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Interventi impliciti ed espliciti in psicoterapia cognitiva

Bricks - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/centralasian/La psicoterapia cognitiva è colma di diatribe: pensieri ed emozioni, contenuti cognitivi e processi cognitivi, contenuti cognitivi e metacognitivi, accettazione e ristrutturazione delle credenze, processi automatici e processi controllati e molti altri ancora. Tra questi dibattiti, uno in particolare sta emergendo come significativo per l’impatto che potrebbe avere nella definizione di un percorso terapeutico. Si tratta della distinzione tra tecniche di intervento implicite ed esplicite. Queste due forme cognitive di intervento partono da presupposti teorici differenti, anzi quasi opposti. Proviamo a fare un esempio applicato alla modificazione della tendenza all’attenzione selettiva verso stimoli minacciosi, processo che ha come risultato quello di renderli più salienti nella coscienza individuale e rendere la minaccia o il desiderio rispettivamente più reali e incontrollabili.

Le tecniche implicite partono dal presupposto che certi automatismi cognitivi (come l’attenzione selettiva) possano essere modificati da specifici esercizi senza passare attraverso la coscienza. L’unico uso della coscienza sta nella presentazione iniziale dell’esercizio e del suo razionale. Tutto il resto è pratica costante e prolungata nel tempo. Per esempio, può essere chiesto di svolgere esercizi attraverso software computerizzati in cui l’individuo si addestra quotidianamente a porre maggiore attenzione a stimoli positivi rispondendo con rapidità alla loro presentazione attraverso la pressione di un tasto. In altri esempi la tendenza al pensiero eccessivamente concreto viene trattata chiedendo al paziente a svolgere esercizi immaginativi seguendo istruzioni che orientano a una costruzione estremamente concreta e vivida di episodi mentali (Watkins & Moberly, 2009).Un primo limite di questi interventi è la richiesta di un elevato sforzo e una pratica pressoché quotidiana e protratta per un periodo di tempo piuttosto lungo. Un secondo limite risiede nella scarsa validità ecologica, cioè quanto di ciò che viene imparato in esercizi standardizzati e attuati in contesto asettico si generalizza a contesti di vita dinamica e quotidiana. Il vantaggio è che teoricamente agirebbero a prescindere dalle capacità di elaborazione delle informazioni e di ragionamento complesso del paziente. Non è richiesta un’opera di autoanalisi e di messa in discussione delle proprie idee ma il semplice esercizio sarebbe sufficiente a costruire nuove modalità di processamento, soprattutto per quelle funzioni (come l’attenzione) che possono agire con buona frequenza fuori dal controllo cosciente.

Le tecniche esplicite, in primis la ristrutturazione cognitiva, partono da un presupposto diverso. Nonostante ammettano che certe modalità di elaborazione delle informazioni possano essersi costituite in modo automatico, ritengono che il loro sostenersi nel tempo sia fondamentalmente mediato da convinzioni coscienti. La presenza di queste convinzioni ostacola qualsiasi tentativo esplicito di modificarle se non vengono direttamente colpite dall’intervento terapeutico. Il cambiamento avviene attraverso l’accertamento cognitivo (l’esplorazione di queste credenze nel dialogo con il terapeuta), la loro analisi critica e l’individuazione di pensieri alternativi da iniziare a considerare nelle situazioni emotivamente attivanti. Anche i processi cognitivi come l’attenzione si possono gradualmente ristrutturare attraverso un uso cosciente di nuove strategie mentali. Per esempio nel situational attentional refocusing (SAR, Wells, 2009) i pazienti sono invitati a riconoscere e monitorare quando l’attenzione si focalizza su stimoli o elementi negativi dell’esperienza e volontariamente spostarla su elementi del contesto esterno vicini o lontani (rumori dell’ambiente, colori, movimenti).

Certamente questa dicotomia è per molti versi interessante e si intreccia con altri dibattiti in corso nel mondo della scienza psicoterapeutica cognitiva. Tutti convergono sul ruolo di perno esercitato dalla coscienza, dapprima punto di riferimento dell’intervento cognitivo e oggigiorno messa in discussione dalla necessità di fronteggiare la barriere imposte dai processi automatici. Come per molte altre discussioni credo che non ne usciranno vinti o vincitori anche perché le due modalità di intervento sono tutt’altro che antitetiche. In realtà ritengo (ma forse saranno ricerche future a definirlo) che per i casi più cronici un percorso di co-terapia che alterni interventi tecnici e impliciti a un percorso personale esplicito possano incrementare l’esito, come già avviene comunemente nell’associazione di skill training e terapia individuale in protocolli di trattamento del disturbo borderline di personalità.

Bibliografia:

  • Watkins, E. R. & Moberly, N.J. (2009). Concreteness training reduces dysphoria: A pilot proof-of-principle study. Behaviour Research and Therapy 47, 48-53.
  • Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press.

Rumination as a Predictor of Problem Drinking

Rumination is a coping strategy for controlling negative affect that is characterised by heightened self-focused attention involving persistent, recyclic, and depressive thinking (Lyubomirsky and Nolen-Hoeksema 1993)
Rumination is an important factor in the vulnerability processes leading to the occurrence of, and relapse into, dysphoriaand major depressive disorder (Nolen-Hoeksema and Morrow 1991; Lyubomirskyand Nolen-Hoeksema 1993)
The co-occurrence of alcohol use disorders and depressive symptoms has frequently been reported in problem drinking and psychiatric samples (Helzer and Pryzbeck1988; Petty 1992; Grant and Harford 1995)

 

Notte dei Ricercatori in Frascati on 23/09/2011

Torna a Frascati la Notte Europea dei Ricercatori. Visite guidate, spettacoli, esperimenti, giochi, incontri, exhibits, dibattiti, in un grande fermento di pubblico e di addetti ai lavori. Per aprire a tutti le porte della ricerca e per incidere nella realtà il segno indelebile della scienza. Così, Il 23 settembre 2011 sarà una Notte davvero speciale. Tutti potranno osservare da vicino e “toccare” la scienza, conoscere il suo linguaggio e vedere svelati i suoi più affascinanti “segreti”. I grandi centri di ricerca della zona dei Castelli (e non solo) apriranno a tutti le loro porte e i ricercatori accompagneranno il pubblico all’interno dei numerosi laboratori.

Consulta il programma dettagliato dell’iniziativa!

Musica per il nostro cervello (prima parte)

MusicaSuonare uno strumento musicale non  è semplicemente un’attività di piacere  ma è anche un mezzo per sviluppare le  capacità del cervello. È quanto  dimostra uno studio presentato a  Firenze all’ 8° Congresso Mondiale dell’International Brain Research Organization, uno dei più importanti nel settore delle neuroscienze. Lo dice uno studio condotto presso l’ Università dell’Oregon negli Stati Uniti dove sono stati coinvolti 141 bambini al di sotto dei sei anni con i propri genitori, provenienti da condizioni socio-economiche svantaggiate. Poiché, purtroppo, si sa che il livello di povertà può ridurre drasticamente il successo scolastico, obiettivo dello studio è stato quello di mettere in atto dei programmi volti a migliorare le performance scolastiche dei bambini di queste classi sociali. Per questo motivo, una parte del campione è stata sottoposta per otto settimane a sedute di ascolto e suono di musica, mentre gli altri hanno partecipato a programmi meno specifici mirati al miglioramento dell’attenzione nei bimbi o alla semplice frequenza della scuola materna. Al termine dei programmi i risultati ottenuti dai bambini venuti a contatto con la musica erano nettamente migliori: più attenti, mostravano un comportamento più tranquillo e competenze sociali più adattive, erano meno stressati e anche i loro genitori avevano imparato a stare con i loro figli in maniera più costruttiva e positiva.

È bene ricordare che suonare uno strumento musicale è un’attività piuttosto complicata. Anche il brano musicale più semplice, infatti, richiede un certo coinvolgimento intellettuale, delle abilità motorie specifiche, un interessamento emotivo e un alto grado di percezione sensoriale; la coordinazione delle mani e delle dita sulle corde, sui tasti, sulle chiavi o sui pistoni richiede notevoli abilità motorie e una buona capacità di immaginazione spaziale; la lettura delle note sul pentagramma implica, invece l’elaborazione veloce e simultanea di informazioni molto concentrate (le note, il ritmo, il tempo, la dinamica, il timbro, l’arrangiamento ecc..). E’ richiesto inoltre un modello di pensiero astratto e complesso, per non parlare dello sviluppo della memoria. Quasi nessun’altra attività richiede così tante decisioni simultanee per un tempo così prolungato.

La prossima volta vedremo più nel dettaglio come la musica abbia questo effetto benefico sul nostro cervello e cercheremo di capirne i meccanismi. Per ora lasciamoci con le parole di Novecento, personaggio dell’omonimo monologo di Alessandro Baricco: “Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace.”

Bibliografia:

La mentalizzazione in psicoterapia. Alcuni aspetti del dibattito attuale.

Stefano Blasi, Giuseppe Pollani.

 

Il concetto di mentalizzazione sta avendo una grande fortuna e diffusione nel campo delle scienze psicologiche. L’argomento ci sembra stimolante soprattutto alla luce della grande mole di libri, articoli e ricerche che hanno come oggetto tale costrutto, oltre all’esistenza di uno specifico trattamento psicoterapeutico basato sulla mentalizzazione (Mentalization-Based Treatment MBT) per pazienti con disturbo borderline (BPD),  che sta accumulando conferme empiriche di efficacia e che oggi si sta cercando di estendere ad altre categorie cliniche. Inoltre tale notevole interesse per il costrutto sembra più o meno trasversale ai vari orientamenti teorici di psicoterapia. Un lavoro abbastanza recente e di notevole interesse è quello di Choi-Kain & Gunderson (2008). L’articolo propone una breve revisione critica della mentalizzazione esaminandone l’evoluzione storica/concettuale, le applicazioni e la sua misurazione. L’intento degli Autori, secondo noi, risulta pregevole perché stimola un dibattito scientifico che può dare l’incipit a ricerche mirate sugli aspetti critici evidenziati. E implicitamente mette in luce alcune criticità di fondo comuni alle discipline psicologiche, criticità che hanno infiammato tanti dibattiti epistemologici e metodologici, fondamentali per una consapevolezza dello statuto scientifico di queste discipline.

Choi-Kain & Gunderson iniziano descrivendo le radici storiche della mentalizzazione e lo fanno partendo da una delle prime formulazioni che lo psicoanalista e ricercatore Fonagy dà di mentalizzazione, intesa come “la capacità di concepire stati mentali inconsci e consci in se stessi e negli altri“. Alla base di queste radici vi sarebbe il tentativo di Fonagy di sintetizzare l’idea psicoanalitica della “simbolizzazione” col concetto filosofico e scientifico della “teoria della mente” (ToM). Un punto che per gli Autori differenzia la mentalizzazione dalle sue radici, come la teoria della mente, è l’aver ancorato il costrutto ad un modello di sviluppo, entro una cornice teorica solida, come quella della teoria dell’attaccamento di Bowlby. Un buono sviluppo individuale del bambino si baserebbe sulle capacità di mirroring (rispecchiamento) da parte del caregiver degli stati mentali del bambino stesso, in una modalità però contraddistinta dall’essere rimarcata, cioè “enfatizzata” (come il motherese ad esempio), e contingente, ovvero centrata e attinente agli stati mentali esperiti dal bambino. Tale restituzione consentirebbe al bambino di percepirsi come entità pensante, cioè dotata di propri stati mentali e di mentalizzarli, regolando e modulando i propri affetti e angosce. Le deviazioni da questo normale percorso evolutivo potrebbero indirizzare il soggetto verso itinerari di sviluppo che esitano nella psicopatologia e nei disturbi di personalità (PD).

Altro punto evidenziato è la concettualizzazione della mentalizzazione sia come un deficit che come difesa e, dunque, il tentativo di connettere ed integrare la teoria psicoanalitica del deficit con quella del conflitto. Un ambiente che minaccia l’integrità dell’individuo si riflette sulla sua capacità di pensare agli altri. Nei casi di traumi subiti dal bambino, il tentativo di evitare di leggere gli stati mentali del caregiver come insensibili e pericolosi può portare il soggetto ad inibire la propria mentalizzazione, così da auto-proteggersi da forti sentimenti conflittuali che riguarderebbero sia sé che la figura di attaccamento. Inizialmente questa strategia per il soggetto sarà adattiva, ma nel successivo percorso evolutivo potrebbe compromettere lo sviluppo della sua capacità di mentalizzazione, fino a far maturare veri e propri deficit della mentalizzazione. Nel BPD Bateman e Fonagy descrivono tramite tre meccanismi il percorso che porta la mentalizzazione a diventare destabilizzata o danneggiata: prima come deficit, poi come difesa, e terzo come un deragliamento a causa dell’attaccamento disregolato. Fin qui emerge, dunque, in modo forte, la relazione tra mentalizzazione, attaccamento e trauma.

Choi-Kain & Gunderson riprendono poi una delle ultime versioni della definizione di mentalizzazione di Bateman e Fonagy, ossia come “processo mentale con cui un individuo implicitamente ed esplicitamente interpreta le proprie azioni personali e quelle degli altri come significative sulla base di stati mentali intenzionali, quali desideri personali, bisogni, emozioni, credenze e ragioni”. Entro tale dominio, Bateman e Fonagy identificano tre dimensioni caratterizzanti il processo di mentalizzazione: la prima connessa a due modi di funzionamento (ossia implicito ed esplicito), la seconda relativa a due oggetti (cioè, il sé e l’altro), e la terza collegata a due aspetti (ovvero, cognitivo e affettivo) sia del contenuto che del processo di mentalizzazione. Questi tre punti fondamentali della mentalizzazione, secondo gli Autori, estendono ampiamente il dominio concettuale della mentalizzazione fino a sfiorare l’onnicomprensività. Attorno a questi aspetti della dimensione sé-altro, implicita-esplicita, affettiva-cognitiva, gli Autori confrontano le aree di sovrapposizione con alcuni concetti affini. Questo tentativo di ricerca concettuale appare particolarmente pregevole, proprio perché, nonostante la grande mole di ricerche in psicoterapia, le definizioni dei costrutti su cui poi le ricerche si basano, molto raramente sono consensuali e si finisce così per intendere il costrutto e per assimilare i risultati delle ricerche in modo non univoco (problema che ha importanti conseguenze per lo statuto scientifico della disciplina). Choi-Kain & Gunderson esaminano solo alcuni costrutti affini, optando per quelli che in letteratura sono stati operazionalizzati e studiati in relazione al BPD o integrati all’interno di trattamenti. Tali concetti sono la mindfulness, la mente psicologica (psychological mindedness), l’empatia e la consapevolezza dell’affetto. Di ciascuno presentano le aree di sovrapposizione e di differenziazione rispetto alla mentalizzazione.

Per riassumere quanto emerge viene riportato un diagramma di Venn molto interessante ed esaustivo.

Mentalizzazione

La mindfulness intesa come la “capacità di mantenere viva la consapevolezza verso la realtà presente” deriva dalle pratiche di meditazione orientali ed è stata adoperata all’interno di alcuni trattamenti, come nella terapia dialettico-comportamentale (DBT) di M. Linehan. Articolando meglio la definizione iniziale, gli Autori spiegano come la mindfulness consiste nella capacità di osservare e descrivere la propria esperienza mentre vi si partecipa in maniera non giudicante. Il termine è stato concettualizzato in un modello biforcato costituito dai domini della regolazione dell’attenzione e dall’accettazione e apertura verso le esperienze. Da studi di analisi fattoriale sono state identificate quattro abilità alla base della mindfulness e sono le abilità di osservazione, descrizione, agire consapevolmente e di accettazione senza giudizio. Tale lavoro di decostruzione chiara ed empiricamente derivata ha consentito di operazionalizzare il concetto e di inserirlo all’intero di diversi trattamenti terapeutici. Un punto di convergenza tra mindfulness e mentalizzazione sembra riguardare la capacità di direzionare la propria attenzione sull’esperienza così da mitigare le tendenze  impulsive. Entrambe sottolineano un’integrazione degli aspetti cognitivi e affettivi degli stati mentali e favoriscono il riconoscimento e la partecipazione ad una esperienza interiore. L’area di sovrapposizione per gli Autori è limitata a solo una delle due modalità di funzionamento della mentalizzazione, quella esplicita, e a uno dei suoi due oggetti, il Sé. Altri tre punti distinguono la mentalizzazione dalla mindfulness. Il primo è legato agli oggetti verso cui può essere indirizzata la mindfulness e che non sono soltanto il Sé o gli altri ma anche gli oggetti inanimati. Il secondo concerne l’orientamento temporale esclusivamente verso il presente della mindfulness e che nella mentalizzazione abbraccia sia il passato che il futuro. L’ultimo punto tocca il rivolgersi della mindfulness all’accettazione dell’esperienza interna a fronte della costruzione delle rappresentazioni e del loro significato peculiari della mentalizzazione.

Il concetto di mente psicologica trattato da Choi-Kain & Gunderson riprende la formulazione di Appelbaum, in cui è intesa come “l’abilità di una persona di vedere le relazioni tra pensieri, sentimenti e azioni, con l’obiettivo di imparare i significati e le cause della propria esperienza e comportamento”. A tale definizione affiancano quella proposta da Farber, che aggiunge una dimensione interpersonale, in cui il concetto viene riformulato come“una disposizione a riflettere sul significato e la motivazione dei comportamenti, pensieri e sentimenti di sé e degli altri”. Viene ripresa dagli Autori la divisione del concetto di Appelbaum in quattro aspetti: il primo riguarda la capacità di ravvisare le connessioni tra significati e comportamenti e che richiede intuizione ed empatia; il secondo rimarca l’obiettivo del voler comprendere le azioni, ovvero un interesse al modo di lavorare della mente; terzo un pensare psicologico orientato al Sé; quarto la capacità di impegno e “l’idoneità” a un lavoro terapeutico. Come per la mindfulness, il concetto di mente psicologica è stato operazionalizzato, prima con misure self-report e dopo con analisi fattoriali e di comparazione con altri concetti psicologici. Per Choi-Kain & Gunderson le definizioni di mentalizzazione e mente psicologica si sovrappongono notevolmente, specie nella declinazione di Farber. Punti di contatto appaiono il lavoro mentale portato avanti con intuizione ed empatia, dunque l’eguale enfasi agli aspetti cognitivi ed emotivi, e l’interesse verso le modalità di lavoro della mente. Alcune differenze tra i due concetti potrebbero risiedere nel livello prettamente esplicito in cui opera la mente psicologica e il suo orientamento più spostato verso il sé che sugli altri. Inoltre, la capacità di scorgere le connessioni tra significati e comportamenti non implica una effettiva capacità di discernerli plausibilmente.

Dell’empatia gli Autori riportano tre aspetti che accomunano le varie definizioni e concezioni: una reazione affettiva che comporta la condivisione di uno stato emotivo con l’altro; la capacità cognitiva di immaginare la prospettiva altrui; una capacità di mantenere in modo stabile una distinzione sé-altro. L’empatia è stata oggetto di diverse modalità di studi, da quelli più neuroscientifici di neuroimmaging fino a misure self-report. Le sovrapposizioni e differenze col costrutto di mentalizzazione toccano diversi aspetti. In primo luogo entrambi implicano l’apprezzare gli stati mentali altrui, a cui però l’empatia aggiunge la condivisione e la preoccupazione. Inoltre, l’orientamento dell’empatia è rivolto più verso gli altri e nella mentalizzazione invece è equamente distribuito. Entrambe operano sia a livello implicito che esplicito ma l’empatia viene considerata specie nella sua modalità più implicita. Infine, il contenuto dell’empatia, come per la mentalizzazione, comporta l’uso di abilità cognitive ma è focalizzato soprattutto sugli affetti.

La consapevolezza dell’affetto riguarda il rapporto tra “l’attivazione di base di affetti e la capacità individuale di percepire coscientemente, riflettere ed esprimere queste esperienze affettive” nei termini dei nove affetti base. Il concetto è stato operazionalizzato e inserito in alcuni trattamenti psicoterapeutici, prevalentemente in modelli di psicoterapie integrate. Lampante risulta la sovrapposizione con il costrutto di alessitimia, anch’essa operazionalizzata. Le sovrapposizioni tra consapevolezza dell’affetto e mentalizzazione, secondo gli Autori, appaino parziali ma rilevanti. Entrambe condividono la rappresentazione, consapevolezza e comunicazione degli stati mentali affettivamente carichi e la loro regolazione. Tale processamento degli affetti è in comune all’affettività mentalizzata e si basa sugli stessi aspetti: identificazione, elaborazione e comunicazione degli affetti. Altro aspetto condiviso è l’oggetto (sé-altro) a cui sono rivolte. L’affettività mentalizzata porta a una rivalutazione e regolazione dell’esperienza affettiva, che a sua volta consente al soggetto di mentalizzare e, in modo circolare, la mentalizzazione agevola la regolazione affettiva. La consapevolezza dell’affetto a differenza della mentalizzazione agisce ad un livello più esplicito, in quanto si centra sulla consapevolezza conscia e sull’espressione degli affetti e influenza contenuti mentali di carattere affettivo, mentre la mentalizzazione è di più ampio respiro.

Choi-Kain & Gunderson affrontano, infine, la questione dell’applicazione della mentalizzazione sia a livello di comprensione che di formulazione di un disturbo di personalità (PD).

Uno strumento abbastanza usato per valutare la mentalizzazione è la Reflective Function Scale (RF) che si applica a interviste semi-strutturate come l’Adult Attachment Interview (AAI). La Scala misura il grado di funzionamento riflessivo che viene rilevato attraverso l’inferenza di quattro “marker” di categorie di riflessività e della loro “qualità” nelle verbalizzazioni dei partecipanti. Tali indicatori si basano sulla presenza o meno di consapevolezza degli stati mentali, sugli sforzi espliciti di cogliere stati mentali sottesi ai comportamenti, sul riconoscimento degli aspetti evolutivi degli stati mentali, e sulla presenza di stati mentali del partecipante nei confronti dell’intervistatore. Per la valutazione, le domande sono divise in due tipologie: quelle che “consentono” di dimostrare capacità riflessive e quelle che le “richiedono” espressamente. Il punteggio prevede un range di assegnazione che va da -1 a +9, dunque da un FR negativa (-1) a eccezionale (9). Tale strumento, per Choi-Kain & Gunderson, soffrirebbe però in alcuni profili di validità, non completamente testata, e nei costi e tempi che richiede, finendo per limitarne l’uso nella ricerca. Utilizzo che sarebbe però necessario, considerando la proposta dell’idea che la mentalizzazione rappresenti il meccanismo fondamentale tramite cui diventa efficace il lavoro terapeutico. Secondo Choi-Kain & Gunderson, la mentalizzazione rappresenterebbe anche una sorta di euristica utile che consente un approccio coerente dei terapeuti ai trattamenti. L’ampio respiro del costrutto però rende critica e problematica la possibilità di identificarla, come si vorrebbe, alla stregua di un marker per forme specifiche di psicopatologia come il BPD. Per sostenere tale ipotesi, gli Autori riportano le ampie oscillazioni della mentalizzazione durante l’intero corso di un trattamento per un BPD. Nondimeno, anche il livello della funzione riflessiva varia in funzione della persona a cui è indirizzata (contesto-dipendenza). Tali osservazioni solleverebbero forti dubbi sulla possibilità che la mentalizzazione possa essere il cuore del problema del BPD. Per rispondere a questi quesiti Choi-Kain & Gunderson auspicano che le future ricerche chiariscano i rapporti tra mentalizzazione, concetti affini, funzione riflessiva e BPD.

In conclusione concordiamo con l’auspicio di Choi-Kain & Gunderson di delimitare e chiarire meglio il dominio concettuale della mentalizzazione. Tale tentativo in sé è pregevole sia sul piano teorico che clinico perché va a intaccare un atteggiamento scientificamente errato e controproducente di autoreferenzialità e di mancata verifica “popperiana”, che porta a sfornare grandi moli di ricerche senza un’adeguata riflessione sui costrutti. Inoltre, una definizione più delimitata, consensualmente accettata e operazionalizzata contribuirebbe, altresì, a formare un vocabolario comune e il più condiviso possibile, base indispensabile ad una disciplina scientifica e al suo percorso evolutivo.

In questo senso stiamo ultimando una ricerca qualitativa di chiarificazione degli aspetti teorici ed applicativi del costrutto presso l’Università di Urbino. Tramite il metodo qualitativo CQR (Consensual Qualitative Research) si è indagata l’opinione e l’esperienza dei più autorevoli ricercatori e clinici italiani. L’analisi dei dati, che sta volgendo alla fine, mostra come vi siano le più eterogenee prospettive a riguardo. Nonostante la complessità dei punti di vista sul costrutto, emergono però alcuni aspetti centrali su cui sembrano convergere i dati. Il quadro completo e comprensivo degli ambiti e delle categorie delineatesi saranno presentate quanto prima.

 

Bibliografia:

  • Allen J. G., Fonagy P. & Bateman A. W (2008) Mentalizing in Clinical Practice. Washington, DC: American Psychiatric Publishing. Tr. It. La mentalizzazione nella pratica clinica. Cortina Raffaello, Milano.
  • Choi-Kain L. W. & Gunderson J. G.. (2008). Mentalization: Ontogeny, Assessment, and Application in the Treatment of Borderline Personality Disorder, American Journal of Psychiatry, 165, 1127–1135.

Distrarsi o pensarci: due strategie per affrontare le emozioni negative

Anxiety - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/herry/Leggiamo su PsyPost una ricerca molto interessante sulle differenti modalità con cui gli esseri umani regolano le proprie emozioni negative. Uno studio, che verrà pubblicato sul prossimo numero di Psychological Sciencemostra come le persone rispondono in modo differente alle situazioni che provocano emozioni negative.

Tutti sappiamo quanto per noi le emozioni siano importanti e quanto ci aiutino a dare significato alle nostre esperienze, ma in alcuni casi, possono diventare un problema. Pensiamo alle ruminazioni depressive…

Sheppes e colleghi, autori della ricerca, si sono posti l’obiettivo di comprendere quali strategie regolative le persone scelgono quando si trovano di fronte a situazioni che inducono emozioni negative di diversa intensità. Prima dell’esperimento, i soggetti hanno seguito un training sulle due strategie, distrazione (distraction) e rivalutazione cognitiva (reappraisal) e durante l’esperimento, è stato chiesto loro di riferire la strategia messa in atto.

In un primo esperimento, ai soggetti, messi di fronte a immagini inducenti emozioni negative di diversa intensità (ad esempio, un serpente nel giardino come bassa intensità e un serpente in fase di attacco con le fauci aperte pronte a mordere come alta intensità) è stato chiesto di riferire quale strategia per regolare la propria attivazione emotiva stessero mettendo in atto per gestire l’emozione indotta.

In un secondo esperimento, ai soggetti veniva chiesto di scegliere una strategia per regolare la propria attivazione emotiva mentre erano in attesa di piccole scariche elettriche, somministrate dagli sperimentatori in modo imprevedibile; l’unico dato conosciuto dai soggetti era l’intensità della scarica successiva.

In entrambi gli esperimenti è emerso come, durante le situazioni a bassa intensità emotiva negativa, i soggetti preferissero la strategia della rivalutazione cognitiva (reappraisal), tale per cui pensando a quello che stava succedendo utilizzavano un dialogo interno “funzionale” con lo scopo di rileggere cognitivamente e “neutralizzare” l’emozione negativa. Nelle situazioni ad alta intensità emotiva negativa, invece, preferivano distrarsi cercando stimoli esterni all’esperimento che potessero impegnarli cognitivamente e permettergli di distogliere l’attenzione dagli stimoli che inducevano emozioni negative ad alta intensità.

Questi interessanti esiti di una ricerca di base possono avere utili risvolti applicativi anche in psicoterapia. Infatti, comprendere come le persone che non presentano problematiche psicopatologiche si autoregolano emotivamente può permettere di intervenire efficacemente sui pazienti con disturbi dell’umore o disturbi d’ansia, i quali sembrano avere difficoltà proprio nel riconoscere in modo flessibile l’utilità di diverse strategie di autoregolazione nelle diverse situazioni inducenti emozioni di diversa intensità.

Bibliografia:

http://www.psypost.org/2011/07/distract-yourself-or-think-it-over-two-ways-to-deal-with-negative-emotions-5901

J.J. Gross (Ed.) (2007). Handbook of emotion regulation. New York: Guilford Press.

Il sadomasochismo dei professionisti

Questo articolo è apparso su Affaritaliani.it – Titolo originale: “Giochi mortali”. C’è anche chi invoca la professionalità – Lunedí 12.09.2011 11:05

BondageQuando il rischio del gioco erotico sado-maso fa uscire il numero nero della morte, tutte le colte finezze dell’immaginazione lasciano il posto alla realtà della debolezza umana. Prosegui la lettura su Affari Italiani.

Psicologia dell’euro

Questo articolo è apparso su Affaritaliani.it – Titolo originale: “Bisogna cercare un alternativa all’euro” – Lunedí 12.09.2011 09:34

Euro - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/uggboy/Uscire dall’euro? E perché? O perché no? A queste domande devono rispondere i cittadini, i politici e gli economisti. Invece io posso tentare di capire non tanto quali possano essere i risvolti psicologici di queste domande… leggi il resto dell’articolo su Affari Italiani.

Paese depresso, ma non “di merda”

Questo articolo è apparso su Affaritaliani.it – Martedí 06.09.2011 12:27

berlusconi“Vado via da questo paese di merda!” ha detto Berlusconi al telefono. Lo hanno intercettato qualche giorno fa, e la notizia è ancora fresca. Sentire queste parole da Berlusconi è straniante. L’uomo ha già mostrato molteplici cadute e difetti ma finora sembrava lontano dal querulo rimuginare… leggi il resto dell’articolo.

Senso di appartenza e apertura verso l’altro

Rainbow Flag - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/myloonyland/430364996L’appartenere a un gruppo, a una cultura, e –perché no- a un popolo, o a tutte queste vecchie cose di pessimo gusto è uno di quei bisogni umani che tendono a essere disconosciuti dalla mentalità dei nostri tempi. Roy F. Baumeister è stato colui che ha dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie. Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non eliminato (Baumeister, Leary, 1995).

Il bisogno di appartenenza è una componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Ma la socializzazione presuppone non solo apertura, ma anche chiusura. Certo, un grado di chiusura che non dovrebbe mai degenerare in aggressione attiva e ingiustificata. Ma la chiusura, anche se parziale e controllata dalle forze della ragione, trova il suo carburate originario in un bisogno emotivo di sicurezza e di ragionevole prevedibilità del comportamento e delle intenzioni altrui. Per capirci: è verissimo che, da un punto di vista strettamente logico, è irrazionale la tendenza comune a fidarsi di più di coloro che classifichiamo come culturalmente affini (o peggio, etnicamente affini). Ma si tratta ancora una volta di una di quelle scorciatoie emotive che la mente utilizza per tirare avanti in un mondo complesso e difficile. Fingere che sia possibile eliminare all’istante le barriere culturali è un’operazione gratificante per se stessi. Ma è un piacere sterile e la vera apertura, quando è genuina e fruttifera è fatta di disagio, quel disagio che è sagnale di un vero sforzo assimilativo, e non di superficiale amichevolezza.

Negli altri si cercano anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, sensibilità, storia personale, cercano perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie. Le persone, scrivono Baumeister e Leary (1995) cercano nel contatto non solo la novità e lo stimolo, ma anche un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi. Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise. Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro apparizioni.

L’uomo occidentale a volte sembra soffrire di una percezione di esclusione e di risentimento verso la propria stessa cultura. È vero che spesso la cultura occidentale -soprattutto europea- appare un frutto troppo maturo che ha perso la capacità di rigenerarsi. Mi viene in mente l’esempio della musica classica: sarà semplicistico dire che è troppo perfetta per rinnovarsi, ma in parte è così. Stesso discorso potrebbe farsi per il romanzo o il cinema europei continentale, indeboliti dall’eccesso di sperimentalismo e introspezione e dalla rarità di scene d’azione e trame avventurose.

E tuttavia questo sentimento di esclusione dal proprio retaggio non può essere gestito solo con una fuga verso luoghi culturali che non sono i propri. Secondo alcuni, si tratta di una strategia che dietro il rifiuto si nasconde il sentimento di esclusione (Crocker, Major, 1989; Procacci, Pellecchia, Popolo, 2010). La percezione di esclusione si tramuta in un sentimento di separatezza e di compiacimento di una propria supposta singolarità, fino a cercare di integrarsi in gruppi minoritari estranei alla propria cultura di origine (Major, Gramzow, McCoy, e coll., 2002; Procacci, Pellecchia, Popolo, 2010). Insomma è plausibile che l’eccesso di tolleranza per il diverso, quando unito a un rigetto della propria cultura, non sia affatto sostenuto da un sincero e positivo desiderio di aiutare l’integrazione degli immigrati nella società occidentale. Al contrario, si tratta del desiderio di sfuggire alla propria cultura e di fondersi in un altro ambiente. Cosicché viene il sospetto che in fondo si desideri che questo ambiente culturale alternativo rimanga non integrato.

 

Bibliografia:

  • Baumeister, R.F., Leary, M.R. The need to belong: Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation. In «Psychological Bulletin», 117, 1995, pp. 497- 529.
  • Brewer, M.B. The social self: On being the same and different at the same time. In «Personality and Social Psychology Bulletin», 17, 1991, pp. 475-482.
  • Crocker, J., Major, B. Social stigma and self-esteem: The self-protective properties of stigma. In «Psychological Review», 96, pp. 608-630.
  • Major, B., Gramzow, R.H., McCoy, S., Levin, S., Schmader, T., Sidanius, J. Ideology and attributions to discrimination among low and high status groups. In «Journal of Personality and Social Psychology», 82, pp. 269-282.
  • Procacci, M., Pellecchia, G., Popolo, R. Il bisogno di appartenenza come motivazione autonoma». In M. Procacci, R. Popolo, N. Marsigni (a cura di ), «Ansia e ritiro sociale». Milano. Cortina, 2010, pp. 49-88.

EABCT 2011: tre impressioni finali

Ruggiero_reykjavikTre impressioni conclusive dal congresso EABCT 2011 e uno  sguardo di saluto a Reykjavik, città di piccole case. Rimane in  mente il primo quarto d’ora di Clark, surreale lezione sul  modello cognitivo della fobia sociale talmente risaputa da rasentare la provocazione e tradire l’affanno di chi teme di  aver già detto in passato quel che aveva da dire e di essersi  ritrovato per caso o per errore ancora sul palco a contemplare  come si possa sopravvivere alla propria vitalità.  Rimane in mente l’assenza della metacognizione di Wells e della ACT di Hayes, saperi clinici che paiono avviarsi verso quelle una di scissioni che speravamo non affliggessero il cognitivismo clinico. E rimane in mente invece la pervasiva presenza della mindfulness, unico sostegno innovativo allo scheletro del cognitivismo standard. Strano destino, il razionalismo cognitivo forte, attivo e consapevole che si sposa a una pratica contemplativa che sembra invece rinnegare ogni aspirazione alla padronanza  mentale attiva. È questo il futuro? Metacognizione e ACT salpano per l’altrove, mentre la mindfulness è l’improbabile sposa orientale del cognitivismo standard. All’EABCT 2011 parrebbe di si.

***

Reykjavik si è dimostrata ospitale. Piccola capitale del nord, la sua estate corrisponde a un terso inizio di aprile italiano con qualche crudeltà metereologica. Case basse dipinte di bianco e tutte con giardino come si usa al nord. Una lunga strada costeggiata di pub ospita una vita notturna brilla ma apparentemente priva delle esagerazioni alcoliche di altri paesi freddi. Molti pub avevano una saletta per ballare al piano di sopra salendo le scale, ma con finestre sulla strada che impedivano la claustrofobia di altre discoteche d’occidente. Nel 2012 a Ginevra.

Omega 3, formula per essere (anche) più felici

Omega3 - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/gi/52518258/Che l’olio di fegato di merluzzo facesse bene alla salute ce lo dicevano già i nostri nonni, ma ora la ricerca scientifica ci dice di più: i ben noti Omega 3, oramai venduti sotto forma di integratori alimentari di ogni genere, allevierebbero anche i sintomi depressivi. Ma che cosa sono esattamente queste sostanze e come agiscono sul nostro organismo? Gli Omega 3 non sono altro che catene di grassi polinsaturi essenziali che si trovano prevalentemente in pesci, crostacei, noci e alcuni oli vegetali e che sono indispensabili al mantenimento delle membrane cellulari. Va sottolineato che negli ultimi 150 anni nelle culture occidentali si è assistito a un sostanziale cambiamento nelle abitudini alimentari, ovvero si è andati via via sostituendo grassi polinsaturi derivanti da pesce e verdure con grassi saturi animali e oli di semi, con evidenti conseguenze sul nostro sistema cardiovascolare. Negli ultimi due decenni, però, diversi studi epidemiologici hanno messo in evidenza qualcosa di ancora più ampio, in particolare un effetto che questi Omega 3 avrebbero sui disturbi dell’umore e in particolare sulla depressione. Studi condotti in Islanda, Finlandia e sulle popolazioni circumpolari hanno evidenziato una correlazione inversa tra alimentazione a base di pesce e depressione stagionale. Risultati analoghi vengono pubblicati anche su The Journal of Nutrition, Health & Aging, in cui donne depresse che assumono quotidianamente integratori di Omega 3 mostrano una significativa diminuzione dei sintomi depressivi; anche l’Australian and New Zeland Journal of Psychiatry riporta un articolo in cui il livello di depressione si ridurrebbe addirittura del 50% in persone che assumevano integratori di Omega 3, avendo un effetto del tutto simile al farmaco antidepressivo fluoxetine. Questi risultati sembrano molto promettenti, ma sul come avviene questa connessione tra acidi grassi ed effetto antidepressivo i dati non sono ancora definitivi. A livello neurofisiologico sembrerebbe che tali sostanze favoriscano la diminuzione degli acidi grassi saturi all’interno della membrana cellulare e nel plasma e che aiutino la produzione di determinati enzimi che inibiscono sostanze presenti nel sangue associate allo stato depressivo. Inoltre, la proprietà già note degli Omega 3 di mantenere l’integrità delle membrane cellulari favorirebbe una maggiore fluidità delle sostanze all’interno e all’esterno della cellula e aiuterebbe la metabolizzazione di alcune monoamine implicate nella depressione. Gli acidi polinsaturi, poi, influiscono sul nostro sistema cerebrale incoraggiando la plasticità sinaptica, favorendo la protezione delle cellule cerebrali e facilitando la neurotrasmissione. Studi di brain imaging su pazienti depressi hanno dato supporto a questa ipotesi, mostrando appunto come nel campione di soggetti a cui era stata somministrata una dose elevata di Omega 3 la fluidità delle delle membrane cellulari sia significativamente maggiore rispetto al campione di controllo. Anche se le ricerche in questo ambito sono ancora piuttosto scarse e si tratta di studi correlazionali, le implicazioni cliniche sono già notevoli sia dal punto di vista del trattamento della depressione – e più in generale anche dei disturbi dell’umore – sia dal punto di vista della qualità della vita che possiamo offrire ai nostri pazienti.

Bibliografia:

  • M. Rondanelli, A. Giacosa, A. Opizzi, et al. (2010). Long chain omega 3 polyunsaturated fatty acids supplementation in the treatment of elderly depression: Effects on depressive symptoms, on phospholipids fatty acids profile and on health-related quality of life, The Journal of Nutrition, Health & Aging.
  • Parker G, et al. (2006). Omega-3 Fatty acids and mood disorders, Am J Psychiatry, 163:969–978.

“Amore non è Amore se (non) muta”

amoreDue persone, una coppia, un matrimonio, il nucleo da cui si sviluppa la famiglia, in altre parole l’unità fondamentale della società. Naturale quindi che da sempre lo studio della relazione che nasce tra moglie e marito abbia catturato l’attenzione dei ricercatori con lo scopo di indagare i fattori che rendono quest’unione duratura e, soprattutto, soddisfacente.

Nel corso degli anni sono state proposte differenti “ricette del matrimonio perfetto”, questo perché nel corso della storia i motivi per cui ci si sposa, sono molto cambiati. Un tempo il “matrimonio tradizionale” era un vero e proprio contratto fondato su interessi economici, alleanze politiche e status sociali. Col tempo e lottando contro chi sosteneva che solo il matrimonio tradizionale potesse garantire un unione felice, quest’usanza è decaduta per lasciare il posto al “matrimonio moderno”, ovvero quello basato sui sentimenti. Oggi ben l’80% dei soggetti intervistati sostiene che non potrebbe sposare una persona della quale non fosse innamorato. Così spesso si pensa al matrimonio basato solo sull’amore romantico, come quello che viene rappresentato nei film, dove la coppia si distingue soprattutto su gesti eclatanti, frasi romantiche e tramonti in riva al mare. Ma questi saranno veramente i presupposti per “…e vissero per sempre felici e contenti”? !?

I ricercatori pensano di no. Diversi studi dimostrerebbero come i matrimoni che si basano solo sulla passione siano destinati a fallire molto rapidamente. Con il passare del tempo la soddisfazione della coppia tenda inevitabilmente a diminuire (Van Laningham et al. 2001), a causa di problemi che la coppia non riesce a risolvere ad esempio la mancanza di intimità e di attività condivise o la riduzione dei rapporti sessauli (Rogge & Bradbury 2002). Un altro aspetto che sembrerebbe emergere dalle ricerche è che, contrariamente a quanto si pensa, non sia tanto la presenza di sentimenti negativi a portare alla lunga ad una rottura definitiva, quanto la lenta diminuizione, fino alla scomparsa, di sentimenti “positivi”, pazienza, comprensione, dolcezza e scopi comuni, che permettano ai partner di trovare le motivazioni per superare le difficoltà che si presenteranno.

Proprio a causa di questo andamento discendente dell’amore, affinchè la coppia duri nel tempo, è indispensabile che non si basi solo su un forte amore romantico, ma che a questo si accompagni quello amicale così da permettere, grazie ai sentimenti di vicinanza e alla condivisione di obiettivi e interessi comuni, nuove soluzioni a vecchi problemi (Berscheid 2010).

La domanda di sempre resta ancora però: l’amore eterno esisterà? la risposta sembrerebbe affermativa, ma, a differenza di quanto di quanto affermava Shakespeare in un celebre sonetto: non resta sempre identico a se stesso, ma continua a mutare e a trasformarsi parallelamente ai cambiamenti in chi lo prova.

  • Ellen Berscheid (2010) “Love in the Fourth Dimension”; Annu. Rev. Psychol. 61:1–25
  • Van Laningham J, Johnson DR, Amato P. (2001) “Marital happiness, marital duration, and the U-shaped curve: evidence from a five-wave panel study”. Soc. Forces 79:1313–41
  • Rogge RD, Bradbury TN. (2002) “Developing a multifaceted view of change in relationships”. See Vangelisti et al. 2002, pp. 228–53

EABCT 2011: Sulla ruminazione e oltre

ruminazione

Al congresso EABCT non potevo certo mancare a un simposio sulla ruminazione depressiva. Tra quelli a disposizione scelgo le presentazioni curate da Nick Moberly e colleghi, affiliati all’Università di Exeter e vicini ai lavori teorici e clinici di Ed Watkins e della Rumination-Focused Cognitive Behavioral Therapy. Nutrivo la convinzione di poter trovare quel raro connubio tra ricerca scientifica e pratica clinica. Non mi sono sbagliato. La domanda del simposio era: cosa spinge i pazienti depressi a ruminare in modo così costante e prolungato?  Perché è così difficile smettere? Le risposte certamente stimolanti.

Ricordo a mo’ di premessa che altri studiosi di ruminazione depressiva (Adrian Wells e Costas Papageorgiou) hanno suggerito come il motore del pensiero analitico, ricorrente e negativo abbia sede in alcune regole o convinzioni, più o meno esplicite, ormai radicate nella mente delle persone. Alcune di queste convinzioni sottolineano l’ipotetica utilità del ragionamento astratto: analizzare il mio malessere mi aiuta a capirne le cause, solo se mi analizzo posso uscire da questa condizione, se comprendo il perché le cose succedono posso essere una persona migliore. Altre convinzioni invece sono di tipo negativo: non riesco a smettere di pensarci e di analizzarmi, tutto questo pensare prima o poi appesantirà gli altri e li allontanerà. Regole e credenze malsane sulla ruminazione sarebbero quindi il bersaglio principale delle frecce tecniche del terapeuta.

Dall’altra sponda del fiume cognitivo, Martin e Tesser (1996) pensano che la ruminazione depressiva si attiverebbe qualora scopi e obiettivi personali siano frustrati. Seguendo questa linea teorica, Moberly e collaboratori, descrivono la ruminazione come diretta conseguenza (naturalmente controproducente) di un eccessivo attaccamento ai propri scopi, sia legati al momento presente, che di tipo esistenziale. Sappiamo che la tristezza serve all’uomo per riorganizzare i propri scopi e le proprie scelte a fronte di una perdita o di un fallimento. Ma cosa succede se la persona non è disposta a cambiare i propri scopi? Resta attaccata a ciò che ha perso (es: una persona cara, ma anche un lavoro) o all’ideale che vorrebbe raggiungere (es: diventare una rockstar ricca e famosa).

La tristezza e la depressione sono così il limite della perseveranza, cioè il confine oltre il quale ‘perseverare’ assume una valenza negativa e deleteria per il benessere emotivo. Invece alcune persone non riconoscono il valore e il ruolo della tristezza e non accettano di lasciare andare qualcosa a cui s’erano profondamente legati, fosse anche un desiderio. A loro non resterebbe che perdersi nei meandri della ruminazione.  In fondo l’ambizione che paga diventa nota agli occhi dei più, ma quanto è estesa per esempio l’ambizione che non paga? La ruminazione è un rifugio d’emergenza, ci illude di fare qualcosa mentre stiamo solo pensando. Ci fa sentire ancora attaccati a uno scopo che in realtà non è raggiunto. Ci porta sollievo dal dolore che comporta rinunciarvi completamente.  In sintesi, quando la tristezza è intensa e lo scopo irrecuperabile o lo abbandoni o ti ci attacchi con il pensiero, poiché non esistono altre azioni concrete da svolgere.

La linea terapeutica diventa quindi quella di salire oltre il gradino dei processi immediati, il qui e ora, il nucleare. Occorre salire e toccare tasti esistenziali, connessi al progetto di vita, tasti che possono ostacolare l’abbandono della ruminazione. Occorre toccare  gli obiettivi che il paziente non vuole abbandonare, mostrargli ciò che sta evitando. Mi allargo ancora. Occorre toccare il significato dell’abbandono di questi obiettivi. Poiché l’attaccamento a essi, attraverso la ruminazione, impedisce in qualche modo di accettare il dolore di una perdita o di un fallimento, su scala anche esistenziale. In fondo ritornano due temi centrali delle recenti riflessioni di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero, che spero di interpretare correttamente. La prima: io posso ruminare su temi astratti ora per non toccare il concreto fallimento (o abbandono) di scopi esistenziali e di componenti importanti del mio progetto di vita. La seconda:se imparo a regolare la ruminazione e a ridurla, allora passo attraverso un contatto di maggiore sofferenza emotiva, la cura cioè passa anche attraverso fasi di peggioramento dello stato d’umore.

Forse anche nel mondo della ricerca si sta iniziando a costruire un ponte empirico tra il funzionamento specifico del momento presente e la traiettoria cognitiva esistenziale.

EABCT 2011: Beliefs over control interact with intolerance of uncertainty and metacognition on worry

EABCT 2011: Marsha Linehan

EABCT 2011: ReykjavikEABCT 2011, Reykjavik. Una cornice spettacolare per la mia iniziazione. Da novellina a questa emozionante esperienza europea, mi avvicino ai grandi nomi con il rispetto reverenziale che meritano.

Terzo giorno EABCT, keynote serale di Marsha Linehan, con un update sugli Emotion Regulation Skills proposti dalla Dialectical Behavior Therapy. Sala gremita, con partecipanti che arrivano a prendere posto mezz’ora prima. Puntuale alle 16:30 sale sul palco la Linehan iniziando con una breve introduzione alla DBT e al motivo per cui era stata inizialmente concepita: “suicide is an important factor: if you want to treat you patient, you first have to keep him alive” è lo statement di apertura, pragmatico, in tipico stile americano, e a seguire una carrellata di informazioni sullo stato dell’arte della DBT. Alcuni dati di evidenza scientifica: l’insegnamento di abilità di gestione delle emozioni sembra essere un fattore cruciale che media gli effetti della DBT; questi skills comprendono tecniche di mindfulness (la mindfulness sembra l’argomento alla moda di questo congresso, esplorata ampiamente da Melanie Fennell ieri e da vari simposi distribuiti nelle diverse giornate), esercizi per la tolleranza delle emozioni negative, la regolazione emotiva e l’efficacia interpersonale.

La Linehan sottolinea l’importanza dei gruppi skills all’interno della terapia dei pazienti con disturbo borderline di personalità, restringe lo scopo di questi gruppi al solo e unico insegnare abilità e metodologie senza entrare nel merito della sofferenza del singolo paziente, che è invece tutta affidata al terapeuta individuale. Il fine ultimo di questi gruppi è infatti l’insegnamento al paziente di comportamenti finalizzati alla regolazione emotiva, come primo step verso la gestione più funzionale delle proprie emozioni percepite ora come intollerabili.

Continuando con il chiaro stampo concreto che la contraddistingue, la Linehan va avanti e elenca alcune delle abilità che è opportuno insegnare al paziente: se il disagio emotivo sta in un dato di fatto, la risposta è il problem solving concreto; se invece concentrare la propria attenzione su un aspetto del problema non è utile ma provoca sofferenza, la soluzione è la distrazione.

Mi affascina guardare al mondo dei disturbi di personalità attraverso le lenti della Linehan. Vedere come i pazienti siano concepiti come bambini, come inesperti delle emozioni e delle abilità di gestione emotiva, e non come persone “disturbate”. Viene proiettata una sorta di flow-chart decisionale che aiuti i pazienti stabilire se e come esprimere il proprio disagio, come interrogarlo per capire meglio quale sia la situazione reale e quale quella esperita da loro nel momento di sofferenza. I pazienti sono guidati da caselle che chiedono “la mia emozione è adeguata alla situazione?”, e procedono in base alle risposte per arrivare a definire il comportamento più consono da mettere in pratica.

Il comportamento per cambiare l’emozione, ancora prima di lavorare sulle cognizioni e le credenze. Mi ricorda l’apprendimento dei bambini, che prima di arrivare all’età del “perché, mamma?” si fanno guidare mano nella mano verso cosa sia più opportuno fare in determinate situazioni. Vedo questa donna energica e positivamente agguerrita dire ai suoi pazienti “per ora non chiedere, non hai ancora gli strumenti per gestire la situazione da solo. Nessuno te lo ha mai insegnato, te lo insegno io”. Puntuale con la mia riflessione, la Linehan colora di aneddoti i dati riportati, come l’importanza di dare fiducia al paziente anche a fronte di una sua evidente bugia, esperienza per lui riparatoria, che può arrivare a fargli dire “Marsha, you are the first person who decided to believe me”.

Affascinante, complicato, impegnativo. Stimolante. Hopeful.

EABCT 2011: “Yes…But…” Cognitive response to partial success: an exploratory research

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey YoungE ora tocca alla Schema Therapy di Jeffrey Young. Che ne pensate? Per aiutarvi a capire e farvene un’idea, vi racconto cosa ho ascoltato qui a Reykjavik da un simposio e da una keynote dedicate a questo modello terapeutico. Keynote e simposio entrambi curati da Arnoud Arntz, che è ormai il proconsole in Olanda e forse in Europa di Jeffrey Young.

Tra i nuovi modelli emersi, la Schema Therapy è quello in qualche modo che più rimane fedele al principio cardine del cognitivismo clinico classico: l’approfondimento dei contenuti mentali. A differenza della ACT di Hayes, della terapia metacognitiva di Wells o delle varie terapie basate sulla mindfulness, tutte terapie che in qualche modo invitano a pensare meno e che teorizzano che il pensare bene coincida con il pensare poco, la Schema Therapy di Young invece propone un ricco campionario di schemi cognitivi applicabili ai disturbi di personalità.

Ma se si fosse limitato a questo, Young non avrebbe in fondo proposto nulla di nuovo rispetto a un’operazione già effettuata da Beck, che anch’egli si cimentò nella descrizione delle credenze cognitive dei disturbi di personalità. Young aggiunge ai contenuti mentali cognitivi delle componenti emotive, esperienziali, interpersonali, evolutive e comportamentali.

Il quadrato emotivo-esperienziale-evolutivo-interpersonale è il contributo più caratterizzante della Schema Therapy. Per Young i contenuti cognitivi distorti, le credenze insomma, devono essere analizzati nella loro radice evolutiva, cioè nella loro origine in esperienze infantili dolorose, e vanno trattati non solo attraverso la ristrutturazione cognitiva esplicita, ma anche attraverso una rievocazione emotivamente vivida dell’esperienza relazionale dolorosa (per lo più si tratta di interazioni con i genitori) e una consapevole riscrittura del copione esperienziale in termini non traumatici.

Per fare questo Young si serve di 4 modelli che rappresentano le parti in gioco nel copione relazionale traumatico, modelli che Young chiama modes:

  • il protettore distaccato (detached protector mode);
  • il genitore punitivo (punitive parent mode);
  • il bambino arrabbiato e impulsivo (angry impulsive child mode);
  • il bambino abbandonato/abusato (abandoned/abused child mode);

A queste figure si aggiunge il cosiddetto genitore sano (healthy parent). Ho appena usato il termine “figura” non a caso. Quelle di Young non sono solo credenze o costellazioni di credenze, ricordi, idee, valori, stili relazionali, ma modelli interni e rappresentazioni interiori che agiscono con l’unitarietà d’azione di personaggi che recitano un dramma interiore che poi diventa esterno, concreto.

Infatti anche le figure genitoriali, i “parental mode” del protettore distaccato e del genitore punitivo per Young corrispondono non solo a reali comportamenti che il paziente subì in età precoce dai genitori, ma anche a rappresentazioni interne che continuano a condizionare i contenuti cognitivi ed emotivi della vita mentale del paziente e che il paziente non solo subisce, ma è in grado di impersonare e rivivere a sua volta e a far subire a chi lo circonda. Ecco che dunque il paziente diventa a sua volta un protettore distaccato o un genitore punitivo.

Tutto questo, che effettivamente ha molto in debito con la teoria psicodinamica, rimane però formulato in termini di teoria cognitiva, cioè secondo una visione della mente come elaboratore di informazioni. I “mode” rimangono costellazioni di credenze in grado di ricombinarsi in continuazione. I personaggi interiori rimangono una metafora, non diventano mai agenti totalmente indipendenti che condizionano la vita interiore del soggetto come se agissero dall’esterno.

A questa concezione evolutiva e interpersonale corrisponde un trattamento molto esperienziale, in cui il paziente è incoraggiato a esprimere i vissuti più intensi e dolorosi. Per Young questo elevato livello di temperatura emotiva è indispensabile per arrivare a una vera ristrutturazione, che non può essere solo cognitiva ma esperienziale. Questo significa che per Young il paziente non solo deve diventare più consapevole dei suoi “mode” e di quelli che mettevano in atto i suoi genitori, ma deve anche vivere in seduta il “mode” sano che non ha potuto ricevere durante lo sviluppo: lo “healthy parent”, il genitore accogliente e non giudicante ma anche capace di fornire delle regole in maniera non distaccata.

Chi può e deve impersonare per il paziente questo “healthy parent” è, per Young il terapeuta stesso, secondo in processo denominato di “limited reparenting”, rigenitorializzazione limitata e controllata. Il terapeuta in seduta non solo sottolinea i momenti in cui il paziente impersona i vari “mode” ma cerca sempre di reagire secondo il “mode” del genitore sano. L’obiettivo non è soltanto banalmente trattare bene il paziente maltratto, ma rappresentare concretamente la figura sana che riesce a gestire ragionevolmente i propri impulsi e alla lunga trasmetterla al paziente sia per la via consapevole e razionale che attraverso quella inconsapevole e esperienziale. Il paziente dovrebbe così a sua volta diventare in grado di concepirsi e trattarsi in maniera accogliente, non giudicate e capace di darsi e seguire delle regole, ma non in maniera distaccata e anaffettiva.

Fin qui il modello di Young, su cui molto di sarebbe da dire e anche da obiettare. Il modello appare molto completo, forse il più esaustivo nel trattare l’interezza della persona reale tra quelli finora prodotti dal cognitivismo clinico. Non pare però che Young abbia dato ancora abbastanza importanza agli scopi di vita del paziente, in grado anche essi di modellare la personalità, e non pare che si sia data attenzione ai momenti di crisi e incomprensione tra paziente e terapeuta. Il genitore accoglie ma al tempo stesso regola, e in questo regolare sono inevitabili delle frizioni. Forse anche Young indulge al difetto cognitivista di rappresentare la relazione terapeutica come un processo sempre armonico senza scossoni.

Ma passiamo ora alla plenaria e al simposio di Arntz, entrambi molto interessanti. Arntz infatti non si è limitato a riversare sull’uditorio la solita carrellata di dati che dimostrano quanto questa terapia sia efficace. Intendiamoci, ha comunque mostrato dati positivi, quasi trionfali (anche troppo, un po’ di prudenza non guasta). La Schema Therapy si sarebbe dimostata superiore alla transference focused therapy (TFP) di Kernberg e alla Dialectical-Behavioral Therapy (DBT) della Linehan nel trattamento dei pazienti borderline. Inoltre, dice Arntz, la Schema Therapy può essere adattata per gruppi di pazienti molto gravi in ambiente ospedaliero psichiatrico (però aggiungendo una massiccia dose di skills training alla Linehan, va ammesso questo) e addirittura avrebbe effetto su una classe di pazienti tradizionalmente intrattabili come i sociopatici con problemi giudiziari (forensic patients).

Ma Arntz ha fatto anche un discorso critico e riflessivo sul processo terapeutico della Schema Therapy. Insomma, si è chiesto come funziona la terapia di Young, senza dare per scontato che la dimostrazione dell’efficacia si tramuti automaticamente in dimostrazione del meccanismo ipotizzato teoricamente.

E quali meccanismi terapeutici ha discusso Arntz? Relazione, tecnica, modello teorico ed effetto del training. Sulla relazione Arntz ci ha tenuto a sottolineare che non si tratta del solito meccanismo aspecifico comune a tutte le psicoterapie, ma del tipico stile relazionale del terapeuta cognitivo: accogliente, direttivo e facilitante. Per Arntz questo tipico stile ha un effetto non generico, ma specifico per la terapia cognitiva. E lo dimostra portando dei dati che confrontano lo stile del terapeuta di Schema Therapy con un terapeuta di formazione analitica che segue il protocollo di Kernberg, la terapia focalizzata sul transfert (TFP). Il terapista TFP è meno direttivo e meno coinvolto direttamente nell’incoraggiare l’emersione di stati d’animo intensi. E questo atteggiamento sarebbe meno efficace di quello del terapeuta cognitivo di orientamento Schema Therapy.

Definita così, la relazione terapeutica è direttamente in connessione con la tecnica, che per Arntz è il fattore più probabilmente responsabile dell’efficacia della Schema Therapy. E come fa a sostenerlo Arntz? Citando studi di aderenza.  Cioè gli studi che correlano il grado di aderenza dei terapeuti ai principi tecnici della terapia che essi seguono. Nel caso della Schema Therapy, la correlazione è particolarmente forte e questo, per Arntz, significa che il contributo della tecnica al successo terapeutico è particolarmente forte. Questo significa che la combinazione di tecniche esperienziali con le tecniche classiche emotive è un’idea probabilmente vincente.

E il contributo del modello teorico? Per Arntz questo è un aspetto più difficile e complesso da dimostrare. Tuttavia si deve sottolineare come nel modello teorico di Young, tecnica e aspetti relazionali specifici siano intrecciati. Il modello teorico, dunque, più che essere un fattore che spiega direttamente l’efficacia della terapia potrebbe essere semmai la cornice che contiene coerentemente il tutto.

Infine l’effetto del training. Per Arntz, nel caso della Schema Therapy l’effetto positivo del training è particolarmente accentuato. Che vuol dire? Che terapeuti che hanno fatto l’intero training strutturato della scuola di Young sono molto più efficaci di terapeuti che hanno fatto solo corsi introduttivi, o solo videolezioni o che hanno studiato da soli il modello. Può sembrare una banalità, ma in un periodo in cui si sottolineano sempre più solo i fattori aspecifici questi dati invece appoggiano l’importanza degli aspetti unici e tipici della Schema Therapy.

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