazionale dolorosa (per lo più si tratta di interazioni con i genitori) e una consapevole riscrittura del copione esperienziale in termini non traumatici.

Per fare questo Young si serve di 4 modelli che rappresentano le parti in gioco nel copione relazionale traumatico, modelli che Young chiama modes:

  • il protettore distaccato (detached protector mode);
  • il genitore punitivo (punitive parent mode);
  • il bambino arrabbiato e impulsivo (angry impulsive child mode);
  • il bambino abbandonato/abusato (abandoned/abused child mode);

A queste figure si aggiunge il cosiddetto genitore sano (healthy parent). Ho appena usato il termine “figura” non a caso. Quelle di Young non sono solo credenze o costellazioni di credenze, ricordi, idee, valori, stili relazionali, ma modelli interni e rappresentazioni interiori che agiscono con l’unitarietà d’azione di personaggi che recitano un dramma interiore che poi diventa esterno, concreto.

Infatti anche le figure genitoriali, i “parental mode” del protettore distaccato e del genitore punitivo per Young corrispondono non solo a reali comportamenti che il paziente subì in età precoce dai genitori, ma anche a rappresentazioni interne che continuano a condizionare i contenuti cognitivi ed emotivi della vita mentale del paziente e che il paziente non solo subisce, ma è in grado di impersonare e rivivere a sua volta e a far subire a chi lo circonda. Ecco che dunque il paziente diventa a sua volta un protettore distaccato o un genitore punitivo.

Tutto questo, che effettivamente ha molto in debito con la teoria psicodinamica, rimane però formulato in termini di teoria cognitiva, cioè secondo una visione della mente come elaboratore di informazioni. I “mode” rimangono costellazioni di credenze in grado di ricombinarsi in continuazione. I personaggi interiori rimangono una metafora, non diventano mai agenti totalmente indipendenti che condizionano la vita interiore del soggetto come se agissero dall’esterno.

A questa concezione evolutiva e interpersonale corrisponde un trattamento molto esperienziale, in cui il paziente è incoraggiato a esprimere i vissuti più intensi e dolorosi. Per Young questo elevato livello di temperatura emotiva è indispensabile per arrivare a una vera ristrutturazione, che non può essere solo cognitiva ma esperienziale. Questo significa che per Young il paziente non solo deve diventare più consapevole dei suoi “mode” e di quelli che mettevano in atto i suoi genitori, ma deve anche vivere in seduta il “mode” sano che non ha potuto ricevere durante lo sviluppo: lo “healthy parent”, il genitore accogliente e non giudicante ma anche capace di fornire delle regole in maniera non distaccata.

Chi può e deve impersonare per il paziente questo “healthy parent” è, per Young il terapeuta stesso, secondo in processo denominato di “limited reparenting”, rigenitorializzazione limitata e controllata. Il terapeuta in seduta non solo sottolinea i momenti in cui il paziente impersona i vari “mode” ma cerca sempre di reagire secondo il “mode” del genitore sano. L’obiettivo non è soltanto banalmente trattare bene il paziente maltratto, ma rappresentare concretamente la figura sana che riesce a gestire ragionevolmente i propri impulsi e alla lunga trasmetterla al paziente sia per la via consapevole e razionale che attraverso quella inconsapevole e esperienziale. Il paziente dovrebbe così a sua volta diventare in grado di concepirsi e trattarsi in maniera accogliente, non giudicate e capace di darsi e seguire delle regole, ma non in maniera distaccata e anaffettiva.

Fin qui il modello di Young, su cui molto di sarebbe da dire e anche da obiettare. Il modello appare molto completo, forse il più esaustivo nel trattare l’interezza della persona reale tra quelli finora prodotti dal cognitivismo clinico. Non pare però che Young abbia dato ancora abbastanza importanza agli scopi di vita del paziente, in grado anche essi di modellare la personalità, e non pare che si sia data attenzione ai momenti di crisi e incomprensione tra paziente e terapeuta. Il genitore accoglie ma al tempo stesso regola, e in questo regolare sono inevitabili delle frizioni. Forse anche Young indulge al difetto cognitivista di rappresentare la relazione terapeutica come un processo sempre armonico senza scossoni.

Ma passiamo ora alla plenaria e al simposio di Arntz, entrambi molto interessanti. Arntz infatti non si è limitato a riversare sull’uditorio la solita carrellata di dati che dimostrano quanto questa terapia sia efficace. Intendiamoci, ha comunque mostrato dati positivi, quasi trionfali (anche troppo, un po’ di prudenza non guasta). La Schema Therapy si sarebbe dimostata superiore alla transference focused therapy (TFP) di Kernberg e alla Dialectical-Behavioral Therapy (DBT) della Linehan nel trattamento dei pazienti borderline. Inoltre, dice Arntz, la Schema Therapy può essere adattata per gruppi di pazienti molto gravi in ambiente ospedaliero psichiatrico (però aggiungendo una massiccia dose di skills training alla Linehan, va ammesso questo) e addirittura avrebbe effetto su una classe di pazienti tradizionalmente intrattabili come i sociopatici con problemi giudiziari (forensic patients).

Ma Arntz ha fatto anche un discorso critico e riflessivo sul processo terapeutico della Schema Therapy. Insomma, si è chiesto come funziona la terapia di Young, senza dare per scontato che la dimostrazione dell’efficacia si tramuti automaticamente in dimostrazione del meccanismo ipotizzato teoricamente.

E quali meccanismi terapeutici ha discusso Arntz? Relazione, tecnica, modello teorico ed effetto del training. Sulla relazione Arntz ci ha tenuto a sottolineare che non si tratta del solito meccanismo aspecifico comune a tutte le psicoterapie, ma del tipico stile relazionale del terapeuta cognitivo: accogliente, direttivo e facilitante. Per Arntz questo tipico stile ha un effetto non generico, ma specifico per la terapia cognitiva. E lo dimostra portando dei dati che confrontano lo stile del terapeuta di Schema Therapy con un terapeuta di formazione analitica che segue il protocollo di Kernberg, la terapia focalizzata sul transfert (TFP). Il terapista TFP è meno direttivo e meno coinvolto direttamente nell’incoraggiare l’emersione di stati d’animo intensi. E questo atteggiamento sarebbe meno efficace di quello del terapeuta cognitivo di orientamento Schema Therapy.

Definita così, la relazione terapeutica è direttamente in connessione con la tecnica, che per Arntz è il fattore più probabilmente responsabile dell’efficacia della Schema Therapy. E come fa a sostenerlo Arntz? Citando studi di aderenza.  Cioè gli studi che correlano il grado di aderenza dei terapeuti ai principi tecnici della terapia che essi seguono. Nel caso della Schema Therapy, la correlazione è particolarmente forte e questo, per Arntz, significa che il contributo della tecnica al successo terapeutico è particolarmente forte. Questo significa che la combinazione di tecniche esperienziali con le tecniche classiche emotive è un’idea probabilmente vincente.

E il contributo del modello teorico? Per Arntz questo è un aspetto più difficile e complesso da dimostrare. Tuttavia si deve sottolineare come nel modello teorico di Young, tecnica e aspetti relazionali specifici siano intrecciati. Il modello teorico, dunque, più che essere un fattore che spiega direttamente l’efficacia della terapia potrebbe essere semmai la cornice che contiene coerentemente il tutto.

Infine l’effetto del training. Per Arntz, nel caso della Schema Therapy l’effetto positivo del training è particolarmente accentuato. Che vuol dire? Che terapeuti che hanno fatto l’intero training strutturato della scuola di Young sono molto più efficaci di terapeuti che hanno fatto solo corsi introduttivi, o solo videolezioni o che hanno studiato da soli il modello. Può sembrare una banalità, ma in un periodo in cui si sottolineano sempre più solo i fattori aspecifici questi dati invece appoggiano l’importanza degli aspetti unici e tipici della Schema Therapy.

EABCT 2011: Melanie Fennell sulla mindfulness (un confronto tra le onde cognitive davanti all’oceano nordico)

 

EABCT 2011 Melanie FennellSecondo giorno di congresso e tra le letture magistrali è ancora la mindfulness a vincere il primo premio per numero di partecipanti. Ciò nonostante devo ammettere che negli occhi dei colleghi comincia a mostrarsi una leggera stanchezza e qualche sbuffo all’ennesimo invito all’esercizio meditativo.

Anche Melanie Fennell non ha resistito alla tentazione. Lei, nota psicoterapeuta e ricercatrice di Oxford, inizia il suo intervento con qualche minuto dedicato alla meditazione. Tutti in silenzio e occhi chiusi. Ora, dopo due giorni di congresso intenso, lo stimolo naturale sarebbe quello di lasciare andare la mente verso lo spegnimento della coscienza. Tuttavia l’interesse per il tema e forse la speranza in un vivo dibattito mi tengono sveglio.  Al riguardo devo ammettere che le spiccate doti comunicative della Fennell hanno dato un contributo. La relazione è attiva e stimolante e questo sostiene lo sforzo attentivo.

Il tema principale è il confronto tra MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy)CBT (Cognitive-Behavioral Therapy), tra seconda e terza ondata delle terapie basate sull’evidenza. Quali punti comuni e quali contrasti? Esiste la possibilità di un matrimonio duraturo, un’integrazione? O siamo destinati a rimanere incastrati in questa diatriba per tutta la prossima decade congressuale?

Melanie Fennell ci offre una sintesi ordinata ma con poche novità. Il quesito resta aperto e Melanie se la cava alla vecchia diplomatica maniera: “l’importante è porsi delle domande e non trovare delle risposte”. E siamo d’accordo, ci mancherebbe. Ma almeno qualche risposta bisognerà pure indicarla, altrimenti rischiamo di girare come dei criceti sulla ruota delle stesse domande. Lo spettro di altri dieci anni di esercizi meditativi prima di una relazione congressuale continua a perseguitarmi anche ora mentre scrivo. In ogni caso il punto della situazione è chiaro ma è descritto da una sostenitrice della mindfulness. La Fennell infatti lavora con Mark Williams uno dei coautori del manuale MBCT per la prevenzione delle ricadute nella depressione.

Ma quali sono i punti chiave? Entrambi gli approcci cercano di raggiungere il medesimo obiettivo: offrire una mappa di come la mente funziona e stimolare un cambiamento in prospettive mentali controproducenti,  ridurre la sofferenza emotiva. Le differenze sono nei contenuti e negli elementi che possono mediare questo percorso.

La MBCT è focalizzata sui temi dell’accettazione e della compassione, anche verso i propri pensieri e sensazioni corporee, non mira a modificare i pensieri ma la relazione che la persona ha con i propri pensieri, è molto più interessata alla ‘corporeità’ indipendentemente dal tipo di disturbo che è trattato. Melanie Fennell lo definisce un approccio con un linguaggio ‘ecologico’ e naturalista contrapposto al linguaggio ‘militare’ delle terapie cognitivo-comportamentali che appaiono maggiormente direttive, esplicite, orientate a far prendere in mano i problemi e a trovare una soluzione concreta. Sembrano contrapporsi due mondi difficili da coniugare: cambiamento contro accettazione.  La stessa autrice arriva alla conclusione che un simile matrimonio potrebbe facilmente finire in un prematuro divorzio.

Allora proviamo a prenderla da un’altra parte. Dimentichiamo la teoria e parliamo di efficacia. MBCT e CBT mostrano risultati pressoché equivalenti nel trattamento di ansia e depressione. Questo è il risultato che emerge da una recente e completa meta-analisi (Hoffman et al., 2010). Ergo, nessun vero vincitore, nessuna rivoluzione scientifica. Certo, la MBCT è particolarmente efficace per trattare pazienti cronici con tre  o più episodi depressivi, ma offre scarsi risultati e non è consigliata per pazienti con meno di tre episodi depressivi. Sembra efficace anche in casi di depressione reattiva e acuta. Ma è un trattamento pesante e impegnativo, in termini di tempo e di risorse quotidiane, per l’individuo, rispetto alla tradizionale CBT.

Risultati incerti. Competizione aperta. Ma allora, matrimonio possibile? Forse solo quando finalmente si abbandoneranno posizioni radicaliste. Forse arriveremo ad accettare un giorno che certe gabbie psicopatologiche hanno bisogno di cambiamento, certe altre hanno bisogno di accettazione. E per le rimanenti? Una volta adeguatamente informato, scelga il cliente.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

EABCT 2011: Perceived Parental Criticism, Self-Criticism and Depression: An Exploratory Research

EABCT 2011: Shopaholics! Fenomenologia dello Shopping Compulsivo

Shopping compulsivoNel primo giorno ufficiale del congresso di Reykjavik si è svolto un simposio centrato su uno dei disturbi di recente attenzione clinica: lo shopping compulsivo (compulsive buying). Il disturbo è caratterizzato da un’eccessiva e incontrollata tendenza all’acquisto e alla spesa di denaro che può produrre notevole disagio emotivo e dannose conseguenze sociali e finanziarie.

Il simposio si pone l’obiettivo di dare un quadro esaustivo della conoscenza attuale di un disturbo ancora poco conosciuto e poco studiato. Gli autori sono un’equipe internazionale di diversi centri in Germania, Belgio e USA.

Innanzitutto i pazienti con un disturbo da shopping compulsivo tendono a usare l’acquisto come strategia di regolazione di un’escalation di emozioni negative ch può anche dipendere da problemi non connessi all’azione dell’acquisto.  Secondariamente queste persone sono più sensibili, già a un livello neurochimico, al piacere derivato da una ricompensa o da una gratificazione. Infine mostrano una scarsa capacità di uscire dall’urgenza del presente, non solo nel momento dell’acquisto, e ad assumere un atteggiamento distaccato e decentrato rispetto a emozioni e pensieri che sorgono nel presente.

Per quanto riguarda la terapia, il confortante risultato è che la terapia di gruppo cognitivo comportamentale applicata a pazienti con shopping compulsivo ha mostrato risultati preliminari incoraggianti (Mitchell et al., 2006). Questo significa che le conoscenze generali sul modello teorico e clinico cognitivo e comportamentale possono già dare un significativo contributo al trattamento di questo disturbo. Questo risultato però non può essere sufficiente, occorre infatti valutare quali sono fattori di rischio e di mantenimento specifici del disturbo. Insomma, non siamo disarmati ma possiamo essere molto più efficaci se focalizziamo maggiormente il nostro intervento sugli elementi chiave.

Questi risultati preliminari sono ancora descrittivi. Abbiamo bisogno in futuro di comprendere con maggior dettaglio cosa succede nella mente di queste persone di diverso da coloro che hanno imparato forme di distrazione o di gratificazione più moderata a fronte dello stesso livello di stress.

Bibliografia:

Mitchell JE, Burgard M, Faber R, Crosby RD, de Zwaan, M (2006) Cognitive behavioural therapy for compulsive buying disorder. Behavior Research and Therapy, 44, 1859-1865.

EABCT 2011: The role of metacognitive processes in desire thinking

EABCT 2011: Clark sulla diffusione ed efficacia della terapia cognitiva

David ClarkL’Islanda si annuncia dal finestrino del taxi con distese pietrose a perdita d’occhio, erba stentata, montagne minacciose all’orizzonte, un lontanissimo geyser che zampilla tra i monti e nuvole, nuvole grigie e bassissime, così vicine da incombere sulla terra come la noia di una plenaria di Clark sulla diffusione della terapia cognitiva nel servizio pubblico inglese incombe sul mio cuore.

E invece la plenaria di Clark mi è piaciuta e non mi sono annoiato, forse aiutato anche dalla necessità di prendere appunti per questo articolo. Clark ha iniziato con un’ora di ritardo dopo un noiosissimo (quello sì) discorso del presidente della repubblica islandese. Il presidente ha detto che il congresso cognitivo è una delle risposte alla crisi di debito dell’Islanda. Contento lui, contento il Fondo Monetario Internazionale.

Torniamo a Clark. Parte male, fa un riassuntino della teoria cognitiva standard della fobia sociale. Dopo un quarto d’ora di lezioncina per un primo anno di specializzazione  in terapia cognitiva sospetto che Clark sia definitivamente impazzito, forse anche per l’influenza del presidente della repubblica islandese che paga i debiti a colpi di congressi cognitivi.

Poi Clark si riprende. Presenta qualche dato di ricerca in cui si ribadisce che la terapia cognitiva è la più indicata e migliore delle altre terapia, e fa il confronto con la terapia interpersonale. Però anche qui mi convince poco, perché la terapia interpersonale è ormai un vecchio ronzino, una versione semplificata della psicoanalisi inventata a tavolino e che non ha mai avuto una vera vita indipendente al di fuori delle università. Troppo facile. Ho l’impressione che molti pensino che i veri rivali siano altri (la terza ondata, la terza ondata, sempre lei!).

Infine inizia una parte davvero interessante. Non propriamente clinica, quanto piuttosto sull’impatto socio-economico della terapia dell’ansia e della depressione e sulle potenzialità di una sua maggiore diffusione. Ma comunque interessante.

Clark ci informa che ben il 15% della popolazione generale è affetto da ansia o depressione, ma che solo il 5% di costoro è in cura e ancor meno intraprendono un trattamento empiricamente efficace, con grossi costi sociali ed economici. Tutto questo significa che c’è lo spazio per addestrare un numero molto maggiore di terapeuti di quelli ora presenti sul territorio inglese. Ma il dato sarà applicabile anche all’Italia, paese dove il numero di laureati in psicologia è molto maggiore che in ogni altro paese europeo? A occhio forse si, e un po’ di ottimismo ci vuole.

Clark passa poi a esporre dati in un grande studio naturalistico sulle conseguenze positive dell’immissione nel territorio  di un massiccio numero di terapisti, per lo più cognitivi. Lo studio è stato fatto nelle contee di Newham e Doncaster. I risultato più importante è che in questo modo le remissioni da ansia e depressione raggiungono il valore del 52% (con punte del 67% nella popolazione di origine asiatica, curiosamente). Una maggiore presenza nel territorio di psicoterapeuti migliora il benessere psicologico della popolazione e diminuisce i costi.

Ma ci sono anche altre variabili che sono in relazione con un aumento dell’efficacia. Tra queste il numero delle sedute settimanali (ebbene si, pare proprio che più sedute a settimana incrementino l’efficacia; questo può essere un incoraggiamento a infrangere il tabù cognitivo della seduta settimanale unica?), il monitoraggio con brevi questionari effettuato dopo tutte le sedute e il grado di preparazione e aggiornamento formativo del terapeuta.

EABCT 2011: Luci e ombre della Compassion Focused Therapy

EABCT 2011 CongressTra i vari workshop precongressuali della giornata odierna, ho scelto di partecipare a quello presentato da Paul Gilbert sulla sua Compassion Focused Therapy. Ci sono diverse ragioni per cui la mia scelta è caduta su questa opportunità formativa. Prima di tutto non avevo mai assistito a un suo workshop, solo a diverse lezioni magistrali (keynotes) che mi avevano incuriosito ma che non avevano certo completato in modo esaustivo la descrizione dei presupposti teorici e tecnici di questo approccio. Secondariamente, l’intervento si occupa principalmente di depressione, argomento a me caro, e di autocriticismo, uno dei temi ai quali il gruppo ricerca cui appartengo sta recentemente dedicando attenzione. Infine avevo la necessità di comprendere quanto ci fosse di realmente nuovo in una forma di terapia che pare concentrarsi su un unico tema peraltro affrontato secondo una prospettiva molto mindfulness based, cioè basata su un uso massiccio di tecniche meditative.

Ho iniziato il workshop con molte curiosità e qualche dubbio. Devo dire che al termine mi ritrovo con qualche strumento utile per la mia valigia da professionista della salute mentale, ma con parecchi dubbi. Da un punto di vista puramente teorico le riflessioni portate avanti da Gilbert sono certamente complete e interessanti. Mostra una riscoperta del ruolo dei bisogni e delle motivazioni biologicamente determinate con forte connessioni con la neuroanatomia e il processo evolutivo cerebrale. Il terreno teorico è quello della biologia e delle teorie dell’attaccamento, la prospettiva è evoluzionistica, in realtà un punto di vista per molti aspetti già sviluppato da teorici italiani negli ultimi trent’anni, Gianni Liotti su tutti. Gli aspetti più interessanti nascono da riflessioni specifiche più che generali, cioè dall’esplorazione originale, questo è il contributo principale di Gilbert e dei suoi collaboratori, sul ruolo dell’autocriticismo e sulle credenze ad esso associate.  Ad esempio gli individui sembrano faticare ad abbandonare una prospettiva autocritica e autopunitiva perché temono di non poter apprendere a correggersi, migliorarsi ed essere accettate dagli altri. La compassione è presentata come una prospettiva con cui accogliere gli eventi della vita, ma soprattutto quelli del mondo interno come pensieri, fantasie, impulsi in modo non autocritico ma benevolente. Il nucleo da raggiungere è il riconoscimento che ciò che passa nella nostra mente e nel nostro corpo non è figlio della nostra volontà, né un nostro errore ma qualcosa che ci capita sulla base del nostro corredo genetico e della nostra storia. Qualcosa di cui non abbiamo responsabilità ma con cui dobbiamo avere a che fare, come fosse una qualsiasi allergia, malformazione o debolezza fisica. L’obiettivo è deresponsabilizzare l’individuo da come si esprime la sua mente o il suo corpo, il suo pensiero associativo così come le sensibilità e l’intensità delle reazioni emotive. Tutto mira, sin dai suoi principi teorici a demolire la tendenza ad attaccare, biasimare, criticare o considerare vergognosi sé stessi.

Dal mio punti di vista le questioni delicate sono due. Innanzitutto questo tipo di riflessione clinica è funzionale e adatta laddove l’autocriticismo è il problema nucleare e ritengo possa dare buoni frutti terapeutici. Attenzione però a non ridurre l’ampio e complesso mondo della psicopatologia a un’equazione che può essere risolta nel semplice volersi bene. Secondariamente la parte tecnica effettivamente è tutta focalizzata su esercizi di mindfulness, non che siano inadeguati per lo scopo proposto ma vien da chiedersi se non bastava delineare una linea guida per trattare l’eccessiva autocritica piuttosto che costituire una forma di terapia generalizzata.

Certo, al di là di questi dubbi, le linee guida e il pacchetto di tecniche offerto dalla CFT rappresentano un modulo facilmente integrabile in qualsiasi percorso terapeutico e all’avanguardia per quanto riguarda la comprensione e il trattamento dell’eccessiva tendenza all’autocritica e degli stati di malessere emotivo ad essa connessi.

EABCT 2011: promesse e preoccupazioni

Vulcano IslandeseL’Islanda è una terra primordiale, dove elementi opposti si attraggono, coesistono e si abbracciano in modo naturale, diremmo noi emotivo. Alcuni teorici sosterrebbero si tratti di un processo automatico, preconsapevole, sorto da una strana mescolanza di temperamento e di storia evolutiva. Così, l’Islanda, la terra del ghiaccio e del fuoco, ha un temperamento favorevole a questo naturale equilibrio emotivo: la presenza di forti contrasti termici nell’aria e nell’acqua, l’energia geotermica e la sovrapposizione con una frattura geologica, i venti freddi della Groenlandia e quelli tiepidi provenienti dall’Europa. Poi c’è la storia evolutiva, contraddistinta da una lontananza dalla civiltà fino all’epoca moderna, il ritardo nel progresso, l’esigua popolazione umana. Insomma, per molto tempo le infrastrutture portate dall’uomo non hanno intaccato, con le loro barriere architettoniche (che noi diremmo cognitive), l’emotivo equilibrio islandese. Questa è la mia prima sensazione dell’Islanda, sensazione plasmata sia dalla magia che dalla psicologia del luogo (e chi mi conosce sa che psicologia e “magia” sono due mie passioni) e che voglio condividere con voi. Vedremo come fiorirà questa sensazione nel corso del Congresso dell’European Association of Behavioural and Cognitive Therapy (EABCT). In attesa dalla mia camera d’albergo mi dondolo tra qualche curiosità e diverse perplessità. I precedenti due congressi europei (Dubrovnik e Milano), non lo nascondo, hanno lasciato un po’ di amaro in bocca. All’epicità dei grandi scontri di Helsinki 2008, ai dibattiti teorici e metodologici tra Steven Hayes, Lars-Goran Ost e Paul Salkovskis, sembra essere seguito un periodo di calma e leggero appiattimento. E ora mi chiedo se quest’anno assaporerò la stessa sensazione o se mi attende qualcosa di nuovo. Quali sono le variabili che possono avere un peso in una direzione o nell’altra? Almeno tre. Punto primo: l’Islanda è stata scelta, come è politica di anni recenti, per dare spazio ad associazioni nazionali più piccole e meno in vista. L’obiettivo è diffondere la scienza psicoterapeutica nei cosiddetti “paesi emergenti”. Questo è un punto di forza politico, poiché porta con sé conoscenze in paesi ove le opportunità di formazione e aggiornamento sono ridotte. Ci sono però anche dei rischi. L’Islanda per molti, per quasi tutti a dire il vero, non è particolarmente comoda e accessibile. Inoltre una giovane e piccola associazione come quella islandese potrebbe faticare a gestire un congresso di questa portata e a rappresentare una notevole attrattiva per grandi nomi e quindi anche per numerosi colleghi. Tuttavia, proprio per la stessa ragione, potremmo riuscire a sentire qualcosa di nuovo e originale. Punto secondo: l’EABCT per chi non lo sapesse è un associazione internazionale composta da associazioni nazionali, un organo istituzionale di ordine superiore. Per questo rappresenta il campo sui cui si gioca e si definisce la politica internazionale per lo sviluppo delle terapie cognitive e cognitivo-comportamentali . Quindi c’è il rischio che il valore e il rilievo politico possano oscurare quello clinico; rischio che pare evidenziato dal sempre maggiore interesse che riscuote un altro circuito di congressi, quello che fa capo all’ICCP, un associazione internazionale di singoli professionisti. Punto terzo: questo è stato l’anno in cui un altro famoso teorico contemporaneo, Adrian Wells, ha deciso di fondare un suo circolo scientifico che raccolga gli studi sull’approccio terapeutico metacognitivo di cui è fondatore. Al contrario di Steven Hayes, Wells non sembra intenzionato a portare la sua Terapia Metacognitiva (MCT) fuori dal circuito EABCT, tuttavia resta da vedere quale impatto il congresso di Manchester avrà sulle presenze e sui contenuti di Reykjavik 2011. Forse è proprio questa la ragione per cui, a una prima occhiata, il programma scientifico profuma così tanto di cognitivismo standard con contorno di mindfulness. Insomma, potrebbe attenderci una versione più povera e canonica dei precedenti congressi, quasi esclusivamente politica; oppure potremmo vedere finalmente contributi liberi da soliti schemi e personaggi, con spazi per idee nuove finora coperte dal mainstream della diatriba tra ondate di terapia cognitiva. Vi terremo aggiornati.

Cronache dal 41esimo Congresso Cognitivo Europeo (Reykjavik, 31/08 – 3/09 2011)

ReykjavikTra pochi giorni, dal 31 agosto al 3 settembre, a Reykjavik, in Islanda, si terrà il 41esimo congresso europeo di terapia cognitiva. Più precisamente, il 41esimo congresso annuale della EABCT, la European Association of Behavioural and Cognitive Therapy.

Da qualche anno i congressi cognitivi sono diventati eventi movimentati. Non più piste per il confronto e la competizione, ma arene gladiatorie per scontri tra le ondate del cognitivismo clinico. La seconda e la terza ondata sono da qualche anno in contrapposizione. Forse questa volta non si arriverà ai momenti di tensione estrema di Helsinky 2008 anche perché mancherà Steven Hayes, L’Ettore di quelle giornate. Hayes ha abbandonato l’EABCT e ha fondato la sua società scientifica che organizza i suoi congressi indipendenti. L’ultimo in Italia, a Parma dal 13 al 15 luglio 2011. Ed è stato l’11esimo congresso dei seguaci di Hayes. Insomma, questa terza ondata comincia ad avere i suoi anni.

Ma lasciamo Hayes ai suoi esili e diamo uno sguardo al programma di Reykjavik. Il congresso si apre di mercoledì 31 agosto (costringendoci ad abbandonare le spiagge estive) con ben undici (11!) workshop. Sette di impostazione standard, con i soliti Clark e Salkovskis e le loro solite terapie standard per la fobia sociale e il disturbo ossessivo compulsivo. I dioscuri tengono stretto il timone del cognitivismo classico. A prua invece troviamo quattro workshop di terza ondata: uno sulla mindfulnes (Kuyken), uno sulla terapia dialettico-comportamentale (Ritschel), uno sulla schema therapy (Arntz) e uno sulla terapia focalizzata sulla compassione (Gilbert). Sembrerebbe una sorta di lottizzazione, un manuale Cencelli in cui 2 terzi dello spazio è dato al cognitivismo standard e un terzo ai parvenu della terza ondata.

Il mercoledì di apertura si chiude con Clark (e così seconda ondata si becca la keynote di apertura! Applausi dai banchi di destra, entusiasmo dei tradizionalisti!) che parla di “Developing and disseminating effective psychological treatments: science, practice and economic“.

Sviluppo? Disseminazione? Economia? Trattamento efficace? Insomma, clinica zero. Si preannuncia un discorso di una noia mortale (mutismo tra i banchi della destra, pernacchie e sarcasmi provengono dagli opposti banchi del progressismo di terza ondata). È possibile che il fronte standard abbia dovuto pagare un prezzo per aver ottenuto il discorso di apertura (questo lo dicono quei cinici dei parlamentari centristi, la palude). E il prezzo è stato: la noia. L’assoluta neutralità che non scontenta nessuno, e forse farà dormire molti.

Sarà vero? Ve lo diremo mercoledì sera stessa. Infatti la delegazione di Studi Cognitivi si appresta a invadere l’Islanda con le sue truppe: Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Chiara Manfredi saranno lì e vi terranno informati. Sarà il primo esperimento di livebloggingcognitivo.

Intanto domani getteremo un secondo sguardo alle altre giornate del congresso.

Meno problemi comportamentali e voti più alti a scuola per chi è stato allattato al seno?

AllattamentoIl latte materno, ricco di grassi polinsaturi, proteine e ferro rappresenta il miglior alimento per i neonati, tanto che l’OMS, l’Unicef e l’Unione Europea lo raccomandano come scelta esclusiva per i primi sei mesi di vita del bambino, per poi continuare come alimento complementare fino ai due anni.

I vantaggi per lo sviluppo fisico sono ben noti: incrementa le difese immunitarie del neonato, previene dalle infezioni e dalle allergie, favorisce lo sviluppo intestinale, la vista e persino lo sviluppo psicomotorio. Nel latte materno, però, ci sarebbe molto di più: incrementerebbe nel bambino il normale sviluppo intellettivo e comportamentale. Secondo uno studio longitudinale condotto dalla Christchurch School of Medicine, Nuova Zelanda, su un campione di oltre 1000 soggetti, l’allattamento al seno sarebbe associato a un miglioramento delle abilità cognitive e dei successi scolastici dei bambini rispetto a chi era stato nutrito esclusivamente con latte artificiale. Questi miglioramenti si traducono in punteggi più elevati ottenuti a test di intelligenza somministrati a 8 anni, maggiori abilità matematiche di lettura, comprensione e voti scolastici più alti valutati tra i 10 e i 18 anni.

Ma i benefici non finiscono qui! Uno studio inglese che ha coinvolto più di 10.000 diadi madre-bambino ha portato a risultati ancora più robusti. Alle mamme è stato chiesto di completare dei questionari riguardanti le difficoltà che osservavano nei loro bambini, sia a livello emotivo – come ansia, timidezza o iperattività- che a livello comportamentale – ad esempio mentire o rubare. Questi comportamenti devono essere considerati inadeguati socialmente e ripetersi per un certo periodo di tempo, devono avere un impatto negativo sullo sviluppo del bambino e interferire con la vita familiare quotidiana. I dati sono stati raccolti a 9 mesi di vita del bambino e successivamente a intervalli di due anni fino al compimento del 18esimo anno. I risultati sono sorprendenti: solo il 4% dei bambini che erano stati allattati al seno mostrava una tendenza a tali difficoltà, contro il 16% di chi era stato nutrito con latte artificiale. La validità di questo lungo studio è ancora maggiore se si considera che tali risultati rimangono invariati tenendo in considerazione anche variabili come lo status socioeconomico, il livello di istruzione delle madri, il consumo di sigarette e alcool ed eventuali psicopatologie della madri, con l’aggiunta del fatto che in un campione così numeroso le possibili differenze individuali di chi osserva i comportamenti dei bambini vengono praticamente annullate.

Come si spiegano questi risultati? Anche se rimane vero che lo speciale contenuto di enzimi e acidi grassi presenti nel latte materno sono fondamentali per lo sviluppo del sistema nervoso, negli ultimi decenni le aziende che producono latte artificiale hanno ben sopperito a questo bisogno, creando un prodotto molto simile a quello naturale. La risposta va allora cercata altrove e ce la danno gli psicologi. Anzi, ce lo dicevano già Bowlby e la Ainsworth. Si tratta dell’importanza dello speciale legame che si instaura durante l’allattamento tra la mamma e il suo bambino e che, attraverso il contatto, favorirebbe maggiori interazioni durante questo momento (come più sorrisi, più scambi di sguardi ecc…) e infonderebbe “calore” alla relazione. Attraverso questo processo e questo momento condiviso, si trasmetterebbe al bambino un rinforzo ai comportamenti adattivi e funzionali e alle emozioni positive.

Anche se molte ricerche andrebbero ancora condotte in questa direzione, ad esempio su differenti gruppi etnici e altre culture, rifacendoci alle parole di Peter Kinderman, professore di Psicologia Clinica all’Università di Liverpool, il legame tra la mamma e il suo bambino durante l’allattamento potrebbe proprio costituire il reale fattore chiave di tali differenze comportamentali ed emotive osservate a lungo termine nei bambini.

 

Bibliografia:

Craving e pensiero desiderante


 

 

Il craving è descritto come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere certi effetti (Marlatt, 1987). Per molti autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche e il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento. Per queste ragioni è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche (Kavanagh, Andrade & May, 2004).

Una domanda che resta aperta è: qual è il funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene questa sensazione di desiderio e impulso incontrollabile (craving)? Recentemente alcuni studi hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio e hanno individuato uno stile di pensiero con specifiche caratteristiche. Il pensiero desiderante, questo è il suo nome tecnico, è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti (Caselli & Spada, 2010):

  • Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)

  • Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).

Gli studi preliminari non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta un eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che certe modalità di usare il pensiero rispetto ai nostri desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità dei nostri impulsi e sulle nostre capacità di autocontrollo.


Bibliografia

 

Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.

Kavanagh, D.J., Andrade, J, & May, J. (2004). Beating the urge: Implications of research into substance-related desires. Addictive Behaviors, 29, 1399-1372.

Marlatt, G.A. (1987). Craving notes. British Journal of Addiction, 82, 42-43.

 


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