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Psicologia di Guerre Stellari: Una diagnosi per Darth Vader

Darth Vader - Disturbo di identità - Autore: Costanza Prinetti

Il cinema e la letteratura rappresentano da sempre un’importante risorsa per noi psicoterapeuti. Anche per i professionisti del campo non è sempre facile collegare il mondo della scienza a quello dell’esperienza personale, in modo chiaro e convincente. I personaggi di film e libri ci vengono in soccorso per capire e far capire il significato concreto e tangibile di un disturbo psicologico e delle sue implicazioni.

Molti lettori conosceranno la saga fantascientifica di Star Wars (Guerre Stellari), un indiscutibile successo commerciale iniziato oltre venti anni fa e recentemente rilanciato da una nuova trilogia. Il protagonista di tutti i capitoli della saga è Anakin Skywalker, dapprima cavaliere Jedi protettore della Repubblica e poi principale alleato dell’impero nelle vesti del cattivo Darth Vader.

Alcuni ricercatori hanno suggerito che il successo della saga, soprattutto tra gli adolescenti, non sia semplicemente dovuto all’epicità della trama o alla qualità della regia, bensì al processo di identificazione che i suoi protagonisti, Anakin su tutti, riescono a produrre nell’osservatore (Buy et al., 2011).

Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda

In particolare, Anakin/Darth Vader è il cattivo di cui un ragazzo si innamora, non il cattivo che si desidera ardentemente vedere morto. Questo forse perché Darth Vader non è un semplice cattivo, ma un personaggio afflitto da Disturbo Borderline di Personalità, un personaggio sofferente. In effetti, i criteri diagnostici ci sono tutti o quasi, basta fare il confronto con il manuale diagnostico internazionale di riferimento (il DSM-IV-TR). Anakin è certamente impulsivo e mostra in diverse occasioni una certa difficoltà nel controllare la sua rabbia. I suoi rapporti con le persone significative, come il suo maestro Jedi, sono caratterizzati da una continua alternanza tra idealizzazione e svalutazione. L’intensa paura di essere abbandonato o di perdere altre persone care, prima fra tutte la moglie, governano il suo comportamento e lo spingono a tradire tutti i suoi compagni. Non mancano poi le esperienze dissociative, almeno due. La prima dopo la morte della madre, durante il quale stermina un’intera tribù Tuskan. Il secondo nel momento in cui si volge al lato oscuro della Forza e massacra tutti i giovani allievi Jedi. Infine, Bui e colleghi sottolineano come la trasformazione in Darth Vader e il cambio di identità possa essere facilmente interpretato come sintomo di un disturbo d’identità, altro criterio del DBP.

Cosa c’entra questo con il processo di identificazione? Sappiamo che l’adolescenza è di per sé un periodo di cambiamenti in cui l’essere umano inizia a confrontarsi da solo con il mondo esterno. Il viaggio nell’adolescenza ha lo scopo di crescere l’adulto che verrà, la costruzione di un identità, la capacità di regolare le proprie emozioni così come di mediare nelle relazioni intime con l’altro. Per questa ragione molte caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità si riscontrano con frequenza nel comune adolescente. E per questa ragione il comune adolescente può sentire più vicini i vissuti emotivi di un personaggio contrastato e irrequieto come Anakin Skywalker. Un personaggio, ricordiamo per dovere di cronaca, che é riuscito a trovare alla fine l’equilibrio tra le forze che lo dominavano.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bui et al., (2011). Is Anakin Skywalker suffering from borderline personality disorder? Psychiatry Research 185(29), 299.

Il sesso per le donne e per gli uomini: quanti ‘miti’ da sfatare

Sex stereotypes - © Elnur - Fotolia.comLeggo un articolo su Repubblica che spiega come diversi ‘miti’ su come uomini e donne vivono il sesso sono stati finalmente sfatati da un articolo di T.D. Conley et al. sul giornale Current directions in psychological science. Dieci minuti e una breve ricerca su google e mi accorgo che l’articolo ha fatto il giro di internet (ed era prevedibile, trattandosi di sesso), toccando blog e riviste online dedicate alle donne, alla psicologia e alle scienze. Tutti, pressappoco, con lo stesso riassuntivo contenuto, incluse ammiccatine simili a quelle in chiusa sull’articolo di Repubblica.

I ‘miti’ che vengono sfatati sono sei:

  1. Nella scelta di un partner gli uomini prediligono la bellezza e le donne lo status;
  2. Gli uomini vanno a letto con più donne rispetto al contrario (siccome fare sesso richiede due persone, e in questo articolo si parla di coppie eterosessuali, quest’ultimo ‘mito’ è un’impossibilità logica, come giustamente fa notare Robert Kurzban, nell’unica review critica che ho trovato online)
  3. Gli uomini pensano al sesso più spesso delle donne;
  4. Le donne hanno meno orgasmi;
  5. Gli uomini sono più aperti al sesso occasionale mentre le donne vogliono rapporti stabili;
  6. Le donne sono più attente nello scegliere il loro partner mentre gli uomini sono meno discriminanti;

Non vorrei qui entrare nel merito dell’articolo, già stracommentato altrove. Quello che più ha attratto la mia attenzione e le mie perplessità è il suo punto di partenza: come sono stati scelti i ‘miti’ da sfatare? Da dove vengono? Possibile che qualcuno in America abbia ritenuto opportuno di fare del prodotto di stereotipi beceri, quelli della donnina frigida e calcolatrice e dell’uomo ingrifato e predatore, l’oggetto di una seria ricerca scientifica? Non c’è niente di sbagliato nel sottoporre stereotipi nocivi ad un vaglio scientifico accurato, e l’intento dell’articolo è senz’altro lodevole. Ma rimane un certo disagio al pensiero che questi stereotipi siano tuttora così presenti nella cultura dell’occidente (e in fatto di eguaglianza di genere l’America è messa ben meglio dell’Italia), a tal punto da richiedere una smentita in chiave sperimentale, psicologica e scientifica.

In realtà, basterebbe guardare a queste domande da una prospettiva un po’ più antropologica perché sia chiaro che il problema qui non è affatto se le donne effettivamente pensano al sesso meno degli uomini, ma che tipo di cultura genera un ‘mito’ di questo tipo? A me sembra che le domande di cui sopra si possano ricondurre a due problemi di ordine antropologico-culturale:

  • Il minor peso economico e politico delle donne, che strettamente si lega al controllo sociale cui spesso sono sottoposte, certamente non rende la loro scelta sessuale e riproduttiva ‘libera’ da pesanti condizionamenti. Da qui i punti (1), (5) e (6).
  • La donna ‘sessuata’ nel senso di un individuo con sessualità e desideri autonomi e indipendenti da quelli maschili (e altrettanto forti) è tuttora un gigantesco tabù culturale. Da qui (2), (3) e (4).

Mi sarebbe piaciuto, tornando alla mia prima domanda, poter concludere quest’articolo dicendo che in fondo si potrebbero usare i fondi per la ricerca in modi più utili, invece di perdere tempo dietro a quelli che sono palesemente banali stereotipi dovuti a più profondi problemi culturali. Sfortunatamente, la situazione femminile in Italia (in primis) e all’estero è così poco rosea che, come dice la pubblicità di una nota catena di supermercati inglesi, ‘every little helps.’

Rassegna Stampa: Mercoledì 26-10-2011

 

rassegna stampa

Bestemmie e parolacce.

Bestemmie e turpiloquio ascoltati in tv sembrano essere correlati con un aumento dell’aggressività negli adolescenti. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista medica Pediatrics, una delle più rinomate in questo campo. Se il linguaggio blasfemo è proposto dai media viene più facilmente accettato dai giovani ascoltatori e utilizzato per esprimersi e comunicare. La violenza veicolata in questo tipo di linguaggio viene normalizzata dallo strumento mediatico, con l’effetto di ridurre le inibizioni e di favorire l’aggressività fisica, verbale e relazionale. Questi risultati sono molto importanti per genitori, educatori e pediatri, ma anche per chi si occupa di prodotti destinati ai giovani, come ad esempio i videogiochi.

 

Bollicine ed aggressività!

un altro impressionante dato riguarda il legame tra il consumo di bevande gasate, i così detti soft drink, e comportamenti aggressivi nei giovani. La ricerca in oggetto ha coinvolto più di 1800 adolescenti di diversi licei nella città di Boston, il 30% di questi ha dichiarato di bere più di 5 lattine a settimana di bibite gasate. I risultati dello studio confermano che il consumo regolare e massiccio di queste bevande è fortemente correlato al possesso di armi, come pistole e coltelli, e a comportamenti volenti verso pari, partners e i parenti. Due lattine al giorno di bevanda gassata e zuccherina hanno la stessa probabilità di tabacco e alcol di provocare reazioni interpersonali aggressive. se questo sia dovuto all’effetto della caffeina o dello zucchero o di qualcos’altro è ancora da scoprire..

 

Troppa disciplina favorisce la disonestà nei bambini.

I bambini esposti ad un ambiente scolastico fortemente punitivo sono più inclini a mentire e a nascondere le malefatte con convincenti bugie, di quelli che frequentano scuole con uno stile educativo più indulgente e meno severo. I dati provengono da uno studio della McGill Universitycondotto su bambini di 3 e 4 anni e pubblicato su Child Development. Un ambiente punitivo e controllante non solo favorisce la menzogna, ma anche le abilità necessarie a nascondere il comportamento trasgressivo, questi comportamenti infatti risultano essere altamente adattativi in un ambiente del genere e quindi con un alto valore di sopravvivenza per chi li mette in atto. Questo tipo di intelligenza infatti sembra rimanere confinata al contesto nel quale si sviluppa, senza provocare uno sviluppo generlizzato delle abilità cognitive, che anzi, risultano normalmente meno sviluppate in bambini esposti ad ambienti scolastici punitivi.

 

Pressione Sociale

La tendenza a conformare opinioni e comportamenti a quelli del gruppo cui si appartiene è tipica sia negli adulti che negli adolescenti. Un gruppo di ricercatori del Max Planck Institutes for Evolutionary Anthropology in Leipzig in Germania insieme al Psycholinguistics in Nijmegen in Olanda hanno studiato questo fenomeno nei bambini di 4 anni e hanno scoperto che già a questa età si è sensibili alla pressione sociale. Lo studio rivela infatti che, se interrogati pubblicamente circa la loro opinione su un evento, i bambini in età prescolare tendono a conformarla a quella della maggioranza, anche nel caso in cui la loro conoscenza dell’evento in questione sia migliore di quella degli altri e l’opinione “privata” diversa da quella dichiarata pubblicamente.

 

Cortisolo, stress e il rifiuto sociale

Il rifiuto sociale è un fattore di stress importante in bambini di età prescolare, adolescenti e adulti. Ma come reagiscono al rifiuto sociale i bambini in età scolare? In questa fase evolutiva avere amici è importante non solo dal punto di vista dello sviluppo, ma anche come fattore protettivo in caso di esperienze di rifiuto e isolamento da parte dei compagni di classe. Lo hanno registrato un gruppo di ricercatori dell’università Radboud University Nijmegen in olanda, misurando i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, in bambini delle scuole elementari durante l’arco di un intera settimana. In uuei bambini che avevano avuto esperienze di esclusione da parte dei compagni i livelli di cortisolo erano significativamente elevati in corrispondenza di questo tipo di esperienze; lo stress risultava però contenuto, anche se non eliminato, nei casi in cui i bambini potevano fare affidamento sulle amicizie, meglio, ovviamente, se tante e di qualità.

 

Altri articoli di STATE OF MIND riguardo a: BAMBINI ED ADOLESCENTI.

Ruminazione e Rimuginio

Psicopedia - Proprietà di State of MindRuminazione: stile di pensiero ripetitivo, ciclico, negativo, perseverante focalizzato sul proprio malessere emotivo, sui propri problemi finalizzato a comprenderne cause e conseguenze (es: perché succede a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo?)

Rimuginio: concatenazione di pensieri e immagini relativamente incontrollabili e attivati dall’individuo allo scopo di prevedere o prevenire eventi negativi in condizioni di incertezza e di costruire mentalmente ipotetiche soluzioni.

Mentre la ruminazione è focalizzata su eventi passati, il rimuginio identifica i pensieri rivolti al futuro.

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.

Le persone depresse tendono a focalizzare i pensieri sul “perché” piuttosto che sul “come” aggrovigliandosi in loop mentali inefficaci e paralizzanti.

Rumination - © Johan van Beilen - Fotolia.comOrmai da qualche tempo sono noti gli effetti disfunzionali che il pensiero ripetitivo e la focalizzazione sul depressive mood hanno sull’individuo (Ingram & Smith, 1984; Carver & Scheier, 1990; Watkins & Teasdale, 2001; Watkins, 2004). Perché sono disfunzionali? Perché sembrano incastrare chi li mette in atto in un circolo vizioso, il cui solo ed unico esito è continuare a pensare in modo ripetitivo, concentrandosi sul fatto che in quel momento ci si sente tristi, scoraggiati o depressi. Tale processo cognitivo ripetitivo viene chiamato rumination (Watkins, 2008), ovvero “un insieme di pensieri su una stessa tematica che si presentano anche quando non vi è una necessità immediata o una richiesta ambientale che giustifichi tali pensieri”. Le espressioni del linguaggio comune “andare in fissa”, “farsi le menate” potrebbero esserne un discreto esempio. Particolarità della ruminazione, che la differenza dal rimuginio, è che i contenuti sono rivolti al passato, e non alla paura per eventi futuri. E che cosa mantiene questi processi cognitivi attivi? Secondo Watkins il ruminare, di per sé, non è così disfunzionale, non intrappola l’individuo in un labirinto di pensieri ripetitivi che lo allontanano dalla soluzione di un problema o dal raggiungimento di uno scopo personale importante. Ciò che sembra essere davvero disfunzionale è il come si rumina. È la ruminazione chiamata “why” (“dei perché”) ad essere disfunzionale e  a mantenere l’umore depresso e sfiduciato. “perché è successo a me?” “devo assolutamente capire perché proprio a me” “perché mi caccio sempre nelle solite situazioni” “perché sono sempre il solito sfigato” ecc.. ne rappresentano alcuni buoni esempi. Lascio immaginare al lettore dove si finirebbe salendo la scaletta dei “perché” fino a raggiungere la porta della disperazione…

Secondo il modello di Watkins, e la Rumination-Focused CBT da lui sviluppata per il trattamento delle ricadute depressive, esiste un altro tipo di ruminazione che risulta essere utile, funzionale adattiva e, per così dire, “problem solver”. La ruminazione “how” (“dei come”) permette all’individuo di sentirsi efficace nell’affrontare un problema, di migliorarne la propria conoscenza e di pianificare una soluzione. Questo tipo di ruminazione è caratterizzato dal farsi domande circa i “come” della situazione. “come faccio a risolvere questa situazione?”, “come posso fronteggiarla?”, “cosa avrebbe fatto Giovanni nella mia situazione?”, “come posso ridurre le conseguenze negative?”…

Questo processo cognitivo crea un circolo vizioso nelle persone depresse (o con vulnerabilità a sviluppare depressione) che talvolta le induce a giustificare il loro continuo ruminare con (meta)credenze altrettanto disfunzionali. Qualche esempio?

“(ruminare) mi aiuta a capire dove ho sbagliato o fallito”, come se ci fosse sempre e comunque  una responsabilità personale nel determinare eventi;
“(rumino) perché sono fatto così”, è un’altra pericolosissima teoria naive per la quale un processo cognitivo disfunzionale viene accettato come tratto stabile della propria personalità;
“(ruminare) mi aiuta a capire meglio perché è successa quella certa cosa”,  qui ci si concentra sui perchè anche se in quel momento sarebbe prioritaria la ricerca di una soluzione al problema;
“(ruminare) mi aiuta a conoscere meglio me stesso e a migliorarmi”, in questo caso è il tempismo a mancare…

Questa breve descrizione apre la strada a riflessioni teoriche ma soprattutto di tecnica terapeutica. Pensare di strutturare un intervento mirato alle modalità con cui una persona rumina potrebbe aprire interessanti strade future, efficaci e utili per il trattamento della depressione.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Watkins E., Teasdale J. (2001). Rumination and overgeneral memory in depression: effects of self-focus and analytic thinking. Journal of Abnormal Psychology. 110(2), 353-357.
  • Watkins E. (2004).Adaptive and maladaptive ruminative self-focus during emotional processing. Behavior Research and Therapy. 42: 1037-1052.
  • Rimes K.A., Watkins E. (2005). The effects of self-focused rumination on global self-judgements in depression. Behavior Research and Therapy. 43: 1673-1681.
  • Watkins E. (2008). Constructive and unconstructive repetitive thought. Psychological Bulletin. 134(2): 163-206.

ALT! Dolore in corso

Mal di testa, gastrite, dolori muscolari sono spesso cattivi compagni di viaggio per tutti noi. Quante volte abbiamo cercato disperatamente nella borsa un antidolorifico qualunque, che sembrava essere la nostra unica salvezza? E invece, oggi, numerosi studi comprovano l’efficacia di tecniche meditative per la gestione del dolore.

Meditation - © Nejron Photo - Fotolia.comL’International Association for the Study of Pain definisce il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata ad una danno tissutale presente o potenziale o descritta come tale”. Un’esperienza multidimensionale che, a parità di stimolo, è percepita e rappresentata in forme diverse, a seconda del modo in cui viene cognitivamente elaborata. Se cronico può diventare parte integrante della vita della persona che ne è colpita, quasi da sentirne la mancanza se venisse meno. Se acuto, invece, può risultare temporaneamente invalidante. Quando parliamo di dolore acuto, la fa da padrone la spiacevolezza immediata della percezione del dolore legata alla rielaborazione cognitiva e all’intensità dello stimolo nocicettivo. Se parliamo di dolore cronico, molto spesso ci troviamo a fare i conti con ansia, tristezza, rabbia, paura, che indirettamente portano ad un aumento della sintomatologia, inducendo una maggiore reattività muscolare: infatti, queste emozioni negative, favoriscono una serie di modificazioni del sistema nervoso autonomo a livello di conduttanza cutanea, di reattività muscolare e di ritmo cardiaco che aiutano a mantenere o peggiorarare il sintomo doloroso. E meditando che succede?

Si riducono stress, ansia, paura e rabbia. Le emozioni negative che accompagnano l’esperienza di dolore provocano importanti modificazioni a livello cardiaco, muscolare e vascolare che hanno, tra l’altro, una ricaduta sulla percezione stessa del dolore, che viene amplificata. Numerose sono le ricerche che supportano l’efficacia della meditazione nella gestione delle differenti forme di dolore. Ad esempio, le tecniche meditative si sono dimostrate efficaci nella gestione di mal di testa e mal di schiena (Wolsko, 2004), dolore cronico e insonnia. In associazione a tecniche di visualizzazione (metodo Simonton), la meditazione risulta di comprovata efficacia per la diminuzione del dolore correlato alle malattie oncologiche e il contenimento degli effetti collaterali della chemioterapia (Jacobs, 2002). In altri studi è sottolineata l’importanza dell’applicazione di tali pratiche nella fase preoperatoria, per favorire effetti quali la diminuzione dei tempi di ricovero ospedaliero e la riduzione del dolore conseguente alle procedure chirurgiche.

BIBLIOGRAFIA:

  • Astin, J. A. (2004). Mind-body terapie for the management ofpain, Clinical JournalPain, 20, 1:27-32
  • Barrows, K. A., &Jacobs, B. P. (2002). Mind-body medicine. An introduction and reviewof the literature, MedicalClinical North Am., 86, 1:11-31


Sabato 22-10-2011

 

rassegna stampa

La dimensione della rete virtuale di Facebook correla con la dimensione di specifiche aree cerebrali. Nonostante le mode scientifiche di studiare sempre più i processi cerebrali, così come il legame tra psicologia e nuove tecnologie, scegliendo tra gli articoli da presentare in rassegna stampa, è difficile ignorare un contributo che ci racconta come il numero degli amici che le persone hanno su Facebook sia correlato alla dimensione di specifiche aree del loro cervello. Ovviamente si tratta di una correlazione e non di un rapporto causale, premurosamente e correttamente sottolineano gli autori dello studio. Non possiamo cioè definire un rapporto causale tale per cui avere più amici su Facebook porterebbe a un incremento della quantità di materia grigia nell’amigdala, e in altre aree quali il solco temporale superiore destro, il giro medio temporale sinistro e la corteccia entorinale destra, né viceversa che la presenza di dimensioni maggiori di tali aree favorirebbe l’aumento del numero di amici su Facebook. Il gruppo di ricerca coordinato dal Professor Rees del UCL Institute of Cognitive Neuroscience e Wellcome Trust Centre for Neuroimaging ha sottoposto a brain imaging 125 studenti universitari, tutti utenti attivi di Facebook analizzando nello specifico l’estensione delle loro reti sociali virtuali e reali in connessione con le dimensioni strutturali di specifiche aree cerebrali. I risultati dello studio sono stati pubblicati due giorni fa su Proceedings of the Royal Society B. Studi simili costituiscono solo l’inizio per di una serie di stimolanti interrogativi riguardo il rapporto tra internet, social network e il nostro cervello.

 

Effetti politici della paura esistenziale.

L’articolo di Florette Cohen apparso sul numero di ottobre di Current Directions in Psychological Science analizza gli effetti e  i processi psicologici alla base della “paura” esistenziale che assale gli individui di fronte a eventi terroristici: in questi momenti la possibilità della morte diviene enormemente più saliente nella nostra mente -effetto di “mortality salience”-. L’autrice riprende diversi contributi scientifici e sperimentali che evidenziano come l’aumento della consapevolezza della propria possibile morte, così come stimolazioni subliminali riguardanti la mortalità, portino le persone a provare sentimenti ed emozioni più positive riguardo figure carismatiche ed eroiche, e ad essere più punitive nei confronti di coloro che vengono dipinti come malfattori. Addirittura, la manipolazione sperimentale della consapevolezza di pericolo e di morte può portare anche individui tendenzialmente pacifici verso tendenze più aggressive: studenti iraniani che in una condizione di controllo preferivano la descrizione di una persona impegnata nella preghiera, se indotti precedentemente a pensare a eventi tragici e mortiferi presentavano atteggiamenti più positivi verso figure di terroristi suicidari. Alla luce degli studi passati in rassegna dall’autrice gli effetti politici del terrore su un’opinione pubblica spaventata non sono solo oggetto di teorizzazioni e speculazioni ma sembrano trovare riscontri sperimentali nelle scienze psicologiche.

 

Uso e abuso della diagnosi in psichiatria.

Si è aperta a Modena la Settimana della Salute Mentale. L’evento, in programma dal 21 al 28 di ottobre, sarà l’occasione non solo per specialisti del settore ma anche per un pubblico più vasto, di discutere e dibattere sul tema della salute mentale nei suoi vari aspetti dal punto di vista scientifico, politico-sociale e culturale. Tra gli ospiti più attesi, Allen Frances, professore alla Duke University e coordinatore della quarta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. In vista della quinta edizione del manuale diagnostico di riferimento nel mondo della salute mentale, prevista per il 2013, Frances lunedì presenterà una lezione magistrale dal titolo: “Uso e abuso della diagnosi in psichiatria”. Al cuore dell’intervento sono attesi temi caldi quali l’inflazione diagnostica, la medicalizzazione della vita quotidiana, nonché l’abuso della psicofarmacologia.

 

La gratitudine come antidoto all’aggressività.

Le persone riconoscenti non sono soltanto più gentili e cordiali, ma sono anche meno aggressive: le ricerche in ambito psicologico ci insegnano a non dare nulla per scontato e a ci mettono in guardia dalle tentazioni di cedere alle credenze della “psicologia del senso comune”. Lo studio di Nathan DeWall, professore di psicologia a UK College of Arts & Sciences invece ha proprio dimostrato la correlazione tra gratitudine e diminuzione dell’aggressività mediante 5 studi rispettivamente di tipo cross-sezionale, longitudinale, sperimentale e di experience-sampling che hanno coinvolto più di 900 studenti. Dai risultati è emerso che la gratitudine, così come il comportamento specifico di “ringraziare”, riduce l’aggressività nella quotidianità. “Sappiamo che le persone riconoscenti sono persone piacevoli” dice DeWall “ma questo è il primo studio che supporta empiricamente l’idea che chi è riconoscente e prova gratitudine possa essere di conseguenza anche meno aggressivo”.

10 Errori Cognitivi che ci Costano Cari

In tempi di crisi sarebbe opportuno non commettere “errori” nella gestione delle nostre risorse economiche, ma la buona volontà non è sufficiente. Il nostro giudizio è infatti offuscato da distorsioni cognitive che guidano scelte economiche non sempre oculate. Conoscere i dieci errori più tipici è il primo passo per evitarli.

Bancarotta - © Pakhnyushchyy - Fotolia.com1. L’errore dello Status quo. Il nostro sistema cognitivo ci induce a scegliere ciò che abbiamo già scelto in passato, anche se il mercato propone alternative più valide. Questo succede perché il cambiamento impone sforzi mentali maggiori e il saper tollerare una certa dose di incertezza. Il suggerimento è quello di osare l’acquisto di nuovi prodotti destinati comunque ad un rapido consumo così che, se non dovessero piacervi, ve ne possiate sbarazzare presto.

2. Razionalizzazione post-acquisto. Ammettere di aver commesso un errore pesa a chiunque. Ecco perché anche un acquisto evidentemente sbagliato ci appare un oggetto di cui non potevamo fare a meno: un gilet di lapin ad agosto diventa il capo più “cool” per affrontare il freddo del reparto surgelati.

3. La trappola della relatività. Il nostro giudizio in merito al prezzo è sempre relativo. Non sappiamo resistere ai saldi: duecento euro per un paio di sandali gioiello sono bruscolini se paragonati ai quattrocento del prezzo pieno. I commercianti sono consapevoli di questo nostro difetto cognitivo e ne approfittano esponendo qualche articolo a prezzo elevato così da far sembrare economico quello a fianco. Ma questo errore cognitivo può essere sfruttato a nostro favore se ci abituiamo a fare paragoni a largo spettro, utilizzando ad esempio i siti predisposti a questo.

4. Effetto possesso. Abbiamo la tendenza ad attribuire un valore maggiore alle cose che ci appartengono. Ecco perchè è spesso difficile cambiare casa: vorremmo vendere il nostro monolocale e con il ricavato comprare una villetta con giardino. A volte basta anche soltanto fare un’offerta per un articolo su eBay e già lo sentiamo un pochino nostro, quel tanto che basta per farcelo pagare oltre il prezzo esposto nel negozio sotto casa.

5. L’errore del presente. Ritrovarsi a pagare canoni esosi di contratti telefonici non ci spaventa se nell’immediato abbiamo nelle mani l’ultimo gioiello della telefonia mobile. Questo è dovuto alla tendenza a preferire un’immediata soddisfazione anche a costo di pene future. Prima di acquistare dovremmo invece pensare non solo a ciò che stiamo comprando oggi ma anche a ciò che ci ritroveremo in futuro.

6. Paura delle perdite. le persone tendono a vendere degli oggetti quando salgono di prezzo e a tenerli per sè quando calano di valore, ma questa strategia alla lunga potrebbe non essere quella vincente…

7. Familiarità. Scegliamo un prodotto perchè ci è familiare, motivo per cui la pubblicità funziona: più lo vediamo sponsorizzato più attribuiamo valore all’articolo.

8. Retrospettiva rosea. La tendenza a interpretare le nostre passate decisioni come migliori di quelle che in realtà sono prepara il terreno a commettere gli stessi errori.
9. Gratis. Un omaggio è una tentazione davanti alla quale non sappiamo resistere. Le offerte 3×2 nascono proprio per cavalcare l’onda di questo nostro difetto. E’ capitato a tutti di acquistare due inutili articoli per avere il terzo gratis con il risultato di aver sborsato dei soldi per entrare in possesso di non due, bensì tre oggetti di cui non avevamo alcun bisogno.

10. Impulsività. I peggiori guai economici sono dettati dalla mancanza di controllo o almeno da una sovrastimata capacità di mantenerlo davanti alle tentazioni. La soluzione è semplice: stare alla larga.

Ora che siete tutti più consapevoli degli errori cognitivi potete fare buon uso di queste informazioni per evitare un pericoloso dispendio di denaro. Io preferisco invece utilizzarle come scusa quando rientro a casa con qualche sacchetto di troppo: “Non è colpa mia, è che mi hanno disegnata così”.

BIBLIOGRAFIA:

  • Why We Buy: How to Avoid 10 Costly Cognitive Biases — PsyBlog
  • Linciano N. Gennaio 2011. Errori cognitivi e instabilità delle preferenze nelle scelte di investimento dei risparmiatori retail. N. 66 Studi e Ricerche. CONSOB, Divisione Studi Economici, Ufficio Analisi Economica.

LEGGI ANCHE:

  • Fenomenologia dello shopping compulsivo.


Your First Day of School will be Scary!

Parents’ words and anxiety disorders – part 4

Child & dog - © iofoto - Fotolia.comUp to this point in the series, I have discussed why it is so important to further understanding of the development of anxiety disorders in children. I have also touched on the importance of various types of parenting styles which may increase the development of anxiety in children. As I explained,parental discussions regarding unfamiliar situations or objects can increase their children avoidance. But why are some discussions doing this and not others? Surely the differences of a few words cannot change the development of our children in either the short or long term, could it? For the answer to these questions we turn to the experimental psychopathology literature.

A series of studies has investigated the transfer of information as a pathway to fear. One study asked children to perform a behavioral task involving novel animals, but first, children were read either positive, neutral or negative stories regarding the animals. Those children presented with negative stories showed a significant increase whereas those presented with positive stories showed a significant decrease. Those presented with no information showed no change during the behavioral task (Field & Lawson, 2003). One study used the same design; however, the experimenters presented information about social fear beliefs not novel animals. The study showed that children provided with negative information about uncommon social interactions showed increased social fear beliefs (Field, Lawson & Manerjee, 2008). Therefore, it appears that specific positive and negative information can change the way that children behave not only with novel non-social objects, such as animals, but it can also change the way they behave socially.

While these findings are interesting, further examination of literature using similar methods shed more light on the importance of other aspects of information transfer. Research has also shown that even after six months time, when presented with negative information, children still show behavioral avoidance. This finding was the strongest for those children between six and eight years old (Field, Lawson & Manerjee, 2008). But what about the source of information? Well it appears that the effect of negative information has the largest effect when it is presented to a child by an adult, rather than a peer or a non-informative control source (Field, Argyris & Knowles, 2001).

Thus it appears that specific positive or negative information does influence the behavior of children. In the next installment in the series I will be further discussing the effect of maternal psychopathology and child anxiety on mother-child conversations.

BIBLIOGRAPHY:

  • Field, A. P., & Lawson, J. (2003). Fear information and the development of fears during childhood: Effects on implicit fear responses and behavioral avoidance. Behavior Research and Therapy, 41, 1277 – 1293.
  • Field, A. P., Lawson, J., & Banerjee, R. (2008). The verbal threat information pathway to fear in children: The longitudinal effects on fear cognitions and the immediate effects on avoidance behavior. Journal of Abnormal Psychology, 117, 1, 214 – 224.
  • Field, A. P., Argyris, N. G., & Knowles, K. A. (2001). Who‟s afraid of the big bad wolf: A prospective paradigm to test Rachman‟s indirect pathways in children. Behavior Research and Therapy, 39, 1259 – 1276.

 

READ ALSO: – Part 1 – Part 2 – Part 3

 

 


Assisi 2011: Intervista a Francesco Mancini

State of Mind intervista Francesco Mancini: Direttore della SPC, Scuola di Psicoterapia Cognitiva. Il significato del IV FORUM sulla Formazione in Psicoterapia:

L’Ossessione d’Amore è poco Rock e molto Lenta: Freedom (di Jonathan Franzen)

Freedom, di Jonathan Franzen: un libro del quale si è molto discusso, sia in bene (l’autore è finito sulla copertina di TIME come narratore dell’anno 2010), sia in male: andate a vedere la recensione del New York Review of Books. Ma a un terapeuta, cosa può interessare del libro?

Jonathan Franzen - Cover of TIME

Patty, una campionessa di baseball, si trova a dover scegliere tra due uomini, quello buono, ma un po’ goffo, e tendente ad arrossire, che lotta ogni giorno per essere amato da lei per fedeltà, bontà, e amore, e quello maledetto, un musicista ondivago e insicuro “sciupafemmine” e tormentato, che solo molto tardi nella vita avrà successo con la sua band. Patty a un certo punto mentre si rende conto di quanto preferisca Richard il musicista, a Walter il fedele corteggiatore, (lei ha 21 anni quando tutto succede), decide di seguire Richard in un viaggio per tornare a casa per una cerimonia. Essendo Richard quello che è, ubriacone, inaffidabile, a un certo punto del viaggio impone a Patty tali esperienze di frustrazione e mancanza di attenzione, che la nostra protagonista si impaurisce, si convince di non piacergli, e sconfortata, torna da Walter, si fidanza con lui e dopo un po’ lo sposa.

Ovviamente questo è solo un pezzo di una trama complessa e ricca che non voglio raccontare qui. In realtà per tutta la durata di Freedom uno dei plot è proprio il dolore di Patty che ha scelto con la testa, e la sua difficoltà e il suo rimpianto per Richard. Patty su questo si ferma, fa due figli, lavora a fatica, rimugina e rumina ininterrottamente, e mentre Walter si dà da fare per tenere insieme famiglia, figli, lavoro, progetti e sogni ambientalisti, Patty cerca di dare un senso a tutta la sua vita ma la posizione di ruminazione nella quale si mette, spesso sfocia in depressioni importanti che la portano anche a un lungo periodo di alcolismo.

 

Il rimuginio di Patty e l’ossessione amorosa in Freedom

Il doloroso rimuginare di Patty la lascia in una adolescenza prolungata fino a quasi 50 anni. E ci si chiede perché una donna intelligente, che nelle battute appare a tratti fulminante e indimenticabile (con il figlio, con la figlia, con Richard stesso) sia così lenta nel capire e nel dividere il grano dal loglio. Ecco si ha netta la sensazione che la differenza di funzionamento tra il dirimere le sue ossessioni d’amore e il resto della sua intelligenza, sia proprio dovuta alla ruminazione, al costante dubbio, passando da una posizione all’altra trovandole entrambe in momenti diversi vere uniche e credibili.

Chi fa così rallenta. E Patty, che nasce veloce, diventa nel libro sempre più lenta.

Spesso in terapia troviamo persone che a causa di una infanzia con poco amore o molta distrazione o con molto maltrattamento e poca cura, restano fermi nel dilemma dell’ossessione d’amore per tutta la vita.

Non riuscendo mai a capire quando è il momento di smettere di paragonare cose che non si possono paragonare, e decidere una solitudine affannosa e sessualmente eccitante, oppure un matrimonio sicuro solidale e a volte intimamente noioso.

Ma Franzen è autore benevolo con i suoi personaggi, non li abbandona a sé stessi e consente loro di cambiare e di capire. Patty cambia, ma molto molto tardi e si salva soltanto quando è al limite del libro e della storia. Guarisce al limite dell’oblio, suo e del suo amore. Certo che una buona psicoterapia avrebbe accorciato il libro ma reso Patty più serena molto prima. Per fortuna i personaggi dei libri di franzen non vanno spesso in terapia.

 

FREEDOM: INTERVISTA A JONATHAN FRANZEN

 

Assisi 2011: Intervista a Sandra Sassaroli

Una breve intervista a Sandra Sassaroli, Direttore di Studi Cognitivi, riguardo al Forum sulla Formazione in Psicoterapia di Assisi.

Giovedì 20-10-2011

rassegna stampaEconomia mentale: dimenticare serve a ricordare.

Immaginate cosa succederebbe se dovessimo ricordare tutti i posti in cui parcheggiamo la macchina ogni sera quando torniamo a casa… ben presto lo spazio mnestico a disposizione nella nostra mente finirebbe e sopratutto risulterebbe interamente occupato da informazioni completamente inutili! Ciò che conta infatti è il poter ricordare dove abbiamo messo la macchina la sera prima e non tutte le sere della settimana o dell’anno, questo infatti è qualcosa che possiamo tranquillamente dimenticare, liberando spazio prezioso per la memorizzazione di informazioni aggiornate e quindi molto più utili. La notizia apparsa su Current Directions in Psychological Science descrive uno studio condotto all’University of Illinois di Chicago i cui risultati sono a sostegno dell’idea che chi è in grado di dimenticare facilmente le informazioni inutili è facilitato nel problem solving e nel memorizzare informazioni anche senza concentrazione.

 

Verità o fantasia? Le indecifrabili parole dei bambini.

Le probabilità che un adulto riesca a capire se un bambino mente o parla a sproposito sono più basse che se tirasse a indovinare. questi i risultati di uno studio apparso su Applied Cognitive Psychology che sembrano avere importanti implicazioni nelle indagini su abusi sessuali e fisici, che spesso devono fare affidamento sulle testimonianze dei bambini. Questi ultimi infatti possono intenzionalmente fornire testimonianze inesatte se indotti a mentire perché suggestionati dai contenuti delle domande poste, ma nonostante questo la credibilità di un bambino, come anche quella di un adulto, raramente è messa in discussione. La causa è nel bias della verità, un errore cognitivo che porta a sovrastimare la probabilità che gli altri siano naturalmente portati a raccontare le cose per come realmente stanno.

 

Musica: tenere il ritmo aiuta attivamente il processo dell’ascolto.

Muoverci, tenere il ritmo con le dita o con un piede mentre ascoltiamo buona musica non è solo un sintomo dell’apprezzamento ma favorirebbe anche la qualità dell’esperienza di ascolto, ampliando la nostra capacità di comprenderne il ritmo. La ricerca sottolinea la complessa relazione tra percezione e azione. Condotta da Michael Schutz della McMaster University, è stata recentemente presentata alla conferenza Acoustic Week a Quebec City,

 

Comportamenti pro-sociali e cibi dolci.

La preferenza per i cibi dolci predice atteggiamenti e comportamenti prosociali. Un nuovo articolo che sarà prossimamente pubblicato su Journal of Personality and Social Psychology propone, sulla base degli esiti di ben cinque studi, un legame tra la tendenza a preferire il gusto dolce, punteggi più elevati nel tratto di personalità della disponibilità, maggiore propensione a impegnarsi in attività di volontariato. D’altra parte tale associazione non è stata verificata in relazione alle preferenze per gli altri quattro gusti. Curioso, come le metafore che spesso utilizziamo nelle nostre conversazioni affettive possano ora trovare un riscontro empirico tra tendenze prosociali e il piacere di gustarsi un buon dolce!

L’occhio della mente o il tocco della mente?

Mind & Memory - © Gizele - Fotolia.comLeggiamo sul volume settembrino di Cerebral Cortex una interessante ricerca svolta dai ricercatori della USC. Damasio e colleghi hanno scoperto che quando guardiamo un oggetto il nostro cervello non solo elabora le caratteristiche fisiche dell’oggetto in questione, ma recupera in memoria anche i ricordi legati alle sensazioni che tale oggetto dà al tatto. La connessione tra “mind’s eye” e “mind’s touch” è così forte che elaborando solo le informazioni ottenute toccando un oggetto, spesso riusciamo a riconoscere l’oggetto che abbiamo di fronte.

Basandosi su precedenti lavori che hanno indagato le connessioni tra le zone visive e quelle uditive del nostro cervello, Damasio e i colleghi del Dornsife Brain and Creativity Institute della University of Southern California hanno utilizzato scansioni fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging) per indagare le interazioni tra memoria e sensorialità. I ricercatori hanno chiesto a un gruppo di soggetti, mentre venivano sottoposti a risonanza magnetica funzionale, di guardare cinque video clip che mostravano alcune mani impegnate nell’azione di toccare vari oggetti. L’elemento interessante, anche a livello metodologico, riguarda il riconoscimento automatico da parte di un software delle azioni che i soggetti avevano visualizzato nei cinque diversi video, proprio a partire dalle aree cerebrale attivatesi; in altre parole, un computer programmato per l’esperimento, una volta ricevuti e analizzati i dati della scansione fMRI, è stato in grado di “indovinare” e riconoscere in modo accurato quale tra i cinque video stessero guardando i soggetti, proprio inferendolo a partire dalle specifiche aree cerebrali attivate.

I risultati della ricerca, secondo gli autori, mostrano che “sentire tramite il tocco della mente, il cosiddetto “mind’s touch”, attiva le stesse zone del cervello che si attiverebbero toccando realmente un oggetto“. Il cervello umano acquisisce e immagazzina le sensazioni fisiche, e successivamente le ripete nel momento in cui dispone del “suggerimento” dato dallo stimolo visivo. Insomma, una volta che sfioriamo la pelliccia di un cucciolo arruffato, sfogliamo la pagina di un libro antico o pizzichiamo le corde di una chitarra gustandone le successive vibrazioni sotto i polpastrelli, non ce la scordiamo più. Tenendo sempre “a mente” quanto l’emozione suscitata da tutto ciò contribuisca a fissare il ricordo…

BIBLIOGRAFIA:

  • K. Meyer, J. T. Kaplan, R. Essex, H. Damasio, A. Damasio (2011). Seeing Touch Is Correlated with Content-Specific Activity in Primary Somatosensory Cortex. Cerebral Cortex. 21(9).

Ambizione & Determinazione. Vinco perché mi piace giocare

L’importante è vincere o partecipare?

Ambition_© herfis - Fotolia.comMi sono fatta questa domanda al ritorno dal mio secondo Forum di Assisi, un evento pensato e organizzato per i giovani psicoterapeuti in Formazione che hanno voglia di fare ricerca, e che si conclude con la premiazione dei lavori più meritevoli.

Due anni fa vi ho partecipato da osservatore silente, quest’anno invece ho portato un mio contributo, ma non ho vinto. Eppur sento di aver vinto…..ma non mi spiego perché, o meglio rischierei di cadere in un banalissimo sproloquio che potrebbe suonare più o meno come un consolatorio e ipocrita elogio alla perdita.

Ho pensato allora più in generale a che cosa avesse spinto me, o comunque, a cosa potesse spingere una persona a pensare di partecipare a un evento in cui qualcuno vince o comunque si “mostra” e la prima cosa che mi è venuta in mente è il concetto di ambizione, la cui definizione da dizionario italiano è “desiderio di ottenere qualcosa”. Secondo uno studio realizzato alla Washington University di Saint Louis nel Missouri, l’ambizione si misura in termini di determinazione, in qualche modo la conclusione a cui i ricercatori sono giunti è che chi non molla e non si fa abbattere dalle difficoltà o dalle delusioni, chi è determinato, attiva la zona limbica sede emotiva dell’encefalo ed è quindi ambizioso. I ricercatori americani hanno sottoposto ad alcuni studenti, un questionario volto a verificare il loro livello di determinazione: durante lo svolgimento del compito, hanno monitorato i cervelli degli studenti in azione, rilevando che ad attivarsi è proprio la zona limbica, strettamente collegata all’elaborazione delle emozioni. Altri studi sui gemelli condotti in Australia e negli Stati Uniti, dimostrano invece che l’ambizione è ereditaria al cinquanta per cento.

Ancora non so come rispondere alla domanda posta all’inizio, ma provo a spiegare almeno questa mia sensazione unendo quanto dicono queste ricerche e pensando a quanto scrive Kahlil Gibran “l’ambizione è una sorta di lavoro” quindi una continua ricerca, come una pulsione costante verso un obiettivo, un desiderio vivo e ardente che non si soddisfa mai; l’importante non è vincere, non è ciò che raggiungi ma ciò che vorresti raggiungere, ciò che apprendi mentre cerchi di raggiungerlo, e laddove pensi di averlo raggiunto, il continuare ad avere curiosità per interrogarsi su qualcos’altro.

Ecco, credo questo sia accaduto a me, e spero a tanti altri giovani ricercatori: sentire il desiderio di raggiungere, esporsi, provarci sempre senza esitare, scoprire, apprendere, domandarsi, confrontarsi, discutere, condividere e quindi “godersi il viaggio”, insomma per citare, chi ha citato: “Be Hungry”.

Io che non sono nata né tanto ricercatrice, né tanto ambiziosa, penso che si possa imparare tutto questo e portarselo con sé per godersi pienamente il viaggio. Presuntuosamente mi piace pensare che fosse un po’ questo l’obiettivo di chi ha pensato il Forum e credo non ci sia dono migliore di questo insegnamento durante una formazione, qualunque essa sia.


Dove trattare l’Ansia… Due parole con l’esperta!

Nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale è possibile trovare clinici con una formazione specifica nel trattamento dei disturbi d’ansia. Anche all’interno di piccole realtà è possibile trattare questi disturbi in modo efficace avvalendosi di protocolli farmacologici e psicoterapici. Ne parliamo con la Dott.ssa Leveni, responsabile del Centro per il Trattamento dei Disturbi d’Ansia dell’Azienda Ospedaliera di Treviglio Caravaggio.

 


Ansia_pulsante_© Vanessa - Fotolia.comCom’è strutturato il servizio nel quale lavora?

Il Centro per il Trattamento dei Disturbi d’ansia è all’interno dell’Ambulatorio Psico Sociale di Zogno in Val Brembana, in provincia di Bergamo. L’Ambulatorio è una struttura territoriale psichiatrica dell’Azienda Ospedaliera di Treviglio ed è formato da una piccola équipe composta da due medici, uno psicologo e un’assistente sociale; in passato avevamo quattro infermieri e un educatore a tempo pieno, ma negli anni l’educatore è stato spostato alla struttura riabilitativa e gli infermieri sono diventati tre con impegno part-time e uno a tempo pieno: il minimo per tenere in piedi una struttura di questo tipo. La competenza territoriale dell’Ambulatorio comprende tutta la Val brembana e alcuni comuni più popolosi alle sue porte, per un totale di circa 65.000 abitanti. Gli psichiatri lavorano a tempo pieno, hanno la necessità di gestire tutto quello che arriva in una struttura psichiatrica pubblica: gli adulti dai 18 anni in su, tutti i disturbi mentali e le patologie che hanno correlati sul piano psichico, come ad esempio il ritardo mentale che può necessitare del consulto psichiatrico per quanto riguarda le condotte comportamentali che possono essere disturbanti, oppure la senilità in cui il quadro organico può necessitare di una consulenza per l’invalidità civile.

L’Ambulatorio di Zogno tratta esclusivamente i disturbi d’ansia?

Come struttura psichiatrica territoriale l’Ambulatorio Psico Sociale si occupa in realtà di tutti i disturbi mentali, dalle forme più leggere e diffuse, come i disturbi d’ansia, ai disturbi che necessitano di un intervento più complesso come le psicosi. MA dal 1999, l’Azienda Ospedaliera di Treviglio ha istituito, all’interno dell’Ambulatorio di Zogno, il CETRADA, ossia una sotto équipe che si occupasse prevalentemente dei disturbi d’ansia e della depressione; il nucleo di tale sotto équipe è in realtà costituita da me e dagli psichiatri dell’Ambulatorio: i medici fanno da filtro e gestiscono le eventuali terapie farmacologiche, mentre io, come psicologa, mi occupo quasi esclusivamente dei trattamenti psicoterapici specifici per questi gruppi di patologie.

Una sorta di ottimizzazione delle forze in campo…?

Esatto, questa ristrutturazione è figlia della necessità di gestire meglio le sempre più scarse risorse a fronte di un costante aumento delle richieste di trattamento e dalla convinzione che nessuno può fare tutto ma ci sono sempre margini di miglioramento. Nella psichiatria pubblica infatti vige un po’ la regola implicita che uno psicologo possa e debba occuparsi di tutte le forme di disagio psichico, fornendo le più svariate forme di prestazioni, dalla psicoterapia alla riabilitazione, all’inserimento lavorativo. Al tempo stesso siamo d’accordo con l’idea che, in linea con l’evoluzione di tutte le altre discipline mediche, sia importante e necessario specializzarsi in un settore per offrire trattamenti aggiornati ed efficaci. Teniamo inoltre presente che nella psichiatria pubblica si ritiene che il mandato sia quello di occuparsi delle patologie gravi, intendendo quasi esclusivamente le psicosi e i gravi disturbi di personalità. Io mi occupo di quella che in termini un po’ dispregiativi in passato veniva definita come “psichiatria minore” e adesso “psichiatria comune”, cioè di quei disturbi che si ritiene che non arrechino eccessivo danno alla persona o eccessivo disturbo alla società. In realtà l’ampia diffusione dei disturbi d’ansia e depressivi e il loro alto rischio di cronicità comportano dei costi sanitari-sociali-relazionali molto elevati. Senza contare l’altissimo numero di pazienti che con un aumento minimo di fondi e strumenti a disposizione, potrebbero ottenere trattamenti efficaci, di una durata ragionevole e a costi contenuti. Il CETRADA offre prestazioni anche a persone fuori dal territorio di competenza essendo considerato un centro ad alta specializzazione e sovrazonale.

Quali sono le difficoltà nel portare avanti un protocollo così ben strutturato, come quello che offrite nella vostra struttura? In una realtà così piccola?

Grosse difficoltà non ci sono state e la risposta è stata positiva non solo nella nostra realtà. Abbiamo un sito internet [Ndr. www.cetrada.it] e i pazienti arrivano da tutta Italia, in un certo senso “volere è potere”. La maggior parte degli invii di solito, oltre che da Internet, viene fatta da parte di altri pazienti o dai medici di base, come risultato di un passaparola diffusosi negli anni.

Quali sono i pro e i contro nello svolgere il suo lavoro in provincia?

Un vantaggio è il fatto che trovandoci in una zona decentrata non siamo oberati da troppe richieste di emergenza e urgenza, più tipiche delle grandi città ad alta densità di popolazione. Questo ci ha permesso di partecipare a molti progetti, che per una struttura più grande è più difficile. Un altro aspetto positivo è il fatto di lavorare con una èquipe molto piccola, il ché facilita la comunicazione tra i vari operatori. Essere decentrati non è mai stato un limite in questo senso, nel corso degli anni abbiamo contattato diversi professionisti, ad esempio portiamo avanti un gemellaggio Zogno-Sidney con i colleghi del CRUFAD (Clinical Research Unit for Anxiety Disorders), Centro per i Disturbi d’Ansia, che  collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e del quale abbiamo adottato la metodologia di intervento. L’unico aspetto negativo potrebbe riguardare la selezione a monte dei pazienti, nel senso che, essendo in una zona periferica e decentrata, spesso è abbastanza difficile per alcune persone raggiungerci: per esempio non c’è una stazione ferroviaria e l’autostrada dista circa 20 Km. Una persona che presenta problemi agorafobici potrebbe considerarci “inaccessibili”, così come chi viene da fuori provincia. Se avessimo la sede a Bergamo città probabilmente l’afflusso di utenti sarebbe molto maggiore.

 

LINKS:

www.cetrada.it

Seconda giornata del forum di Assisi 2011 – Due presentazioni sui disturbi alimentari

IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia - Assisi 14-16 Ottobre 2011 -Copyright immagine: © Roberto Zocchi - Fotolia.comNella giornata del 15 ottobre del forum di Assisi mi hanno colpito due presentazioni, entrambe dedicate ai disturbi alimentari. Le ricordo per la loro originalità, e ne riporto alcune impressioni. La prima era di Eleonora Dovera e Giuseppe Pantaleo e esplorava alcune variabili di solito trascurate nei disturbi alimentari: la sfiducia interpersonale e l’ascetismo, che naturalmente non è l’ascetismo religioso ma una variabile cognitiva e comportamentale definita da David Garner negli anni ’80 e che indica la tendenza delle pazienti con disturbo alimentare a compiacersi del loro elevato grado di autocontrollo alimentare.

Entrambe queste variabili sono in relazione con la forte discrepanza tra peso reale e peso desiderato, situazione tipica dei disturbi alimentari. Dovera e Pantaleo hanno dimostrato che queste due variabili mediano tra questa discrepanza e il disturbo alimentare stesso. Tra le due variabili quella più interessante è la sfiducia interpersonale, proprio perché introduce una componente relazionale nella comprensione della psicopatologia dei disturbi alimentari e ci consente di comprendere quealcosa della mentalità delle pazienti affette da questi disturbi. Il rifiuto del cibo ha quindi un aspetto di aggressività provocatoria che sfocia in una visione degli altri diffidente e sfiduciata. Naturalmente a loro volta sfiducia e diffidenza rimandano al ben noto senso di inadeguatezza di queste pazienti. Ma mentre l’inadeguatezza rimane uno stato emotivo tutto nel versante dell’ansia e dell’insicurezza, la sfiducia rimanda alla rabbia. L’esibizione di una forte autocontrollo, il cosiddetto ascetismo, diventa quindi una esibizione di forza e una rassicurazione.

Queste intuizioni di Dovera e Pantaleo sembrano essere confermate dallo studio successivo presentato da Animento, Baiocco e Mezzaluna che hanno trovato una correlazione tra rimuginio rabbioso e sintomi dei disturbi alimentari. In sintesi, questi due lavori mi paiono interessanti perché mostrano un aspetto emotivo di colore rabbioso nei disturbi alimentari. In questo modo la tavolozza psicologica si espande e va al di là dei soliti temi di tipo ansioso del perfezionismo e della bassa autostima di solito usati per descrivere i disturbi alimentari. Anche il controllo assume, dopo aver ascoltato i risultati di questi due studi, una coloratura più rabbiosa e collerica.

L’insostenibile pesantezza dei secondi. Narcisismo, ossessioni e un pianista irraggiungibile

Chi ha letto il testo di Dimaggio e Semerari (2006) sui disturbi di personalità, potrà essere rimasto incuriosito dallo strumento letterario che Dimaggio utilizza per descrivere il disturbo narcisistico di personalità. L’opera analizzata è il Il soccombente di Thomas Bernhard (1999), straordinario autore tedesco del Novecento.

Piano_© Martin Suchanek - Fotolia.com Il romanzo narra il progressivo sgretolamento di una mente, di una personalità, quella del soccombente appunto, che dedica ogni risorsa vitale allo studio del pianoforte con l’obiettivo di diventare non un pianista, non un grande pianista e nemmeno uno dei più grandi concertisti, bensì il più inarrivabile interprete del secolo. Il protagonista dell’opera ha studiato a Salisburgo sotto l’insegnamento del genio Horowitz e suo compagno di viaggio è stato un altro pianista la cui morte per suicidio è precedente al tempo della narrazione. Il tema che unisce i due personaggi è l’incontro con Glenn Gould, che da allievo di Horowitz diventerà…Glenn Gould, spalancando agli altri il dramma di non saper eguagliare le sue esecuzioni.

Ciò che colpisce de Il soccombente è innanzitutto la forma utilizzata, peraltro non nuova nelle opere di Thomas Bernhard; il testo è un flusso ininterrotto, non ha alcuna suddivisione in capitoli e paragrafi né alcun capoverso. E’ certamente illeggibile per chi voglia trangugiarlo tutto d’un fiato, poiché a dispetto della lunghezza piuttosto ridotta diventa subito un percorso sfiancante all’interno di una mente travolta dalle ossessioni.

Proprio questo aspetto lo rende intrigante: la disgregazione delle fantasie narcisistiche si fonde con lo strapotere di una ricorsività incontenibile, poche idee possono ripetersi per pagine e pagine sia nei contenuti sia nella forma e il quadro che ne emerge è una sconcertante riproduzione dei processi mentali che definiscono la struttura ossessiva.

Il protagonista, nei pochi minuti di attesa prima di un appuntamento, è sommerso dal flusso inarrestabile di pensieri che ripercorrono l’ascesa e la caduta di un sogno impossibile, la frustrazione ora malinconica ora disperata di chi non sa darsi pace per essere rimasto nell’ombra pur avendo ricevuto dalla natura un talento eccezionale. Essere sconfitto in una battaglia tra eletti è ancora più devastante poiché il soccombente ha sfiorato la gloria, l’ha osservata a lungo credendo di poterla raggiungere e per molto tempo ha unito il contenuto delle proprie fantasie a quelli che sembravano dati di realtà, prima di doversene separare per sempre.

Se pensiamo a un narcisista grave, che dopo aver superato la diffidenza nei nostri confronti comincia a compiere qualche timido passo verso il contatto col proprio dolore, col proprio senso di drammatica piccolezza, è affascinante chiedersi quale sia il linguaggio del suo dialogo interno, come si rappresenti il fallimento dei propri scopi grandiosi e quanto invasiva sia, nella sua attività di pensiero, la ripetizione dei temi di sofferenza.

Il soccombente è un ritratto portato all’estremo ma che certamente potremmo ritrovare, nei casi più sfortunati, esercitando la pratica clinica. Leggere quei passi, molto particolari e certamente destinati a non incontrare il favore di parecchi fruitori di letteratura, ci può condurre a considerare un grave narcisista innanzitutto come un grave ossessivo; questo aspetto ci aiuta a comprendere molte resistenze del paziente, che in una fase avanzata della terapia sembra bloccato sui contenuti di pensiero della propria inadeguatezza e pare sempre distante da un conciliazione con ciò che non è stato. Le fantasie grandiose lasciano il posto a temi ricorsivi nei quali i costrutti non mutano mai, le credenze centrali non si scalfiscono e l’emozione sofferente, la sofferenza, diventa verbosità, rifugio nella ripetizione acritica.

Il soccombente della nostra esperienza clinica non riesce né a fermare il flusso né a riflettere sul processo; diventa assai difficile che egli possa spostarsi sul presente e sulla realtà, maneggiare l’emozione effettiva che lo muove e accettare una decisiva generalizzazione, “non vado in crisi quando non sono il migliore ma ogni volta che non ricevo attenzioni”.

Il soccombente di Thomas Bernhard è imprigionato nel triangolo con Glenn Gould e il compagno suicida, luogo dell’ultimo e più elevato scopo di una lunga catena di bisogni rimasti ignorati, ma questa è un’inferenza del terapeuta. Il lettore consiglia invece l’incontro con quest’opera, anche una piccola parte se l’insieme risulta indigesto; al termine si avrà il respiro corto e affannoso che segue l’esplorazione del lato oscuro, della ragione che soccombe.

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