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Mindfulness

Psicopedia - Proprietà di State of Mind Sempre più conosciuta e praticata sia in psicoterapia cognitiva sia in contesti molto differenti, dalla formazione dei manager allo sport, la mindfulness è una forma di meditazione applicabile all’attività clinica. La mindfullness è una pratica di attenzione consapevole, intenzionale, non-giudicante nel momento presente”. Jon Kabat-Zinn, primo al mondo a portare la mindfulness nel contesto psicoterapico, dice che per nutrire il terreno del nostro atteggiamento, affinché la nostra pratica della consapevolezza possa crescere rigogliosa e fiorire, dobbiamo coltivare sette atteggiamenti: non giudizio, pazienza, la “mente del principiante” (essere disposti a guardare ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta), fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare, impegno nella pratica e visione di ciò che si desidera per se stessi. Negli ultimi venticinque anni la mindfulness è stata efficacemente applicata su diverse psicopatologie. Esempi? depressione, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, post-traumatico da stress, dipendenze, dolore cronico e fibromialgie, solo per citarne alcune.

La difficile convivenza di libertà e ordine

Manifestazione - © iMAGINE - Fotolia.comQualche anno fa un crudele Corrado Guzzanti sapeva prendere in giro quel partito che allora si chiamava “Casa delle Libertà”. E come?  Sottolineando come appunto, nella Casa delle Libertà, ognuno fa un po’ come gli pare. Contraddittorio con la fede di sinistra di Guzzanti? Possibile. Ma aveva ragione: non c’è libertà senza regole. E poi, come diceva Whitman, che importa contraddirsi? “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono grande, contengo moltitudini”. Continua a leggere su Affari Italiani

Il Potere Politico dei Social Media in Italia – Seconda Parte –

Prosegue dall’articolo di ieri: Il Potere Politico dei Social Media – Prima Parte – .

E in Italia?

IndignatiCome giustamente cantano i Daft Punk, Television Rules the Nation. Il duopolio televisivo concentrato e controllato dal potere centrale restituisce un’immagine a dir poco parziale della situazione del paese, i quotidiani -con la sola eccezione de Il Fatto Quotidiano– sono controllati da gruppi di potere, dipendenti in maniera morbosa da introiti pubblicitari e finanziamenti pubblici, così tornando al punto di partenza. Poi c’è un altra Italia, che davvero pare un paese diverso, l’Italia online, dei social network, della politica dal basso, della cittadinanza attiva. Anche nel Belpaese abbiamo la nostra brava fetta di slacktivists, di pigri cliccatori di “Salviamo la foca monaca” ma questa non è che la punta visibile e banale dell’iceberg. Alienati dai mezzi di comunicazione di massa tradizionali -imbavagliati e maldestri-, delusi da vent’anni di Berlusconismo conditi da un’opposizione patetica, gli italiani hanno sposato i social media con un entusiasmo e un’energia prodigiosa.

Basti pensare al movimento Cinque Stelle, nato nelle piazze e coordinato sulla rete, che è stato in grado di organizzare e coordinare i due V day. Come Shirky non si stanca mai di ripetere, gli strumenti forniti dai social media non sono un rimpiazzo per l’azione politica nel mondo reale, quanto un potentissimo strumento per coordinarla. Il movimento NO TAV, nato in Val di Susa, è stato in grado grazie alla rete di raccogliere proseliti e simpatizzanti da tutte le regioni di Italia e persino dall’estero. L’informazione ufficiale ha provato in tutti i modi a rappresentare il problema TAV come una disputa tra stato centrale e pochi montanari retrogradi contrari al progresso. Il coordinamento in rete ha invece evidenziato come la Val di Susa e il progetto suicida della TAV fossero un problema strategico di portata nazionale, che riguarda l’intero paese e in cui la soluzione deve essere concertata trovando un accordo tra istituzioni e popolazione.

Volantino Facebook ReferendumMa l’esempio più lampante del potere politico dei social media l’abbiamo avuto il 12 e 13 giugno 2011. A inizio anno il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e Italia dei Valori hanno promosso un referendum abrogativo per annullare le leggi sulla privatizzazione dell’acqua pubblica, sulla reintroduzione del nucleare in Italia e sul Legittimo Impedimento.

La copertura mediatica riguardo al referendum è stata imbarazzante: i giornali ne hanno parlato pochissimo, le televisioni ancora meno. La maggioranza ha tentato mosse barbine per invalidare il referendum e si è addirittura arrivati al parossismo: il 4 giugno il TG1 riporta la notizia della chiamata al voto per gli italiani “sbagliando” le date del quesito referendario. La rettifica arriva alla chetichella e nessuna conseguenza per il “giornalista” che aveva annunciato la notizia.

Il referendum del 12-13 giugno ha registrato la maggiore affluenza dopo quello del 1987, ed era dal 1995 che non si raggiungeva il quorum, e tutto questo è stato possibile grazie alla politica dal basso, grazie a centinaia di piccole associazioni di cittadini impegnati che si sono coordinati in rete. Ricordo l’entusiasmo di questa primavera, sul newsfeed di Facebook si poteva misurare la temperatura politica degli italiani online, il loro impegno, fosse il pigro click sul “mi piace” o lunghe ed estenuanti operazioni di viral marketing per raccogliere contatti, per allargare le mailinglist, per convincere tutti quelli già informati a farsi carico di portare a votare quante più persone fosse possibile.

Le iniziative sono state tantissime, fantasiose e commoventi, si aveva davvero l’impressione che “O adesso o mai più” o prendendo a prestito da un’altra grande iniziativa nata sulla rete: “Se non ora quando?”. Ci voleva un segnale, un segnale per “loro” e un segnale per “noi”, per rassicurarci, per misurare le nostre forze, il nostro peso e il nostro potere nell’orchestrare un cambiamento. A pochi giorni dal voto si è persino organizzato il TAXI QUORUM: chi aveva a disposizione un automobile si iscriveva a un gruppo su Facebook per offrire accompagnamento ai seggi ad anziani e invalidi. Il risultato referendario del 12 e 13 giugno ha anche rappresentato la dimostrazione della potenza di un nuovo modo di auto-organizzazione delle persone, che da sole, senza demagogia hanno riscoperto l’amore per la politica, quella di tutti i giorni. Il Quorum è passato. Grazie a Facebook, ai blog, alle reti e alle associazioni.

E poi, sembra brutto dirlo, grazie anche a Fukushima, perché non tutto il male viene per nuocere.

BIBLIOGRAFIA:

Il Potere Politico dei Social Media

Indignati 17 gennaio 2001, Manila: Il presidente delle Filippine Joseph Estrada è sotto impeachment, in parlamento i suoi fedeli votano un provvedimento che invalida l’utilizzo di prove fondamentali nel processo contro di lui. Nell’arco di due ore dalla divulgazione della notizia, migliaia di filippini furibondi si ritrovano nel centro della città: la protesta è organizzata con una catena di sms: “Go 2 EDSA. Wear blk” (vai a Epifanio De los Santos Avenue, vestiti di nero). In pochi giorni arrivano un milione di persone e paralizzano le strade della capitale. Il parlamento, spaventato, fa marcia indietro ammettendo le prove al processo ed Estrada viene condannato e deposto. Pochi giorni, 7 milioni di sms, un presidente mandato a casa.

Marzo 2002: il Boston Globe rilascia un video documentario sugli abusi ai minori insabbiati dalla chiesa cattolica, il video diventa virale in poche ore grazie a Youtube e alle altre piattaforme di condivisione online, l’opinione pubblica si accende come un fiammifero e si innesca una catena di processi giudiziari (dapprima in Boston, dove 24 preti vengono processati, poi si allarga a macchia d’olio).

Spagna 2004: il Primo Ministro Aznar addossa maldestramente la responsabilità degli attentati di Madrid ai separatisti baschi, mentendo deliberatamente alla nazione. Venuta a galla la menzogna, gli spagnoli indignati si coordinano con gli sms e scendono in piazza compatti e agguerriti: Aznar è costretto a dimettersi.

 

2009 Moldavia: una protesta contro le elezioni presidenziali truccate, coordinata attraverso sms, Twitter e Facebook, innesca una reazione a catena che porta elezioni legislative anticipate e alla sconfitta del partito comunista, al governo dal 2001.

A lato di questi casi esemplari del potere politico dei social media, ci sono anche storie meno fortunate, in cui forme di coordinazione dal basso non hanno avuto esiti così felici o indolori, come il Green Movement in Iran nel 2009, le manifestazioni contro Lukashenko in Bielorussia nel 2006 o la rivolta delle Camice Rosse in Thailandia nel 2010: in cui i movimenti di protesta, organizzati anche grazie ai social media, sono stati più o meno sanguinosamente soppressi dai governi di turno. Poi si arriva al 2011 e alla “primavera araba” e nella scossa tellurica del cambiamento diventa improvvisamente evidente il ruolo centrale di blogger e social networks.

E ora la giusta domanda: gli strumenti digitali aiutano la democrazia? Il più autorevole tra i pessimisti è stato Malcolm Gladwell, che dalle colonne del New Yorker ha dato una risposta (stranamente) superficiale, facendo di tutta l’erba un fascio e identificando le azioni politiche sui social media con il fenomeno definito “slacktivism”, che ben si descrive con il classico e pigro “like” alla causa del giorno su Facebook, sia essa salvare i delfini o salvare il Darfur. Utenti casuali si associano con un click in proteste virtuali dall’animo grande e nessun risultato. Ok questo è corretto, ma c’è ben altro. Il fatto che da facebook dei navigatori annoiati non possano cambiare il mondo è vero e condivisibile ma è altrettanto vero che grazie a facebook e twitter e gli altri social media (e il web 2.0 in generale) si può coordinare un movimento, unire le forze, fare per l’appunto, rete.

Le parole ci vengono in aiuto: medium = tramite, strumento. Uno strumento relativamente economico, a distribuzione capillare, che abbatte la gerarchia tradizionale della comunicazione: tra un’emittente e molti riceventi. Il web e i social media ristabiliscono una simmetria a lungo persa con i mezzi di comunicazione di massa: rendendo ogni utente un emittente-ricevente, connesso. Le distanze si annullano, i tempi di risposta e organizzazione delle persone si riducono al passaparola di un tweet e mai come oggi le profezie visionarie di McLuhan si avverano davanti ai nostri occhi: viviamo veramente nel villaggio globale e il medium, tanto per cambiare, è il messaggio.

 

Se escludiamo dal ragionamento quindi quel che è definito slacktivism, ci rimane la potenza e la capillarità dei social media nel coordinare e mettere in comunicazione le persone. Nel suo saggio “Political Power of Social Media”, Clay Shirky cerca di rispondere alla domanda in maniera cauta e possibilista: Gli strumenti digitali aiutano la democrazia? Nel breve periodo non possono far male e nel lungo molto probabilmente si. Soprattutto dice: i social media hanno il massimo impatto come strumento politico in quei paesi dove già è stabilita una sfera pubblica di opinione informata che tiene sotto controllo l’operato dei governi. In pratica: là dove già c’è democrazia, i social media aiutano a tenerla in salute. Il passaggio più interessante del saggio di Shirky riguarda la sua critica alla politica di Hillary Clinton riguardo alla diffusione e al libero accesso a Internet nel mondo. La Clinton promuove quella che Shirky definisce “Instrumental view”: l’idea che si possa supportare lo sviluppo democratico nel mondo imponendo ai paesi non democratici di garantire il libero accesso ad internet ed alle informazioni: New York Times, Google, Youtube,Wikipedia… Contrapposta a questa visione un po’ antiquate e centralistica, c’è la “Environmental view”: che si basa sul concetto organicistico secondo il quale i cambiamenti positivi (e pro-democratici) all’interno di una società sono il risultato o conseguenza indiretta dell’esistenza di una sfera pubblica informata, non il contrario. L’assunto fondamentale è questo:

L’accesso alle informazioni, dal punto di vista politico, è molto meno importante che l’accesso alle conversazioni. Tradotto: è molto più importante per uno stato democraticamente arretrato che le persone abbiano la possibilità di dialogare, coordinarsi e confrontarsi piuttosto che possano leggere il Guardian o Wikipedia online. I blogger tunisini ed egiziani sarebbero d’accordo. Un’opinione pubblica nasce dal confronto e dal dialogo riguardo a problemi economici o di politica quotidiana, non da discorsi impalpabili riguardo a valori politici astratti.

FINE PRIMA PARTE. Domani: Il Potere Politico dei Social Media in ITALIA.

BIBLIOGRAFIA:

Drive (2011) con Ryan Gosling. Recensione

Se desiderate vedere un action movie,  un noir e un film d’amore consiglio Drive, del regista danese Nicolas Winding Refn premiato a Cannes nel 2011.

Sonia Marino.

Drive è il protagonista (interpretato da Ryan Gosling). Non ha altro nome che questo e la sua identità si fonda sul guidare: di giorno fa lo stuntman e lavora in una carrozzeria e di notte l’autista complice di rapine. Egli è silenzioso e solitario. Non sappiamo niente del suo passato.  Si innamora della sua vicina che ha un bambino e il cui marito è in galera. Quando il marito esce ed è ricattato dalle vecchie cattive compagnie, lui interviene e si trasforma nel cavaliere pronto a tutto per proteggere la donna e il bambino. Si presta, dunque, per l’ennesima volta a fare l’autista per l’ennesima rapina. E qui mi fermo per non rovinare le sorprese della trama.

Ma il nocciolo della storia di Drive sta nel candore dello sguardo del protagonista e della ragazza di cui si innamora. Un amore fatto di tempo trascorso insieme a lei e al figlio di lei. È un amore di poche parole ma di struggente intensità, perché lei è comunque la moglie di un altro. Le emozioni che tengono lo spettatore sul filo del rasoio sono rese dai volti dei protagonisti, in particolare dagli occhi e dagli angoli della bocca e dalla camera da presa che letteralmente li accarezza. Lo spettatore spesso segue le scene dai sedili posteriori delle diverse auto di Drive. E scopre durante il film che Drive non è solo un autista della mala ma un vero killer, che uccide con sapienza ed estrema lucidità.

C’è molta violenza in Drive ma il regista riesce a renderla esteticamente necessaria. E questo mi costa molto scriverlo, dato che per me la violenza non è mai eticamente necessaria. E anche questo è un altro dei meriti del film. La violenza inoltre fa da spettacolare contrappeso all’estremo romanticismo del protagonista. Un cavaliere senza paura ma non senza macchia sul suo destriero, l’auto, la cui armatura è costituita da un (orrendo) giubbotto sulle cui spalle troneggia l’immagine di uno scorpione.

E qui chi vuole può sbizzarrirsi con i simboli e le analogie. Un “eroe” pronto a tutto ma che non è tentato e non ha passione per il denaro né per la visibilità e il successo (non sembra particolarmente interessato quando gli viene proposta una carriera da pilota) e che vorrebbe solo salvare degli innocenti, la donna e il bambino, e forse in questo modo salvare se stesso.

La colonna sonora è perfetta. E perfino Los Angeles, la non città per eccellenza, un intrico infinito di strade, sembra bella.

 

Drive (2011) TRAILER:

 

Prima giornata del forum di Assisi – La scienza psicologica dei giovani

IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia - Assisi 14-16 Ottobre 2011 -Copyright immagine: © Roberto Zocchi - Fotolia.comLa prima giornata del forum di Assisi dedicato ai giovani ricercatori è stata riservata a studi sull’età evolutiva e sulle emozioni. Due sessioni, l’una di sei e l’altra cinque presentazioni. Il livello di sofisticazione metodologica era più che accettabile con alcune punte. Altrettanto buona la chiarezza di esposizione, anche qui con alcune punte nella capacità di coinvolgere e ravvivare la platea con spirito e carisma, qualità altrettanto importanti della competenza scientifica.

Alcune parole sulle presentazioni. Baglioni e coll. hanno passato in rassegna e metanalizzato i trattamenti in voga per i disturbi esternalizzanti in età evolutiva. La nozione che più è rimasta nella mente del pubblico è stata l’opportunità di trattare gli stati depressivi nelle madri che, a quanto pare, spesso correlano con lo sviluppo di questi disturbi. Rosito e Buonanno hanno presentato un caso clinico di ossessività in una bambina, descrivendo il protocollo di Mancini e al tempo stesso mostrando una intrigante creatività nell’ideazione di esercizi di esposizione specifici per l’elevata ossessività da disgusto e contaminazione di questo caso singolo. Ruglioni e collaboratori hanno presentato dati di efficacia originali per il disturbo da comportamento dirompente e hanno mostrato come una buona intesa con i genitori dei bambini sofferenti diminuisca il tasso di drop-out. Morelli, Piccioni e Mezzaluna hanno trovato, sempre in bambini in età scolare, una relazione tra criticismo percepito e sensibilità alle “prese in giro” (teasing) da parte dei compagni di classe. Manfredi e coll. hanno costruito (ed empiricamente confermato) ponti tra variabili (meta)cognitive, relazionali e temperamentali. Infine Pescini, Rossi e Rebecchi hanno dimostrato che la percezione di criticismo diventa patologica solo passando attraverso la variabile cognitiva (e psicologica e interiore) dell’auto-criticismo, cioè dello svalutare se stessi. In sintesi le prime tre relazioni hanno dato attenzione ai protocolli di terapia mentre le seconde a meccanismi psicopatologici.

Le relazioni sulle emozioni sono un segnale della maggiore attenzione che si da in area cognitiva a quella che potremo chiamare l’area calda della vita psichica, il vissuto fenomenico dell’emotività. Ma senza però perdere l’identità cognitiva (e in qualche modo ragionevolmente razionalistica, per chi si riconosce in questa etichetta): la possibilità di regolare le emozioni, se non di controllarle del tutto. Andreoli e coll. hanno indagato un campione di giovani individui alle prese con le difficoltà pratiche di un mercato del lavoro danneggiato dalla crisi economica, e hanno trovato come le difficoltà nel trovare lavoro possano essere interpretate cognitivamente e vissute emotivamente con colpa. Lari e coll. hanno indagato un aspetto spesso trascurato del vissuto emotivo del paziente bipolare: la noia. Serafini, Simonetti e Mezzaluna hanno correlato disregolazione emotiva, tendenza al controllo e stili di attaccamento, mentre Patrone e coll. si sono focalizzati sul rapporto tra alessitimia e disregolazione emotiva nel binge eating disorders. Infine Vaccaro e Verità hanno presentato un protocollo di addestramento al pensiero pragmatico e razionale in termini ellisiani in bambini di scuole elementare.

Parte il FORUM di Assisi 2011 – La Scienza Psicologica dei Giovani

IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia - Assisi 14-16 Ottobre 2011 -Copyright immagine:  © Roberto Zocchi - Fotolia.comRicordo quando chiesi a Sandra Sassaroli “perché non organizzi un piccolo congresso scientifico di psicoterapia per i giovani clinici e ricercatori?”. Lei rispose “Lo stiamo già facendo, io e Francesco Mancini”. Era la fine del 2008 e da lì a pochi mesi si sarebbe tenuto il III Forum sulla Formazione in Psicoterapia ad Assisi, un’occasione per gli studenti delle scuole di psicoterapia cognitiva che più investono e credono nella ricerca scientifica di conoscersi, confrontarsi ed esporre i propri studi: il tutto a un costo decisamente sostenibile, un offerta gratuita ben lontana dalle ingenti iscrizioni che congressi nazionali e internazionali solitamente richiedono.

Ricordo i giorni di Assisi e il clima di entusiasmo e serio confronto che li ha contraddistinti. E oggi, a due anni di distanza, sta per iniziare la nuova edizione. Sfoglio il libro degli abstract in anteprima e noto con piacere la crescente quantità e qualità dei contributi. Dopo tanti congressi in cui ormai il ricercatore abituato deve muoversi alla ricerca della novità in un calderone di vecchi ingredienti e cose già sentite, sono proprio i ragazzi che si affacciano al mondo delle scienze psicologiche a offrire spunti e idee innovative e interessanti. Tutto questo in un clima che le scuole organizzatrici (Studi Cognitivi, APC, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, SPC, Scuola Cognitiva Firenze) hanno voluto mantenere immutato rispetto le edizioni precedenti.

Leggevo un po’ di tempo fa un interessante articolo sulla deriva dello psicoterapeuta e della terapia (Waller, 2009). Su come sia la singola terapia che il percorso professionale tendano a crescere per poi gradualmente appiattirsi se non proprio assumere una traiettoria gradualmente calante. Tra i responsabili vi è l’abitudine che spinge l’individuo ad abbandonare la ricerca, come azione prima ancora che come attività scientifica. Anche per questa ragione un Forum di giovani è salutare, non solo per i giovani.

Siano benvenute le attività come il Forum di Assisi, nella speranza che dal mescolarsi di questi eventi si possano produrre progetti e idee per lo sviluppo della conoscenza della sofferenza mentale e della sua cura. E, dal momento che è anche una competizione, in bocca al lupo a tutti i partecipanti.

Vi terremo aggiornati.

BIBLIOGRAFIA:

  • Waller, G. (2009). Evidence-based treatment and therapy drift. Behavior Research and Therapy, 47(2), 119-127.

Dalla padella alla brace: la paura del contrasto emotivo.

Rumination_© jaymast - Fotolia.comIl modello cognitivo considera l’ansia come il risultato di un’incapacità, più forte in alcune persone, di tollerare emozioni negative intense e spiega le strategie utilizzate per evitarle come importanti fattori di mantenimento del disturbo. In quest’ottica il rimuginio ansioso (worry) costituisce uno dei principali strumenti dell’ “evitamento emotivo”: chi rimugina ritiene che pensare continuamente a possibili conseguenze negative aiuti a generare nuove soluzioni per prevenirle o per prepararsi al loro inevitabile verificarsi. “Staccare” da quel pensiero, seppur intrusivo e spesso disturbante, è vissuto in modo terrifico e perciò costantemente evitato. Il rimuginio ha inoltre un effetto calmante a breve termine sull’attivazione neurovegetativa (tachicardia, sudorazione, pressione alta,..) legata all’ansia (Borkovec, Alcaine, & Behar, 2004): l’immediato sollievo del corpo rinforza, di nuovo, la credenza che rimuginare aiuti a tenere sotto controllo le emozioni!

Alcune ricerche hanno tuttavia dimostrato che a fronte di un benessere a breve termine, i rimuginatori cronici esperiscono emozioni intensamente negative a causa di questo stile di pensiero, sia sul piano fisiologico che sul piano soggettivo (Brosschot, Gerin, & Thayer, 2006), riportando un peggioramento della sintomatologia ansiosa e depressiva, senza però riuscire a cambiare strategia.

Ma allora, se è vero che il rimuginio aiuta la mente ad evitare emozioni negative e il corpo a non sentirle, come riescono i soggetti ansiosi invece a tollerare le emozioni negative generate dallo stesso rimuginio?

In un recente articolo pubblicato su Clinical Psychology Review (Michelle G. Newman, Sandra J. Llera, 2011), le autrici propongono un modello esplicativo nuovo del legame tra worry ed disfunzioni emotive; in contrasto con il modello cognitivo classico dell’evitamento emotivo (Borkovec, Alcaine, & Behar, 2004), ipotizzano che il timore dei soggetti gravemente ansiosi (GAD) non sia il solo esperire emozioni negative, ma che l’esperienza da cui sarebbero davvero terrorizzati sia un improvviso cambiamento dello stato emotivo causato da un’esperienza imprevista e negativa. Secondo questo modello i soggetti ansiosi sarebbero più inclini a percepirsi emotivamente vulnerabili rispetto a eventi negativi improvvisi e utilizzerebbero il rimuginio per mantenere uno stato emotivo negativo e prolungato proprio per evitare i rischi di un improvviso cambiamento.

Le implicazioni di questo modello sul trattamento cognitivo comportamentale sono enormi, se si pensa alla dimostrata efficacia delle tecniche di esposizione finora usate per la maggior parte dei disturbi d’ansia e alle difficoltà che invece si incontrano nel trattamento dell’ansia generalizzata (GAD). Le autrici suggeriscono che la paura del contrasto emotivo potrebbe essere una delle preoccupazioni target, forse la più importante, nel disturbo d’ansia generalizzato. La loro proposta è dunque quella di utilizzare le tecniche di esposizione graduale al contrasto emotivo (negative emotional contrast) e consentire i processi di adattamento al cambiamento, fisico e mentale, che un intenso stato emotivo generalmente provoca.

Trattare il disturbo d’ansia generalizzato come una “fobia specifica per il contrasto emotivo” è la sfida cui i futuri protocolli potrebbero orientarsi, nella cura di un disturbo così invalidante e costoso per la qualità della vita di chi ne soffre.

BIBLIOGRAFIA:

  • Michelle G. Newman, Sandra J. Llera (2011). “A novel theory of experiential avoidance in generalized anxiety disorder: A review and synthesis of research supporting a contrast avoidance model of worry”, Clinical Psychology Review, 31 (2011) 371–382.
  • Borkovec, T. D., Alcaine, O., & Behar, E. S. (2004). Avoidance theory of worry and generalized anxiety disorder. In R. Heimberg, D. Mennin, & C. Turk (Eds.), Generalized anxiety disorder: Advances in research and practice (pp. 77−108). New York: Guilford.
  • Brosschot, J. F., Gerin,W., & Thayer, J. F. (2006). The perseverative cognition hypothesis: A review ofworry, prolonged stress-related physiological activation, and health. Journal of Psychosomatic Research, 60(2), 113−124.

La narcosi catodica: cervelli in stand-by e deficit d’attenzione.

Vostro figlio non riesce a concentrarsi? Forse sta guardando troppa televisione.

Child-Teleision-© Joanna Zielinska - Fotolia.com«E’ il numero di ore e l’età in cui un bimbo inizia a guardare la televisione che incidono biologicamente sull’individuo. Ed è principalmente a causa del mezzo stesso, non del messaggio trasmesso, che si ottengono questi effetti devastanti». Sono queste le parole che il dott. Aric Sigman, psicologo inglese con alle spalle anni di pubblicazioni sull’effetto della televisione sul nostro organismo, utilizza per commentare il suo libro “Remotely Controlled. How television is damaging our lives – and what we can do about it”. La maggior parte delle persone, spiega il dott. Sigman, trascorrono davanti alla televisione ogni giorno un tempo inferiore solo al lavoro e al dormire. All’età di sei anni, un bambino generalmente ha già passato un intero anno davanti allo schermo. Questi dati sono da considerare molto seriamente. Il range di bambini affetti da miopia e da deficit di attenzione, da diabete e di individui che sviluppano nel tempo l’Alzheimer, aumenta a dismisura, mettendo in ginocchio la generazione dei giovani moderni: il cervello, in sostanza, non verrebbe stimolato dallo schermo, bensì verrebbe narcotizzato, colpendo aree di quest’organo che, diversamente, potrebbero essere allenate e stimolate da altre attività, come ad esempio la lettura o il gioco.

Risultati simili vengono anche da un team di esperti della University of Otago in Nuova Zelanda, i quali hanno condotto una ricerca su mille bambini tra i 5 e gli 11 anni, dividendoli tra coloro che passavano non più di 2 ore al giorno davanti alla televisione e chi invece le superava. Valutando i livelli e la capacità di attenzione quando gli stessi partecipanti avevano un’età compresa tra i 13 e i 15 anni, i ricercatori hanno osservato che, effettivamente, la fruizione di più di due ore al giorno di televisione in età infantile è associata a problemi di attenzione durante l’adolescenza. Le ipotesi che si nascondono dietro a questa relazione fra tv e disturbi sono molte: una è che il rapido alternarsi di scene possa sovra-stimolare lo sviluppo del cervello dei bambini, rendendo di conseguenza la realtà noiosa: «proprio per questo motivo i bambini che guardano molta tv possono diventare intolleranti nei confronti della attività ordinarie, come ad esempio i compiti», commentano i ricercatori neo-zelandesi. Un’altra ipotesi sarebbe che la fruizione televisiva possa sostituire le altre attività che stimolano la concentrazione, come la lettura, i giochi, lo sport.

Sempre nella stessa direzione, uno studio pubblicato la scorsa settimana sulla prestigiosa rivista Pediatrics mette in luce come il guardare programmi “frenetici e di fantasia” in tenera età possa portare alla compromissione delle funzioni esecutive dei più piccoli, ovvero della loro capacità di attenzione e di problem-solving e di controllo del comportamento. È possibile che questi programmi, sostiene la psicologa americana Angeline Lillard, coordinatrice dello studio, in quanto caratterizzati da costante movimento e alternarsi frenetico di differenti attività, possano influire negativamente sulle capacità dei bambini di concentrarsi.

Quale la soluzione proposta? L’American Accademy of Pediatrics sostiene che i bambini sotto i due anni non dovrebbero guardare alcuna televisione, mentre quelli più grandi non dovrebbero superare le due ore al giorno, meglio se supervisionati. Insomma troppa televisione fa male, ci dicono i ricercatori. Assunto a cui si può arrivare anche solo con il buon senso dei genitori responsabili.

BIBLIOGRAFIA:


Il Bullo, il Maschio Alpha e la lotta per lo Status Sociale

Bullo o vittima di bullismo, due facce della stessa medaglia.

Wolf_© Kimsonal - Fotolia.comDiane Felmlee dell’Università del Wisconsin e Robert Faris dell’Università del North Carolina, due professori e ricercatori universitari in psicologia sociale, hanno condotto su commissione della CNN uno studio sul bullismo nelle scuole e hanno scoperto che lo stereotipo del bullo, a caccia del compagno di scuola debole e indifeso, non riflette la realtà delle cose.

Questo studio ha coinvolto più di 700 studenti di uno tra i più rinomati licei Newyorkesi; agli studenti è stato chiesto di rispondere a un questionario di 28 domande al fine di indagare i comportamenti aggressivi nell’arco di tutto un semestre scolastico, lo strumento utilizzato ha permesso anche di raccogliere informazioni specifiche su “chi ha fatto cosa“.

In disaccordo con lo stereotipo comune di bullo e delle sue vittime, la ricerca ha messo in luce come a essere coinvolti in combattimenti sociali – verbali, fisici ma anche cibernetici – non siano tanto i ragazzi con problemi psicologici e emarginati dalla vita sociale dei compagni, ma proprio quelli che si trovano al centro della scena sociale scolastica. Sono proprio loro che gareggiano per stabilire a chi spetta il posto più alto nel gerarchia sociale della scuola, anche se conservato per poco però, probabilmente solo fino al combattimento successivo.

In questo scenario infatti vittima e aggressore sono solo due ruoli complementari e transitori, spesso giocati entrambi dalla stessa persona ma in momenti diversi, anche molto ravvicinati, della sua carriera sociale all’interno della scuola. Infatti quando un ragazzo aumenta troppo il suo status sociale corre sia il rischio di diventare maggiormente aggressivo verso gli altri che di essere a sua volta oggetto di maltrattamenti da parte dei compagni.

Essere scherniti e ridicolizzati pubblicamente o aggrediti fisicamente dai compagni – solitamente considerati buoni amici fino ad un attimo prima – è spesso un esperienza traumatica che impatta così violentemente sulla propria immagine di sè che l’autostima di molti adolescenti rimane mortificata a lungo, aprendo la strada in alcuni casi a malattie psichiche gravi o addirittura a tentativi di suicidio.

Un aspetto, purtroppo prevedibile ma comunque impressionante, è che ben 81% di questi episodi rimangono taciuti agli adulti, senza quindi la possibilità di un tempestivo intervento sull’escalation di violenza. Augurandoci in questo senso che le due coppie di genitori descritte sagacemente da Polanski nel suo ultimo film non siano rappresentative di tutta la popolazione adulta contemporanea!

Se state pensando che il contesto ricco e benestante nel quale è inserita la scuola possa essere in qualche modo significativo nello spiegare le dinamiche agonistiche descritte vi sbagliate, perchè i risultati di questo studio pilota sono sovrapponibili a quelli di un precedente studio condotto all’interno di un liceo di campagna del North Carolina. Il contesto socioeconomico familiare non c’entra, dicono i ricercatori, ciò che espone maggiormente alla guerriglia sociale è proprio la propria posizione all’interno della gerarchia sociale.

Niente di nuovo, dico io, basta guardare cosa succede nell’intero mondo animale, dalle distese protette dei parchi africani alle aree cani recintate dei nostri giardini cittadini: stabilire una gerarchia sociale è fondamentale perché garantisce una pacifica e ordinata convivenza. Come ben sanno i nostri coinquilini terrestri più economico e meno pericoloso ovviamente è simulare il combattimento, almeno fino a che lo si può evitare.

Infatti, come sottolineano i ricercatori, essere più aggressivi non assicura la probabilità di salire nella gerarchia sociale in un secondo momento; la maggior pare degli sforzi sono destinati ad essere vani e quindi inutilmente dispendiosi, da tutti i punti di vista.

Rendere i ragazzi consapevoli dell’inutilità delle loro guerriglie agonistiche è secondo gli studiosi il modo migliore per incominciare a contenere il problema.

Magari insieme a qualche documentario sul mondo animale…!

BIBLIOGRAFIA:


Venerdì 14-10-2011

rassegna stampaTanatosi negli uomini, i primi studi.

Per molti animali l’estremo e ultimo meccanismo di difesa e sopravvivenza consiste nella tanatosi: fingere di essere morti per sfuggire a un predatore. Un gruppo di ricercatori in Brasile sta ora dimostrando come questa forma di risposta automatica a situazioni di grave pericolo si presenti anche negli esseri umani. Un riflesso involontario -eredità evolutiva come altri atavismi- che provoca nei soggetti che la esperiscono una terribile sensazione “blocco” corporeo indipendente dalla volontà. Dirette conseguenze di questa “Tonic immobility” sono i sensi di colpa o il senso di vergogna provato ad esempio dalle vittime di violenza sessuale: paralizzate dall’immobilità tonica. Le conseguenze legali del riconoscimento di questo meccanismo neurofisiologico sono vaste: in molte giurisdizioni ad esempio, un comportamento “passivo” della vittima di un’aggressione sessuale viene legalmente interpretato come “tacito assenso”.

Alcool, potere e la perdita delle inibizioni.

Potere, ubriachezza e anonimato possono condurre, nel bene o nel male, a comportamenti sociali paradossalmente simili: ciò che li accomuna è il crollo delle inibizioni dovuto alla disattivazione del Sistena di Inibizione del Comportamento. Gli atti commessi saranno quindi eroici o edonici, pro-sociali o antisociali a seconda delle motivazioni e delle inclinazioni personali o delle occasioni fornite dal contesto del momento. Questo, come riporta la notizia apparsa su Perspectives on Psychological Science, spiegherebbe perchè l’ubriachezza può favorire l’aggressività o al contrario comportamenti altruistici o perchè l’anonimato può indurre all’egoismo e alla frode o promuovere comportamenti di aiuto.

Materialismo VS Stabilità di coppia.

I risultati di un ampio studio, che ha coinvolto ben 1700 coppie, apparso sul Journal of Couple & Relationship Therapy indicano che le coppie in cui entrambi i partner ammettono un forte interesse per il denaro presentano maggiore instabilità relazionale, alta conflittualità, minore capacità di risolvere i conflitti, e una peggiore qualità della relazione di coppia.

Crisi economica? Più sesso per gli uomini.

Omri Gillath della University of Kansas sta studiando le risposte automatiche degli uomini a situazioni di grande pericolo ambientale percepito. Dal punto di vista della psicologia evolutiva, di fronte a un situazione che presenta scarse probabilità di sopravvivenza, gli uomini reagiscono in maniera molto più vigorosa agli stimoli sessuali,al fine di massimizzare le chances di riprodursi. Trasposta nella realtà contingente, questa reazione dettata da imperativi biologici viene innescata anche da ciò che in tempi di pace rappresenta il maggiore pericolo (percepito) per la nostra sopravvivenza: l’andamento disastroso del’economia.

Mercoledì 12-10-2011

rassegna stampaOut of the closet!

L’età del “coming-out” nella popolazione gay di entrambi i sessi è diminuita molto negli ultimi 20 anni, passando da 25 a 16 anni. Un ampio studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tel Aviv e apparso su Family Relations indaga la salute mentale dei giovani omosessuali e i possibili fattori si stress psicologico legati a questo fenomeno. Vista la giovanissima età, il sostegno emotivo e la vicinanza della famiglia, ancor più di quello dei pari, si sono rivelati elementi cruciali nel permettere la serena accettazione del proprio orientamento sessuale e i principali fattori di protezione contro stressors psicologici come l’allontanamento precoce da casa e il taglio emotivo con la famiglia di origine.

Chi è causa del suo male…

Un team di psicologi dell’Università del Kansas ha svolto un interessante studio su come bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie immaginano e anticipano l’interazione con compagni di scuola molto…sovrappeso, aggressivi, timidi, con voti bassi, poco atletici o con evidenti deficit dell’attenzione o iperattività. Se il compagno è percepito come responsabile, colpevole, nell’avere determinato la sua situazione e nel mantenerla, il giudizio da parte degli altri sarà impietoso, sarà cioè giudicato incapace di modificare la sua situazione nei 6 mesi successivi e verrà preso in giro e ridicolizzato per il suo difetto. Le femmine si sono rivelate più gentili e comprensive dei maschi per tutte le caratteristiche attribuite tranne che per il sovrappeso e l’aggressività, considerate in assoluto i difetti peggiori e più severamente giudicati da entrambi i sessi.

Non adesso, ho mal di testa.

Il 40% delle donne americane tra i 20 e i 70 anni lamenta scarso desiderio sessuale. Il desiderio sessuale è ben più che un emozione, coinvolge infatti l’attivazione di diverse aree cerebrali che governano emozioni, la motivazione, l’immagine corporea e memorie associate ad esperienze personali. Recentemente la neuroscienziata Stephanie Ortigue e il suo team della Syracuse University hanno constatato, in un gruppo sperimentale di donne che lamentavano scarso desiderio sessuale e assenza di fantasie e pensieri sessualizzati, la non attivazione delle aree cerebrali femminili normalmente coinvolti nello scatenarsi dell’eccitazione. È stata invece osservata l’attivazione delle regioni cerebrali prefrontali coinvolte nell’inibizione dell’azione, nel controllo e nel giudizio di sé e nell’interpretazione del comportamento altrui. Questo significa che il proverbiale mal di testa ha a che fare con un eccessiva concentrazione nel cercare di interpretare, spesso erroneamente, i comportamenti dell’altro, e in un eccessivo controllo e giudizio delle proprie risposte agli stimoli sessuali. Insomma, riuscire a vivere il momento presente è la condizione indispensabile allo scatenarsi del desiderio sessuale.

Il senso innato dell’altruismo e il costrutto culturale della giustizia.

Bambini al di sotto dei 15 mesi di età hanno già iniziato a sviluppare senso della giustizia e altruismo: è quanto scoperto in una ricerca condotta dall‘Università di Washington. I bambini che si sono mostrati maggiormente sensibili a una equa distribuzione del cibo tra sé e i compagni sono anche quelli più disponibili a prestare e condividere i loro giocattoli. Lo studio ovviamente è a sostegno di fenomeni umani interpersonali quali il senso di uguaglianza e la cooperazione, che sebbene compaiano molto presto non sono però ugualmente sviluppati in tutti i bambini. Da cosa di pendono le differenze individuali osservate? Da fattori genetici innati? O dalla trasmissione all’interno della famiglia di valori e credenze? Questo è quello su cui i ricercatori si propongono ora di investigare.

Ottimismo sì, ma in piccole dosi!

Neuroscienze e scienze sociali concordano nel ritenere l’essere umano più ottimista che realista, nonostante ci piaccia pensare di essere creature razionali capaci di fare giuste previsioni sulla base di valutazioni obiettive.

Optimism_© ra2 studio - Fotolia.comIn realtà diversi studi hanno dimostrato che le persone sottostimano la possibilità di divorziare, di perdere il lavoro, di ammalarsi di cancro mentre sovrastimano la propria aspettativa di vita di oltre 20 anni. Questa tendenza a percepire il futuro roseo, anche paragonandolo al passato e al presente, è nota come optimism bias e ci riguarda tutti, maschi e femmine, giovani e non giovani, ricchi e poveri.

Certo è strano immaginare che tale atteggiamento mentale sopravviva anche in tempi di crisi economica e sciagure ambientali, ma la nostra mente se la cava immaginando un difficile futuro per la collettività ma non per noi stessi.

Mantenere una buona dose di ottimismo del resto sembrerebbe avere la funzione di consentire  un migliore adattamento, permettendoci di immaginare alternative a uno status quo che non ci soddisfa e facendoci credere di avere la possibilità di raggiungerle. Senza di esso probabilmente non avremmo mai il coraggio di avventurarci verso il cambiamento ma permarremmo sempre in quella sorta di immobilità che affligge chi soffre di depressione.

Questa sorta di speranza dà invece sollievo alle nostre menti, abbassa lo stress e ci mantiene in salute, riducendo del nove per cento il rischio di infarto.

A questo punto non sembrano esserci dubbi: essere ottimisti conviene! Ma una neuroscienziata è pronta a ridimensionare subito il nostro optimism bias  e a metterci in guardia dai rischi di un atteggiamento mentale eccessivamente speranzoso.

Nel suo ultimo libro, The Optimism Bias,  Tali Sharot scoraggia infatti un eccesso di entusiasmo verso il futuro. Spesso questa  rosea visione, definita anche ottimismo irrealistico, ci fa sottovalutare i rischi reali delle nostre condotte nella convinzione che le cose peggiori tocchino sempre al prossimo quindi…

“L’ottimismo è come il vino rosso: un bicchiere fa bene, una bottiglia è pericolosa”.

BIBLIOGRAFIA:

  • Sharot, T. (2011). The Optimism Bias, A Tour of the Irrationally Positive Brain, Knopf Doubleday Publishing Group.
  • Sharot, T., Riccardi A. M., Raio, M. C., Phelp E. A., (2007). Neural Mechanism Mediating Optimism Bias, Nature Publisching Group.
  • Anolli, L. (2005). L’Ottimismo, Bologna, Il Mulino.


L’ossessione per il sesso: politica, cultura e psicologia

Sex Addiction - © kentoh - Fotolia.comNel decennio passato si sentiva parlare spesso di sex addiction, dipendenza dal sesso. Era una cosa molto americana, anzi da attori americani. C’erano i casi di Michael Douglas o di David Duchovny. Nel 2010 è stato il turno di Tiger Wood, che non è un attore. E in Italia? In Italia l’unico centro che si occupi di casi del genere si trova a Bolzano, ma correndo per il web non trovo aggiornamenti dal 2008. Sarà ancora funzionante?

La sex addiction è un fenomeno tra il culturale e il clinico, un disturbo non si sa fino a che punto…CONTINUA A LEGGERE SU Affaritaliani.

Malati di sesso

Mangiare, bere, sopravvivere e riprodursi, sono bisogni fondamentali e imprescindibili per la sopravvivenza dell’uomo. Ma cosa accade quando il bisogno si trasforma in una vera e propria ossessione?

Lovers - © George Mayer - Fotolia.comCercando su The Internet Movie Database con le parole “sexual obsession” si trovano 162 film, di cui ben 138 sono film drammatici o thriller. Sembra proprio che al cinema l’ipersessualità – l’abitudine di ricercare rapporti sessuali o desideri sessuali frequenti, improvvisi e incontrollabili – equivalga a ossessione e omicidio. Se nel mondo della celluloide c’è quest’idea chiara e ben definita, così non è nel mondo psichiatrico e medico. Infatti sebbene da molti anni questo disturbo sia al centro delle discussione di medici, psicologi e sessuologi, non si è ancora raggiunta una definizione definitiva e la proposta di Martin Kafka di far rientrare ufficialmente nel DSM-V l’ipersessualità tra i disturbi in esso descritti, apre nuove discussioni. Bisogna considerare il sesso come una droga e quindi parlare di “dipendenza sessuale”, oppure potrebbe essere il risultato di un comportamento ossessivo? O ancora impulsivo?

Per chiarirci le idee proviamo a partire dall’inizio. Quando il desiderio sessuale diventa patologico? Quantificare e qualificare il comportamento sessuale è la vera sfida della moderna sessuologia, poiché in questo contesto molto importante è il ruolo svolto dal contesto sociale e culturale, dalla morale comune e individuale e dalla religione. Per ovviare a questi problemi il gruppo di Kafka ha proposto questa nuova definizione: “la vita sessuale di un individuo si può definire “malata” solo quando diventa una fonte persistente di infelicità e, soprattutto quando l’individuo perde completamente il controllo delle proprie pulsioni”.

Se al complesso problema della definizione forse una soluzione si è trovata, così non è per i modelli psicologici e biologici che cercano di comprendere questo disturbo. Un modello molto diffuso è quello della dipendenza sessuale nel quale si suggerisce come l’attività sessuale, poiché provoca il rilascio di ormoni e di neurotrasmettitori legati al piacere, in alcune persone inneschi una vera e propria dipendenza  come quella derivante dall’assunzione di droghe o alcool. A questo punto gli esperti si dividono: alcuni ritengono che la dipendenza sia mantenuta da solo fattori biologici, altri invece sottolineano l’importanza del vissuto personale legato a momenti così intensi.

Un’altra teoria che è stata avanzata per spiegare l’ipersessualità è quella che la considera come risultato di un comportamento compulsivo. Willy Pasini, spiega che dal momento in cui le compulsioni vengono messe in atto per ridurre lo stato d’ansia, l’atto sessuale potrebbe diventare un comportamento compulsivo che queste persone mettono in atto per ridurre l’ansia e non per piacere. Si attiva così un circolo vizioso mantenuto dalla consapevolezza di aver fatto qualcosa di “sbagliato” che fa aumentare il livello dell’ansia, che viene placata ricercando nuovi e più frequenti rapporti sessuali, che col tempo risultano essere sempre meno legati al piacere diventando e sempre più meccanici.

Ma non c’è due senza tre. Dagli studi sul funzionamento biologico del desiderio sessuale e dalle ipotesi avanzate negli anni ottanta da Bill Kinder nasce una terza teoria, quella attualmente più accreditata, che spiega la continua ricerca di partner sessuali come risultato dell’impulsività, ovvero della perdita della capacità di controllare o resistere a una tentazione. Teoria che ben si combina anche con tutti i casi di ipersessualità presenti in certe forme di epilessia e demenze senili ben noti da tempo ai neurologi.

Tante cause, tante teorie, un solo problema che fa stare male chi ne soffre. Ma la cura? Ovviamente esistono diversi approcci in base alle diverse teorie di riferimento. C’è chi propone l’astinenza assoluta, aiutata con la partecipazione di gruppi di auto aiuto come quella degli alcolisti anonimi. C’è chi propone invece di intervenire con una terapia cognitiva comportamentale e chi invece sostiene che l’unica terapia possibile sia quella farmacologica.

Ad ogni modo emerge la necessità di inserire questa patologia all’interno dei manuali diagnostici per poter aiutare i pazienti strutturando interventi più precisi ed efficaci, dato che questo disagio è anche un problema sociale, che contribuisce, inoltre, alla trasmissione di malattie e alla fine di molti rapporti sentimentali.

BIBLIOGRAFIA:


Domeniche di lettura: Gerard Reve e Willem F. Hermans, un’amicizia letteraria in forma epistolare

La domenica mattina è il giorno per le digressioni e le letture pigre e inutili a letto. Stefano Beretta è pigro quanto noi, e ci ripropone una delle sue recensioni migliori. Ci accompagna in un libro che quasi sicuramente non leggeremo mai, anche perché è in olandese: il carteggio tra i due scrittori Gerard Reve e Willem F. Hermans. Chi saranno mai? Fidatevi, Beretta riesce ad incuriosirci.

Hermans & Reve Gerard Reve Willem Frederik Hermans sono due tra i più importanti scrittori olandesi della seconda metà del ventesimo secolo e, per almeno un decennio, hanno coltivato un’amicizia letteraria che ha trovato espressione in un carteggio abbastanza fitto, pubblicato un paio d’anni fa in Olanda con il titolo Verscheur deze brief! Ik vertel veel te veel (Straccia questa lettera! Racconto troppe cose).

Le prime lettere risalgono al 1947 ed entrambi gli autori sono agli esordi della loro carriera. C’è qualcosa che li unisce: lo scandalo e la riprovazione che accolgono i loro primi romanzi, De avonden (Le sere) di Reve e De tranen der acacia’s (Le lacrime delle acacie) di Hermans. Entrambi sono accusati di crogiolarsi in un pessimismo eccessivo e di non lasciare alcuna  apertura alla speranza. In particolare Frits van Etgers, il protagonista di De avonden, vive un’esistenza monotona e priva di illusioni e si abbandona a un cinismo plumbeo. È quindi naturale, in un certo senso, che Reve e Hermans trovino tanto più consolazione e comprensione reciproca nella loro amicizia e in questa corrispondenza, quanto maggiori sono le difficoltà che incontrano le loro opere. La loro è una coalizione contro la mentalità chiusa e ristretta, molto provinciale, del mondo letterario e culturale dell’Olanda postbellica. Le lettere di quegli anni, infatti, affrontano nel dettaglio l’ostilità di critici, recensori e giornalisti e, soprattutto per quanto riguarda Hermans, la mancata pubblicazione – dopo tante discussioni con l’editore – della seconda serie di Mandarijnen op zwavelzuur (Mandarini all’acido solforico), una raccolta di articoli polemici su vari esponenti dell’intelligencija olandese dell’epoca. Alcune di queste lettere sono anche molto spassose, come per esempio quella scritta da Gerard Reve alla Paris Review – e girata poi a Hermans – in cui finge di essere stato internato in un manicomio per rendere sé stesso più interessante e i suoi racconti più “appetibili”.

Dal 1954 in avanti osserviamo come Gerard Reve tenti di smarcarsi sempre più dall’atmosfera claustrofobica dell’Olanda e di conquistarsi una caratura più “internazionale” decidendo di scrivere in inglese. Da quel momento in poi, per qualche anno, Reve scrive le sue lettere a Hermans solamente in inglese, mettendolo al corrente dei suoi progressi riguardo alla composizione dei racconti che finiranno poi nella raccolta The Acrobat and Other Stories. E’ un’impresa, questa, che lascia scettico Hermans, il quale osserva giustamente che un autore non deve soltanto maneggiare correttamente una lingua, ma deve in qualche modo anche essere immerso nella cultura e nella società che  alimentano quella lingua, suggerendogli di trasferirsi definitivamente a Londra o in un paese anglofono. Comunque sia, almeno fino alla fine degli anni cinquanta, tra i due ci sono grande stima e apprezzamento reciproco per le proprie opere letterarie. Poi, nel 1959, avviene una prima rottura, a cui succede un silenzio epistolare durato cinque anni.

Quando la corrispondenza riprende, nel 1964, le cose non sono più come prima e sono destinate a peggiorare con il tempo. Reve e Hermans hanno intrapreso strade diverse. Da un lato, Gerard Reve ha lasciato la moglie, ha fatto coming out, ha cominciato a collaborare con la rivista Tirade, per la quale Hermans non nutre alcuna considerazione, tradendo anzi un certo fastidio quando Reve insiste perché anch’egli vi partecipi con qualche articolo. La seconda frattura avviene in corrispondenza della conversione di Reve al cattolicesimo, avvenuta a metà degli anni sessanta. Hermans – geologo di formazione, ateo e razionalista – glielo dice chiaro e tondo, nel 1968: “Da quando ti sei convertito al cattolicesimo romano, mi dai semplicemente l’impressione di andare in giro con il paraocchi”, e gli chiede di lasciarlo in pace. Da quel momento in avanti nel libro ci sono quasi solo lettere di Reve, che invece continua imperterrito a scrivere a Hermans. Anzi, ce n’è una, gelida, dello stesso Hermans che, rispondendo a una esplicita richiesta dell’amico e dandogli del “lei”, gli vieta la pubblicazione delle lettere che Reve gli ha scritto.

Devo dire, però, che queste ultime lettere di Gerard Reve sono estremamente divertenti, degne rappresentanti di quello stile epistolare che ormai Reve ha elevato a forma d’arte con la pubblicazione di vari carteggi. Sono un misto di petulanza, buffoneria, stravaganza, inventiva linguistica e sragionamenti che – il lettore se ne rende ben conto – dovevano irritare sommamente un individuo come Hermans (che, infatti, spesso annota sulla busta: “Naturalmente non rispondo” o “Non rispondere a queste cazzate”). Tra queste, in particolare, ce n’è una con cui Reve spiega – a modo suo – perché si è convertito al cattolicesimo e che cosa questa religione significhi per lui, non soltanto come uomo ma anche come artista: “Sono diventato cattolico perché ne apprezzo la ricchezza di simboli, da cui ho potuto attingere, & perché per l’artista romantico è l’unica religione accettabile, in ogni caso in Europa”, e rimprovera Hermans: “Non riesco quasi a credere che tu non sia in grado di vedere & riconoscere la completa autonomia di scienza & religione. (…) La religione matura non vede più la scienza come una nemica. La scienza – o almeno certe sue branche – vede al massimo la religione come una nemica tutt’al più passiva”.

Insomma, un libro certamente non fondamentale, ma utile per chi, avendo letto sia Reve che Hermans, voglia dare un’occhiata ai retroscena della loro produzione letteraria e sia interessato a conoscere più da vicino il rapporto, non sempre facile, tra questi due capisaldi delle lettere olandesi del Novecento.


IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia

Assisi 2011 - Forum sulla Formazione in Psicoterapia - IV Edizione

Il Convegno avrà luogo in data 14, 15 e 16 Ottobre 2011 presso La Cittadella di Assisi.

Lo scopo dell’iniziativa è di:

1. stimolare e incoraggiare la ricerca scientifica in ambito psicoterapeutico, attraverso larealizzazione di disegni di ricerca adeguati che possano avere particolare rilevanza inambito clinico;

2. promuovere la ricerca bibliografica e l’approfondimento critico della letteraturascientifica internazionale, per venire a conoscenza di nuove metodiche di intervento colpaziente;

3. sviluppare nuove idee in maniera creativa seguendo un processo logico scientificoadeguato, con riferimento alla letteratura esistente;

4. favorire lo scambio di conoscenza tra i diversi allievi in relazione ai temi scientificitrattati durante l’evento;

5. conoscere la rilevanza clinica della ricerca in ambito psicopatologico e scientifico.

 

SCARICA IL PROGRAMMA + LIBRO DEGLI ABSTRACT.

Ma la musica può

Musica per il nostro cervello – Parte 3

Musicoterapia_© puckillustrations - Fotolia.comCi eravamo lasciati sottolineando i benefici che la musica porta al nostro cervello e come essa agisca su di esso; vedremo oggi più nel dettaglio questi meccanismi cercando anche di capire come la musica possa essere usata in terapia e perché.

Va premesso che il ruolo della musica in terapia ha subito una svolta radicale negli ultimi 15 anni, soprattutto grazie agli sviluppi degli studi di brain imaging che ci hanno permesso per la prima volta di osservare un cervello umano mentre il soggetto è impegnato a svolgere dei compiti cognitivi o motori complessi, incluse le arti. Mentre fino a pochi decenni fa si pensava che la musica fosse un “lusso”, un qualcosa di “soft” da offrire al paziente ma che non avrebbe comportato dei benefici diretti al cervello, gli studi così concepiti, invece, hanno oggi completamente cambiato questa prospettiva. I modelli evidence-based attuali, infatti, considerano la musicoterapia non più come scienza debole – o non scienza – quanto piuttosto la pongono sullo stesso piano delle scienze forti, tanto da raccomandarla nei protocolli standard riabilitativi (Schlaug, 2008).

I motivi di questo cambiamento sono essenzialmente due: prima di tutto, le aree del cervello attivate dalla musica non sono dominio esclusivo della musica, anzi si tratta dell’attivazione di connessioni deputate a molte altre funzioni, come i processi del linguaggio (ad esempio l’area di Broca), la percezione uditiva, l’attenzione, la memoria e il controllo esecutivo. Il secondo importante motivo consiste nel fatto che la musica effettivamente cambia il cervello. Le aree uditive e motorie, infatti, sarebbero più grandi già dopo qualche settimana dall’inizio della pratica musicale, con l’aggiunta di maggiori connessioni e quindi plasticità.L’esposizione e l’esperienza della pratica musicale creerebbero, quindi, nuove e più efficienti connessioni tra i neuroni, attraverso un processo che possiamo definire di “re-scrittura”. Nel campo della riabilitazione queste scoperte si traducono nell’abbandono delle tecniche di stimolazione passiva e nel promuovere, al contrario, l’apprendimento attivo, l’esposizione e l’esperienza produttiva: la musica diventa quindi il mezzo attraverso cui il cervello ricrea nuove “forme”, attraverso, appunto, l’esercizio e l’apprendimento. È così che il cervello riesce a recuperare al meglio le abilità perse a seguito di traumi, patologie o deficit cognitivi. In questo senso la musica, da debole ausilio alla terapia, può invece oggi essere considerata un potente fattore di rieducazione cognitiva, motoria e del linguaggio, impiegata, oltre che nei disturbi neurologici, in tutti quei casi di afasia, disturbi dell’apprendimento e del linguaggio nei bambini.

Detto questo, non possiamo non dire che la musica rimane uno dei canali di comunicazione e sintonizzazione affettiva e relazionale universalmente più potenti alternativi alla parola. Dal punto di vista terapeutico questo significa che la musica diventa stimolazione multisensoriale, relazionale, emozionale e cognitiva volta a favorire l’integrazione spaziale, temporale e sociale dell’individuo, attraverso strategie di armonizzazione.

Certamente molte ricerche vanno ancora svolte in questa direzione, per capire, ad esempio, come lavorare con i bambini, nei casi di autismo o in altre patologie cerebrali. Questioni irrisolte riguardano anche le caratteristiche che rendono un pezzo musicale terapeutico per il nostro cervello e se specifici brani sono più indicati nella riabilitazione e nello sviluppo di determinati processi cognitivi rispetto ad altri.

BIBLIOGRAFIA:

  • Thaut M.H. & McIntosh G.C., (2010). How Music Helps to Heal the Injured Brain: Therapeutic Use Crescendos Thanks to Advances in Brain Science, Cerebrum.
  • Jausovec N., Jausovec K., Gerlic I., (2006). The influence of Mozart’s music on brain activity in the process of learning, Clinical Neurophysiology, 117, 2703–2714.
  • Schlaug G., (2008). Music, musicians, and brain plasticity. In Hallam S., Cross I., and Thaut M.H., (Eds.), The Oxford Handbook of Music Psychology (197–208). Oxford: Oxford University Press.


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