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Heavy Metal e Adolescenti: gli Effetti sull’Umore.

Heavy Metal: gli effetti sull'umore - © log88off - Fotolia.comLa musica ha un ruolo significativo nella vita di ognuno di noi. È parte integrante della nostra esistenza e ci accompagna da tempi antichissimi, radicati nella storia evolutiva dell’uomo.

Proprio per la sua importanza, alcuni ricercatori si stanno interrogando sul peso e sul significato che la musica possa avere in un’età difficile come l’adolescenza. Per molti adolescenti infatti, la musica risulta essere l’attività preferita tra le mura di casa propria.

Nella nostra epoca, la gamma e la diversità dei generi musicali a disposizione degli adolescenti è in continuo aumento e la rivoluzione degli mp3 e del libero scambio tra pari attraverso il web consente di ascoltare una straordinaria varietà di canzoni provenienti da ogni parte del mondo. È per questo che l’aumentato livello di accesso alla musica da parte degli adolescenti obbliga gli educatori (genitori ed insegnanti) ad essere informati sull’impatto che questa possa avere sul potenziale sviluppo di una giovane mente.

Tra i ricercatori, c’è chi si è schierato a favore della musica e del suo impatto positivo sullo sviluppo emotivo di un giovane adolescente, e chi ha preferito sottolinearne le qualità negative sulla scia delle polemiche originate dall’avvento delle nuove quanto variegate forme di musica partorite dagli anni Settanta.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
Clicca sull’immagine per leggere: Musica e Didattica Metacognitiva. Autore: Lucio Montagna

Sul versante del negativismo, ad esempio, la Parent-Teacher Association of America e l’American Academy of Paediatrics sfidò l’industria musicale con una vasta serie diaccuse. Il Rock inparticolare finì nel mirino delle ingiurie per la sua associazione tra adolescenza e suicidio. La musica Heavy Metal fu presa di mira dal Parent’s Music Resource Centre, peri suoi legami con i comportamenti antisociali dei giovani adolescenti. Oltre alla preoccupazione dell’opinione pubblica per una ipotetica relazione causale tra ascolto di stili di musica aggressiva e condotta antisociale, la ricerca ha inoltre identificato una connessione tra problematiche psichiche e preferenze musicali anche per il Rap e il Rave. Le accuse nascono dalla presenza in alcune canzoni di messaggi cosiddetti “subliminali”, anche se queste hannodimostrato di avere intenzioni ben più superficiali, come ad esempio il successo commerciale. L’impatto di temi di estrema violenza, ribellione e sessualitàpromiscua tipicamente utilizzati nell’Hip-Hop e nell’Heavy Metal può però esseremitigato in qualche misura da una ricerca che suggerisce che gli adolescenti diano attenzione più alla musica che ai testi (in molti casi già pesantemente camuffati dalla distorsione delle chitarre elettriche e dal tipico canto fatto di urla e suoni gutturali, comunque tecnicamente apprezzabili).

 

Le ricerche di Stack e Gundlach (1992) su questo tema sono state le più provocatorie, arrivando a trovare una relazione tra la predominanza della proposta di musica Heavy Metal da parte di alcune Stazioni Radio occidentali e i tassi di suicidio. La loro indagine delle variabili ha però portato in ultima analisi al suggerimento che sia stata la mancanza di religiosità ad essere più fortemente legata ad uno stato d’animo suicida rispetto alla preferenza stessa per la musica Heavy Metal.

I ricercatori hanno spesso suggerito che certe preferenze musicali possano essere comunque indicative di una certa vulnerabilità ai problemi di salute mentale (Scheel e Westefeld, 1999). Roe (1987) e Coleman (1960) trovarono che le scelte musicali erano legate al successo scolastico e all’invalidazione del successo previsto dagli studenti stessi. Questo è stato sostenuto anche da Took e Weiss (1994) che hanno trovato un’associazione tra l’insuccesso scolastico e il crescente interesse per la musica Heavy Metal di alcuni adolescenti, che ne farebbero utilizzo come fuga dal confronto con i propri fallimenti.

Ultima ma non meno importante, la ricerca della McFerran (2011) sta mostrando come gli adolescenti ad alto rischio di disagio psicologico riportino la più alta percentuale di stati d’animo negativi dopo aver ascoltato musica Heavy Metal e la più bassa percentuale di stati d’animo migliori dopo l’ascolto della stessa. Con ulteriori ricerche, questo potrebbe dimostrare che gli adolescenti ad “alto rischio” abbiano difficoltà ad utilizzare la musica per migliorare il loro umore.

Sul versante dell’ottimismo invece, ed in modo altrettanto significativo, lo studio di Lester e Whipple (1996) non ha trovato alcuna relazione significativa tra esperienza passata di ideazione suicida e preferenze per la musica Heavy Metal, suggerendo che questa possa essere uno stato transitorio per molti adolescenti. LaCourse (2001) ancora, ha scoperto che l’ascolto della musica è in realtà inversamente correlato con l’ideazione suicida nelle ragazze. È per questo che Saarakallio e Erkilla (2007) hanno suggerito che la ricerca si sia focalizzata eccessivamente sui risultati negativi ed hanno raccomandato una maggiore attenzione ai suoi effetti positivi. Gli stessi autori hanno anche sottolineato l’aspetto dell’intenzionalità della regolazione dell’umore attraverso l’ascolto della musica, opponendosi al presunto processo di ascolto passivo.

Insomma, nonostante la vastità dei dati rispetto alle influenze negative della musica, è comunque in generale riconosciuto che la musica possa svolgere un ruolo positivo nella vita di molti adolescenti.

È importante considerare il ruolo della musica nell’adolescenza da una prospettiva evolutiva. Il processo di formazione dell’identità che definisce questo stadio di sviluppo si basa sul passaggio dalla famiglia alle alleanze tra coetanei (Erikson 1965). L’adolescenza sana è definita dal rifiuto del nucleo familiare primario e dalla preferenza per lo sviluppo di reti sociali esterne alla famiglia. La musica può essere vista come parte integrante di questo processo, così costellato dalle preoccupazioni genitoriali per i video musicali sessualmente provocanti di Madonna, per l’Heavy Metal degli Slayer ed il Rap di Eminem.

A prescindere da questi risultati, siano essi positivi o negativi, riteniamo sia utile che gli adulti riconoscano intuitivamente il disagio negli adolescenti e che sviluppino capacità di dialogo con gli stessi su come la musica influisca sul loro umore. È importante non criticare il genere musicale in sé, rischiando di suscitare una naturale reazione difensiva, ma focalizzarsi su come la musica vada utilizzata. Questo porterebbe a conversazioni più produttive e a relazioni significative, specialmente se il genitore o l’insegnante accettasse di ascoltare la loro musica e si mostrasse interessato.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coleman, J. S. (1960). “The adolescent subculture and academic achievement.” The American Journal of Sociology 65(4): 337-347.
  • Erikson, E. (1965). Childhood and society. London, Penguin Books.
  • Lacourse, E., M. Claes, et al. (2001). “Heavy metal music and adolescent suicide risk.” Journal of Youth and Adolescence 30(3): 321-332.
  • Lester, D. and M. Whipple (1996). “Music preference, suicide preoccupation, and personality.” Suicide & Life-Threatening Behaviour 26: 68-70.
  • McFerran K., O’Grady L., Grocke D., Sawyer S. M. (2011). “How teenagers use music to manage their mood: An initial investigation.” (in corso di pubblicazione, per gentile concessione tramite corrispondenza della Dr. Katrina McFerran)
  • Roe, K. (1987). The school and music in adolescent socialisation. Pop music and communication. J. Lull. CA, SAGE: 212-230.
  • Saarikallio, S. and J. Erkkila (2007). “The role of music in adolescents’ mood regulation.” Psychology of Music 35(1): 88-109.
  • Scheel, K. R. and J. S. Westefeld (1999). “Heavy metal music and adolescent suicidality: An empirical investigation.” Adolescence 34(134): 253-273.
  • Stack, S. and J. Gundlach (1992). “The effect of country music on suicide.” Social Forces 71(1): 211-218.
  • Took, K. J. and D. S. Weiss (1994). “The relationship between heavy metal and rap music on adolescent turmoil: Real or artifact?” Adolescence 29: 613-621.

 

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150 Amici

Non stupitevi se giocando a tombola sentirete oltre ai soliti “11 – Le gambe delle donne”, 1 – L’Italia” “150 – gli amici che puoi avere!”. Il 31-10-2011 in Bicocca si è tenuto un interessante incontro con il prof. Robin Dunbar, antropologo dell’Università di Oxford, che ci ha svelato il numero di amici che una persona può avere!

150 Amici - Social Network - © TheSupe87 - Fotolia.com - ArticoloQual è stata la grande rivoluzione della società degli ultimi anni? Secondo Robin Dunbar, antropologo all’Università di Oxford, è il fatto che il nostro mondo sociale è stato ridefinito dai social network. Questi siti, oltre ad aver infranto le costrizioni della geografia che limitavano le dinamiche sociali, sembrano anche aver dato avvio ad una strana competizione sul numero di amici che si possono contare sulla propria pagina personale, con cifre che possono raggiungere anche le decine di migliaia (1). Tuttavia la lista degli “amici” andrebbe ampiamente sfoltita. Infatti in base alle ricerche condotte dal Prof. Dunbar il numero massimo di amici che si possono avere è 150 – cifra anche detta il Numero di Dunbar (2).

Ma come è arrivato Dunbar a questa cifra? Ha iniziato a condurre le sue ricerche osservando i primati antropomorfi e ha scoperto che essi hanno un cervello di dimensioni maggiori rispetto a tutti gli altri mammiferi. Ma visto che il cervello consuma il 20% del nostro apporto energetico, come si giustifica in termini evolutivi un organo così “costoso”? Una ipotesi è che il complesso mondo sociale nel quel vivono i primati abbia stimolato la crescita del loro cervello. Si potrebbe quasi dire che le relazioni sociali sono un salasso per il cervello! Questa interpretazione introduce anche il concetto di “intelligenza sociale”. Un tipo di intelligenza che servirebbe ai primati per sopravvivere, riprodursi e gestire le intricate relazioni della “società dei primati”; questi ultimi infatti stabiliscono all’interno del gruppo intensi e strutturati legami fra individui e possono addirittura arrivare a sfruttare le proprie conoscenze per costruire alleanze complesse.

Forse Boulle quando ha scritto “Il pianeta delle scimmie” non è andato poi così lontano dalla realtà (3)!

L’intelligenza sociale sarebbe quindi sostenuta dalla correlazione tra dimensioni del gruppo e dimensioni della neocorteccia. Il risultato di questo rapporto definirebbe il numero massimo di relazioni che un animale di una determinata specie può intrattenere e gestire simultaneamente (2). Dunbar si è quindi domandato: data la dimensione della loro neocorteccia che dimensioni può raggiungere un gruppo di uomini? Sulla base del rapporto che stato definito per i primati si è arrivati all’ormai famoso 150. Ma oltre a complessi calcoli matematici esistono altre prove a favore di questa teoria?

Secondo lo studioso sì. La nostra storia ci ha portato a vivere in città che riuniscono milioni di persone, quindi per avere prove sulle “dimensioni naturali” dei gruppi umani Dunbar ha iniziato studiando le società preindustriali. Nello specifico si è focalizzato su quella dei cacciatori -raccoglitori: società complesse strutturate solitamente in clan nomadi. Dalla ricerca è emerso che ben venti società tribali, per le quali erano disponibili i censimenti, risultavano avere dimensioni medie di 153 individui.

Lo studioso e i suoi colleghi non si sono fermati a questo e hanno cercato “il 150” anche nella società tecnologica scoprendo che riappare anche nel mondo degli affari. Infatti un parametro della teoria dell’organizzazione aziendale consiste proprio nel fatto che le organizzazioni composte da circa di 150 persone lavorano meglio e in modalità diretta uno a uno. Vedere per credere. È noto che il signor Gore, fondatore della GoreTex, abbia insistito perché si creassero più unità industriali separate, ciascuna formata da 150 persone, piuttosto che ingrandire la propria industria.(4)

Provate ora ad indovinare di quanti uomini è costituita una compagnia di un esercito moderno. Facciamo il conto: normalmente è costituita da tre plotoni esecutivi di 30-40 soldati, più il comando maggiore e alcune unità di supporto per un totale di 130-150 soldati!

Lo stesso numero si può ritrovare anche nelle società accademiche, in gruppi religiosi, negli Amish e così via.

Ma quindi sarà proprio vero che se sulla pagina Facebook abbiamo più di 150 amici, forse dobbiamo cancellarne un po’ perché non sono proprio tutti Amici??

Voi che ne pensate?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  1. Pollet TV, Roberts SG, Dunbar RI (2011) Use of social network sites and instant messaging does not lead to increased offline social network size, or to emotionally closer relationships with offline network members Cyberpsychol Behav Soc Netw. 14(4):253-8
  2. Dunbar. R (2011) Di quanti amici abbiamo bisogno? Frivolezze e curiosità evoluzionistiche. Milano, Raffaello Cortina
  3. Boulle P. (2006) La planète des singes. Pocket
  4. Malcolm Gladwell. (2000). The Tipping Point – How little things can make a big difference. Little Brown and Company. New York

 

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A Dangerous Method: una kermesse che vive più di Eros che di Thanatos

A Dangerous Method - Recensione - Movie Poster - Property of Universal PicturesFreud e Jung, i due padri della psicoanalisi, hanno sancito la nascita e l’affermazione della “cura con le parole”. La curiosità mossa da molti nei confronti delle loro vite, delle loro opere, lavori complessi di non facile impatto, ha portato alla realizzazione di numerose rappresentazioni. Ricordiamo ad esempio Prendimi l’anima di Roberto Faenza, del 2002, o il recentissimo A Dangerous Method diretto dal “mastro indagatore” David Cronenberg, tratto dal libro di John Kerr che ha poi ispirato una pièce teatrale su tematiche che scandagliano le pulsioni dell’animo umano.

Il film è ambientato a Zurigo, 1904, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Lo psichiatra ventinovenne Carl Gustav Jung  è all’inizio della sua carriera, e vive con sua moglie Emma, presso il famoso ospedale Burghölzli, diretto da Eugen Bleuler, figura periferica e marginale.

Jung appare come una persona colta, austera e molto abbiente, grazie alle proprietà della giovane moglie, donna totalmente dipendente dal marito, che piange e si dispera per non essere stata capace di dare alla luce un primogenito di sesso maschile. Di rado, Emma partecipa come cavia alle sedute cliniche del marito, situazione inammissibile in un setting terapeutico. Ispirandosi al lavoro di Freud, Jung decise di tentare sulla paziente diciottenne Sabina Spielrein, il trattamento sperimentale noto come psicanalisi o “terapia delle parole”. Sabina è una ragazza russa di cultura elevata, a cui è stata diagnosticata una grave isteria e ha fama di essere pericolosamente aggressiva, malgrado la sua spiccata intelligenza.

 

Oggi diremmo che Sabina era affetta da un grave disturbo borderline di personalità, eccessiva emotività espressa anche tramite lesioni autoinflitte, con tratti istrionici, teatralità e fatuità nel raccontare la sua vita e le sue emozioni. Nei colloqui con Jung rivela un’infanzia segnata da umiliazioni e maltrattamenti da parte del padre, un uomo autoritario e violento che spesse volte la picchiava, sculacciando sia lei che la sorella. La terapia psicanalitica porta alla luce una inquietante componente sessuale del disturbo di Sabina, che conferma le teorie di Freud sul rapporto fra sessualità e disturbi emotivi. Infatti, Sabina mostrava una particolare forma di piacere orgasmico in risposta alle “sculacciate” impartitele dal padre.

Grazie a questa paziente, Jung forgia un rapporto di amicizia con Freud, e il loro primo incontro è stato un vero e proprio tour de force intellettuale. Si era creato, in questo modo, una reciproca stima e Freud auspicava che il giovane collega potesse diventare il suo erede intellettuale. Il trattamento effettuato da Jung ebbe successo e Sabina intraprese la carriera di psichiatra su incoraggiamento di Jung. Quest’ultimo intanto, violando ogni etica professionale, inizia una relazione con Sabina. I due si incontrano nella casa di lei dilettandosi in estremi rapporti sessuali che riecheggiano le sculacciate paterne. Successivamente, Jung decide di troncare questa famigerata relazione in seguito ad un richiamo scritto effettuato direttamente da Freud, che nel frattempo è stato informato dalla stessa Sabina circa la relazione clandestina intrapresa. Jung messo alle strette nega ogni cosa per apparire “pulito” agli occhi di Freud. Tutto ciò fa esplodere la rabbia di Sabina, che costringe Jung a dire tutta la verità per poter diventare paziente di Freud. La contestata relazione sarà la causa della rottura del rapporto di amicizia tra Freud e Jung. La loro relazione intellettuale era molto ambivalente, da un lato c’era estrema stima, dall’altro estrema competizione non solo da un punto di vista intellettuale, è stato Jung a portare Freud ad un convegno oltre oceano per espandere la psicoanalisi, ma anche economico, Jung era squisitamente ricco e non mancava occasione in cui non facesse notare la differenza all’amico Freud.

Questa è la storia, ma la rinarrazione della vita e del destino incrociato di queste tre leggendarie menti più una, quella dell’altrettanto complessato dott. Otto Gross, paziente inviato da Freud a Jung, appare in alcuni momenti intensa, ma confusa, mista di sesso e poca etica professionale. E’ proprio confuso l’aggettivo che più si addice all’intera storia, narrata con occhio relativamente superficiale e sempre pronta ad imbeccare lo spettatore, indulgendo troppo nelle pulsioni erotiche fini a sé stesse e nelle beghe relazionali più che nella vera psicologia indagata. Il tutto si risolve in un film biografico incentrato su Jung, ma al contempo indeciso sul tempo da dedicare agli altri personaggi e ai loro rapporti. Ne risulta, in finale, una cernita di situazioni e contesti assolutamente arbitraria, che pone in maggior risalto alcune vicende e tratti caratteristici sempre e solo relazionali, centrandosi su scene di sesso e poco su contenuti squisitamente psichici. Il regista sembra incerto sulla direzione da far prendere alla sua storia, rendendola un po’ dozzinale e semplicistica, nonostante il prezioso materiale a disposizione, che tra l’altro ben conosce essendo uno psicoanalista. Nell’indagare le pulsioni più oscure e angosciose di menti come quelle di Freud, Jung, Gross e la Spielrein ci aspettavamo viaggi nella psiche, metafisici e conturbanti. E invece l’autore cede al richiamo del mainstream, lasciando interagire un carnet di stelle hollywoodiane su un canovaccio più teatrale che cinematografico, dove si muovono diligentemente ma senza un apparente scopo. In generale, si ha una kermesse che vive più di Eros che di Thanatos. L’Happy End finale è immancabile: Jung in preda alle sue fantasie grandiose si estranea dal mondo facendosi accompagnare da una giovane amante, mentre la moglie, pardon la madre dei suoi figli, fa da scenario alla sua vita, e Sabina, psicoanalista affermata e felicemente sposata, è incinta del suo primo figlio. Dimenticavo, Freud litiga definitivamente con Jung e continua a vivere nel suo Super Io, mentre Gross scompare in prenda alle sue pulsioni inconsce.

Il film, in realtà, non è da buttar via, in virtù di una buona messa in scena e della sinergia fra gli attori del cast, che rendono comunque piacevole e relativamente appassionante la frammentaria vicenda, ma la semplificazione estrema del tutto, non ce la aspettavamo da uno come Cronenberg, non può che deludere i suoi fan.

Napolitano: la metamorfosi del coniglio bianco

Presidente Giorgio Napolitano Si festeggia la caduta del sovrano Berlusconi, ma comunque si percepisce il bisogno di una guida, se non di un capo. Il problema di Berlusconi non è stato affatto il suo potere, ma la sua anarchia. Come altrimenti spiegare l’ammirazione discreta per Napolitano che serpeggia e cresce nell’opinione pubblica? Ora lui appare il timoniere, se non il vincitore. Destino imprevedibile per Napolitano. Per decenni figura importante eppure in fondo irrilevante nel PCI. Era il leader dei cosiddetti miglioristi, i riformisti del PCI visti con perenne sospetto dai militanti. I miglioristi non erano accettati dall’ortodossia di partito, perfino dopo lo strappo con i sovietici di Berlinguer…CONTINUA su Affaritaliani.

In Terapia: lo Sguardo del Dolore

Il giovane terapeuta si accorge con il tempo di acquisire sempre maggiore sensibilità a ciò che non è detto verbalmente.

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com Esperienza, fatica, sensibilità, tutte componenti che giocano un ruolo. Io, da giovane psicoterapeuta, mi meta-accorgo di come si evolve la mia sensibilità. Cioè mi accorgo di come avverto diversamente molti dei segnali che si succedono in una seduta di psicoterapia.

Una delle cose che maggiormente colpisce non solo la mia attenzione, ma le mie viscere è lo sguardo del dolore. Intendo per sguardo del dolore quell’esatto momento in cui gli occhi si stringono lasciando trapelare una sofferenza, prima ancora che la coscienza della persona la colga, o senza che la colga. Una sofferenza muta, costretta da qualche parte, come il rumore di una cascata impetuosa che avverti solo da lontano. Hai idea che dev’essere immensa, ma il suono è solo un rumore di fondo.

E allora lì il terapeuta che fa? Certo un minimo di esperienza ti permette di non essere sconvolto, incerto o allo stesso modo di evitare, fare finta che questo sguardo non esista. Ma accettato questo passo, che fare? Qual è la giusta mossa? Potrei dire che ti senti terapeuta quando la smetti di farti questa domanda.

La felicità è negli occhi di chi guarda © Konstantin Sutyagin - Fotolia.com
La felicità è negli occhi di chi guarda - Di Giuseppina di Carlo, Ursula Catenazzi, Sara Della Morte

Terapeuti più esperti di me conosceranno lo sguardo del dolore e meglio di me potranno descrivere come lo si può fronteggiare. Io penso che esistano diverse strade. Se non è il momento o capita fuori dalla tua strategia del momento, puoi decidere di non toccarlo, lasciarlo passare, prenderne nota e recuperare il tema in un secondo tempo. Oppure puoi gettare un colpo di consapevolezza senza approfondire (semplificando: questa cosa mi sembra che peschi un dolore intenso, lo dovremmo toccare, ci dovremmo passare attraverso assieme, ora non è il momento ma voglio che lo sappia). Oppure ancora fermarsi e assumere un atteggiamento di accertamento più vago ed esplorativo (ho notato qualcosa nel suo sguardo, cosa le è venuto in mente? Come si sente in questo momento?) così da iniziare ad entrarci dentro con lui, ma con passi leggeri. Il giovane terapeuta può avere già chiaro il significato di quello sguardo, perché conosce da tempo il paziente.

E allora può tentare di restituirglielo e di provare un’ipotesi di validazione (sarebbe naturale se lei sentisse una forte angoscia a questo pensiero, richiama quelle cose di cui abbiamo già parlato). Infine il giovane terapeuta può anche pensare che quello sia il momento dell’affondo, che il paziente e l’alleanza può reggere, che si può osare e prendere il toro per le corna. Allora il terapeuta entra (qual è la sua paura? Qual è la sofferenza che c’è dietro? Qual è il dolore che leggo) e poi, se l’investimento riesce, allora poi si pensa a capitalizzare, cioè validare, assestarsi, confortare e sollevare dal peso trascinato fuori dalla mente, un po’ come buttarlo nel vuoto e poi scendere di corsa, arrivare prima e tendere la rete.

Quali altre vie? Forse molte, nessuna perfetta. Forse non ha molto senso pensare di strutturare l’ars terapeutica in una serie di azioni specifiche “giuste”. E infatti non è quello lo scopo della scienza o del pensiero critico, come scioccamente credono i suoi detrattori. La scienza rappresenta la base per muoversi con coscienza, per fare scelte sagge, per sentire che non tardiamo per paura, che non affondiamo per imprudenza. La scienza -in questo caso- è il lumicino con cui entriamo a esplorare il malinconico sguardo del dolore.

 

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I “Mode” della Schema Therapy e la Terapia Cognitiva.

Mode - Schema Therapy - Terapia Cognitiva - © Web Buttons IncIl concetto di ‘mode’, un termine difficilmente traducibile nella lingua italiana, rappresenta un costrutto sempre più importante nel trattamento cognitivo dei disturbi di personalità. Il mode è un insieme di schemi e prospettive mentali attive in un individuo in un determinato momento (Young, Klosko & Weishaar, 2003). Si può considerare una modalità di vedere il mondo e gli eventi e di reagire ad essi sintetizzabile in un ruolo più o meno stereotipato (es: il narciso disprezzante, il debole e indifeso, il freddo manipolatore, il libertino disregolato ecc…). Tutte le persone sviluppano diversi mode che prendono il sopravvento in particolari situazioni (es: una persona che se viene criticata entra in modalità contrattacco furioso oppure sottomissione incondizionata). Nelle persone senza disturbi psicologici i vari mode sono integrati sotto un cappello unitario (l’identità personale) e soprattutto volontariamente regolati nella loro espressione.

Secondo gli autori che hanno sviluppato questo concetto, i pazienti con disturbi di personalità, in particolare chi soffre di Disturbo Borderline di Personalità, presentano una tendenza a passare da un mode all’altro in modo rapido, improvviso e senza rendersene conto. Sono completamente fusi dentro la prospettiva del mode attivo nel momento presente. In un momento sono vittime, un momento più tardi furiosi persecutori, più tardi ancora possono trasformarsi in salvatori. Manca l’integrazione di questi aspetti, la capacità di prendere le distanze dal mode che ci domina, la capacità di gestirne l’espressione. Questi sono gli obiettivi su cui si è concentrata la psicoterapia cognitivo-comportamentale per i disturbi di personalità. Recenti studi hanno mostrato come la psicoterapia cognitivo-comportamentale basata sui mode sia efficace più degli usuali trattamenti psicoterapeutici nella riduzione di sintomi in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità in un grande studio a 3 anni di follow-up dall’inizio dell’intervento (Giesen-Bloo et al., 2006)

 

BIBLIOGRAFIA:

Rassegna Stampa: 13-11-2011

rassegna stampaDonne bisessuali a maggior rischio di depressione e abuso alcolico rispetto a uomini bisessuali

Le donne bisessuali sarebbero a maggior rischio di depressione e abuso alcolico rispetto ai maschi bisessuali, secondo quanto emerge da uno studio nazionale condotto presso la George Mason University dalla ricercatrice Lisa Lindley. Lo studio, pubblicato su American Journal of Public Health considera tre diverse dimensioni della sessualità, nello specifico identità, comportamento e attrazione, andando a studiarne il legame con diverse variabili legate al benessere e alla salute.

In particolare, il rischio di sviluppare forme di depressione e abuso alcolico è elevato in misura simile durante l’adolescenza per maschi e femmine bisessuali, mentre nell’età adulta tale rischio sembrerebbe ridursi per i maschi ma non per le femmine di orientamento bisessuale. Interessante punto nello studio è anche il risultato secondo cui le donne bisessuali presenterebbero un tale elevato profilo di rischio non riscontrato invece nelle donne prettamente omosessuali.

 

Dare supporto sociale fa bene sia a chi lo dà che a chi lo riceve.

Un nuovo studio di brain-imaging condotto presso la Univeristy of California Los Angeles da Naomi Eisenberg e colleghi dimostra come il fornire supporto sociale e aiuto agli altri fa bene non solo a chi lo riceve ma anche a chi lo dà. Gli autori hanno coinvolto nella ricerca 20 coppie eterosessuali con buon funzionamento relazionale e hanno sottoposto le 20 donne a risonanza magnetica funzionale per identificare le aree di attivazione a livello cerebrale mentre i loro fidanzati ricevevano brevi ma dolorosi shock elettrici proprio di fianco a loro. Le partners sono state divise in due gruppi sperimentali: un primo gruppo aveva la possibilità di tenere per mano il proprio compagno mentre subiva shock elettrici, mentre un secondo gruppo doveva limitarsi a guardarlo ma senza potergli fornire un minimo supporto. Dai risultati è emerso che le donne che effettivamente fornivano supporto ai loro fidanzati durante l’esperienza dolorosa, mostravano un incremento di attivazione nelle regioni cerebrali relative alla ricompensa, quali lo striato ventrale. In particolare, è stata rilevata una correlazione tra l’intensità del sentimento di vicinanza soggettivamente riportato dalle partners e l’intensità dell’attivazione di tale area cerebrale. Di conseguenza, se il fornire supporto sociale attiva tali aree della ricompensa, attive anche durante l’attività sessuale o guadagni economici, significa che l’attività del dare supporto agli altri viene processata al pari di altre esperienze di piacere e ricompensa. Lo studio è pubblicato nell’attuale numero di Psychosomatic Medicin.

 

Padri depressi e influenze sui figli

Non più solo madri depresse nel mirino. I bambini che vivono vicino ai loro papà depressi avrebbero maggiori probabilità di sviluppare problemi emotivi e comportamentali rispetto ai loro pari. Questo è l’esito di uno studio condotto da Michael Weitzman, professore di pediatria e psichiatria presso la New York University School of Medicine, pubblicato il 7 Novembre sulla rivista Pediatrics. A fronte delle ampie documentazioni degli effetti negativi di disturbi psicologico-psichiatrici materni sul benessere dei figli, per la prima volta viene dimostrato che vivere insieme a padri depressi è correlato con una maggiore frequenza di problemi emotivi e comportamentali nei figli. Lo studio ha coinvolto un campione di ben 22,000 bambini e relativi genitori. “Questi risultati stimolano a porsi questioni di grande rilevanza” scrive Weitzman “riguardo alle modalità di sviluppo e implementazione di strategie volte a facilitare l’identificazione e l’eventuale intervento nei confronti di padri alle prese con disturbi depressivi”.

 

 

Razionalità vs. irrazionalità nel decidere di questioni economiche

Razionalità nelle decisioni economiche. - Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/45378259@N05/Un recentissimo studio pubblicato mercoledi 9 Novembre su PloS ONE ha dimostrato che solo un ristretto numero di persone si comporta in modo più razionale rispetto alla maggioranza quando ha a che fare con questioni di soldi. La maggior parte delle persone si comporterebbe invece in modo irrazionale. L’autore leader dello studio Wim De Neys ricercatore del National Center for Scientific Research (CNRS) in Francia, insieme al proprio gruppo di ricerca, ha analizzato il comportamento dei partecipanti coinvolti in un gioco in cui i concorrenti devono negoziare, proporre e accettare offerte di denaro. La best practice “razionale” prevista dai modelli economici, prevede che il primo giocatore offra una somma modesta di denaro al secondo giocatore, il quale, secondo una logica razionale dovrebbe accettare l’offerta sulla base del principio “sempre meglio di niente”. Tuttavia la maggior parte delle persone agisce in modo differente: il primo giocatore offre spesso una divisione equa della somma; d’altro canto il secondo giocatore generalmente rifiuta l’offerta di una divisione non equa. Soltanto un ristretto numero di persone si comportano in accordo con le previsioni razionali dei modelli economici, accettando quindi anche l’offerta di somme esigue di denaro. Ulteriori indagini su questo ristretto gruppi di “razionali” hanno dimostrato che tali individui presentano un elevato “controllo cognitivo” valutato mediante il compito comportamentale (Go/No-Go performance) e mediante specifici indici di attivazione neurale rispetto agli individui meno razionali. Di conseguenza i decision-makers che presentano maggiori indici di controllo cognitivo e razionalità hanno più probabilità di massimizzare i loro guadagni monetari rispetto ai decision-makers con scarsi punteggi di controllo cognitivo.

Leggi anche: Cognitivismo ed Economia

L’interpretazione dei sogni

CHE COSA FANNO GLI ANALISTI PER ESSERE COSI’ BRAVI?

Psicoanalisi analisi dei sogni - © rolffimages - Fotolia.com - Poiché notoriamente “chi di spada ferisce, di spada perisce” come suggerì Gesù al focoso Pietro, confuso evidentemente dal fatto che lui stesso aveva precedentemente detto di essere venuto a portare la spada (Cristo,mettiamoci d’accordo una buona volta!). prima o poi doveva toccarmi questa sorta di abiura galileiana. Non c’è momento migliore per riparare al mio peccato che il ritiro nel ricovero per i poveri infermi costruito da Bernardino da Siena in quel di Barga, enclave fiorentina nella lucchesia, nel 1456, esattamente 400 anni prima della nascita di Sigmund Freud.

Dopo aver per anni criticato e ironizzato sulla ascientificità dell’interpretazione dei sogni e quasi facendone il simbolo di una psicoterapia stregonesca da abbattere ed estirpare, devo tornare sulle mie posizioni.

Il motivo del pentimento è dovuto all’aver sperimentato personalmente il metodo dalla parte del lettino. L’ironia ha dovuto lasciare il posto ad un meravigliato “però ci prendono davvero!”

L’espiazione che mi impongo è di cercare di analizzarne il funzionamento in termini a me più comprensibili. Per argomentare sulla sincerità del mio pentimento iniziò con il confessare che ciò che mi spinse, giovane liceale, a scegliere questa professione fu proprio la lettura di Freud. Quattro furono le cose che mi affascinarono allora:

  1. Il pansessualismo traboccante che occhieggiava alla mia montata ormonale adolescenziale.
  2. Il fatto che la psicoanalisi spiegasse in maniera definitiva e assoluta ambiti molto diversi che andavano dalle opere d’arte ai motti di spirito, dai lapsus alla guerra, dalla religione alla nevrosi. Provavo quella meravigliosa totalizzante esperienza cognitiva per cui “tutto torna, tutto combacia come con l’ultima tessera di un puzzle, tutto si spiega. Più avanti capii che questa è una caratteristica propria del delirio e credo dunque anche una mia innata tendenza.
  3. I casi clinici scritti con un piglio da romanziere esperto che gli ho sempre invidiato.
  4. E, infine, proprio la strada maestra per l’inconscio, quella interpretazione dei sogni alla quale mi dedicai per un paio di anni in una sorta di autoanalisi in cui trovavo nei sogni le conferme a ciò che pensavo o desideravo da sveglio.

 

Analisi dei sogni: Non solo psicoanalisi. Di Federica Vannozzi --- Fotografia: © Vladimir Melnikov - Fotolia.com
Analisi dei sogni: non solo psicoanalisi – Di Federica Vannozzi

La differenza con l’analisi vera e propria sta tutta qui. L’interpretazione del sogno che fa l’analista è in genere molto diversa da quella che riesco a fare in proprio e soprattutto mi dice cose effettivamente nuove: sarà forse davvero l’inconscio che per fede nel razionalismo e nella coscienza ho sempre rinnegato dopo la prima adolescenziale passione?

 

Allora proviamo a ragionare su come diavolo facciano.

Un sogno è una storiellina piuttosto insensata e incomprensibile, talvolta bizzarra. Cosa se ne può tirar fuori di buono?

Ipotesi:

  • Immaginiamo che il sogno sia una “pars pro toto” dove la “pars” è la storiellina, e il “toto” uno schema cognitivo pervasivo che in quel momento ci aiuta a fronteggiare gli eventi che stiamo vivendo e guida i nostri scopi, la nostra percezione e la memoria. Ad esempio: se sono immobilizzato in un letto o piuttosto in attesa di un matrimonio che non ho scelto forse uno schema del tipo “costrizione – libertà” guida il mio pensiero ed il mio comportamento diurno e mi aiuta a trovare soluzioni efficaci.

E’ possibile allora che faccia un sogno in cui non riesco a fuggire da una galleria franata oppure un semaforo bloccato sul rosso mi immobilizza in una strada senza vie d’uscita. Il bravo analista sale di astrazione e mi chiede: cos’è che le toglie la libertà? identificando lo schema cognitivo attivo nel sogno e nella vita. Poi se è ancora più bravo mi chiede perchè questo schema è attivo in questo momento dell’esistenza.

Mi chiede ancora se lo è stato in passato e se ha funzionato (quello che io chiamerei il contesto di apprendimento) ed infine se è attivo anche nella relazione terapeutica.

Questi sono i tre binari in cui lo schema può declinarsi: il presente, il passato, la relazione.

In sintesi a parole mie direi che:

  1. Il sogno è una produzione “parte” di uno schema cognitivo attivo.
  2. Gli schemi cognitivi prevalenti si sviluppano nella prima infanzia e sono selezionati darwinianamente dall’ambiente familiare che rinforza quelli adattivi.
  3. Gli schemi organizzano la propria costruzione di sé e del mondo.
  4. Influenzano la percezione e la memoria e determinano le emozioni.

Certo partire dai sogni non è sicuramente l’unico modo per evidenziare questi schemi ma gli analisti lo sanno fare così e spesso molto bene. I cognitivisti lo fanno attraverso gli AC e l’analisi di costrutti, scopi e credenze.

La funzione del sogno potrebbe essere duplice:

  1. da un lato far lavorare lo schema senza l’impellenza di un problem solving sul reale e quindi con meno vincoli. Un pensiero più lasso che può produrre soluzioni più creative, eventualmente da utilizzare in seguito
  2. dall’altro quello di portare alla consapevolezza lo schema, richiamando dunque l’attenzione della coscienza sul problema che ci troviamo a fronteggiare.

Problemi aperti:

Non si ha garanzia, tranne l’esperienza e la formazione dell’analista che il “toto” a cui la “pars” sogno rimanda non sia uno schema prevalente dell’analista stesso.

Il semaforo potrebbe essere per lui una costrizione e per il sognatore invece rappresentare l’ordine e la regola versus il caos.

L’analista prudente per evitare questo rischio deve;

  1. chiedere conferma al sognatore se quello schema lo sente suo.
  2. piuttosto che tirare fuori l’interpretazione d’effetto come un coniglio dal cilindro, procedere con le associazioni del sognatore che certamente sono dettate dagli schemi del sognatore stesso e che quindi riportano necessariamente alle cose per lui importanti.

In questo senso si potrebbe partire anche da un sogno non proprio o da materiale non onirico. Per ciascuno di noi i salmi finiscono sempre in gloria, nella stessa gloria. Quella che ci sta a cuore.

Tanto era dovuto a titolo di espiazione.

Bellezza, Stress e Mal di Testa

Emicrania - donne - cause - © fred goldstein - Fotolia.comIn una recente ricerca della Società Italiana per lo Studio delle Cefalee,tra le cause scatenanti dell’emicrania troviamo i tacchi a spillo e le frequenti visite dal parrucchiere per la messa in piega! Il mal di testa è un vero problema per le donne italiane tra i 30 e i 40 anni, provocato da fattori ben precisi: poche ore di sonno, ciclo mestruale, posture scorrette, tensione muscolare, stress, odori e sesso.

Dai dati emersi dallo studio, nel 75% dei casi l’anticamera del mal di testa è lo stress quotidiano; nella stessa percentuale, quando la cefalea è di origine tensiva, la causa è una postura scorretta: troppe ore al pc, tacchi a spillo e borse troppo pesanti. A seguire, tra le cause principali, le poche ore di sonno e il ciclo mestruale. Nel 10% dei casi sono i profumi molto dolci o quelli di aglio, cipolla, noce moscata e spezie a provocare il mal di testa. Tra gli altri fattori che possono innescare attacchi di cefalea, nello studio sono riportati: condizioni atmosferiche (vento, troppo caldo o i cambiamenti repentini di pressione atmosferica), l’alimentazione (il saltare i pasti o l’esagerare con il cibo e la qualità di quest’ultimo). Infine, anche l’attività sessuale può causare crisi di mal di testa… sia prima che dopo!

Ancora sul mal di testa, in uno studio interessante dei ricercatori del Centro Montefiore sulle Emicranie di New York si evince che a volte pazienti con cefalee ricorrenti immaginano, prima di un attacco, di sentire odore di bruciato, di marcio, di fumo di sigaretta o perfino di foie gras. Certo, questa è un’allucinazione sensoriale che fa parte del momento che precede il dolore piuttosto rara rispetto ad altre: visive (luci e flash) o fisiche (formicolii e torpori).

E allora che fare? Come combattere l’emicrania che spesso diventa una fedele compagna della vita quotidiana di molti? Oltre ad un preventivo cambiamento dello stile di vita, ponendo maggior attenzione ai fattori scatenanti, oltre agli analgesici, FANS e antidolorifici, una buona risposta possono essere esercizi di rilassamento muscolare e di meditazione.

 

 


Musica e Didattica Metacognitiva

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com Un bambino può apprendere a parlare bene senza conoscere, esplicitamente, le regole grammaticali ma non può parlare bene senza applicare corettamente queste regole. Un alunno può imparare senza che gli sia stato spiegato cos’è la metacognizione, però non può essere davvero efficace nel proprio apprendimento se non lavora metacognitivamente: se non conosce le differenza tra sapere e non sapere, tra memorizzazione e comprensione, se non “impara ad imparare”.

Sin dagli anni ’90 la pratica metacognitiva ha trovato una sua applicazione nel programma “Bright Start” di Carl Haywood, dedicato alla scuola dell’infanzia ed elementare. Bright Start è basato sulla mediazione degli strumenti del pensiero logico applicati ad esperienze scolastiche e quotidiane. Questo programma viene utilizzato dagli insegnanti come base per promuovere una migliore autoregolazione cognitiva, che sta alla base degli apprendimenti fondamentali come la scrittura, il calcolo, la comprensione di un testo, ma anche per aumentare la motivazione, la capacità di risolvere i conflitti, l’autonomia.

Per i bambini di età superiore, invece, è diffuso in tutto il mondo il metodo Feuerstein (Programma di Arricchimento Strumentale). Questa proposta pedagogica ha dato un contributo fondamentale e fortemente innovativo sul come si può lavorare sul potenziale di apprendimento sia di soggetti disabili sia di soggetti “normali”, appartenenti anche a culture diverse, e si caratterizza come uno dei primi approcci metacognitivi in ambito educativo e riabilitativo. È un programma di intervento cognitivo e metacognitivo utilizzato a partire dagli 8/10 anni, che ha lo scopo di accrescere la modificabilità dell’individuo attraverso l’attivazione e lo sviluppo di quelle che la teoria della cognizione ha indicato come “prerequisiti del pensiero”: le funzioni cognitive.

Ho deciso di dedicarmi alla didattica metacognitiva sfruttandola attraverso altri mezzi, potenti almeno quanto la comunicazione verbale: i suoni e i rumori.

La musica (e tutto ciò che la compone), in quanto esperienza multisensoriale emotivamente coinvolgente, può essere un ottimo strumento per stimolare la riflessività; a partire da percezioni più profonde, che non si limitino a indurre una risposta istintiva su qualcosa che “tocca” al primo impatto (guardando un quadro, ad esempio, ne distinguiamo subito i colori), ma che obblighi a riflettere sull’esperienza appena vissuta, a valutarla ed analizzarla, al fine di trarne degli insegnamenti, trasferibili anche ad altri contesti della vita.

Il modo in cui lavoro con i bambini è quello di sostenerli attraverso una riflessione accurata sull’esperienza musicale in tutti i suoi aspetti, da quello sensoriale, a quello emotivo, riflessivo, logico ecc, e mira allo sviluppo delle capacità cognitive della fascia d’età alla quale il laboratorio si rivolge (4-5 anni). In particolare allo sviluppo, grazie a esperienze concrete, delle capacità di astrazione, di classificazione e seriazione; allo sviluppo della capacità di tradurre in parole vissuti e ragionamenti; e allo sviluppo della capacità di assumere prospettive nuove e diverse.

Con la mediazione dell’animatore, i bambini vengono indotti a partecipare attivamente a un certo numero di giochi sonori e musicali, per scoprirne le regole e gli aspetti specificamente legati al suono (a seconda dell’età: volume, ritmo, velocità, timbro, durata, intensità, altezza…); vengono inoltre guidati, attraverso un costante stimolo a verbalizzare, al confronto dei propri vissuti con le attività del laboratorio, per trovare insieme le parole per definirli.

Ogni incontro contiene in se stesso, nell’interazione tra mediatore e bambini, la possibilità di verificare l’evolversi del percorso educativo che è caratterizzato dagli obiettivi esposti sopra. E’ anche evidente che non sarebbe possibile né significativa una verifica in forma di esibizione finale di fronte a un pubblico.

In sintesi, un atteggiamento metacognitivo si fonda sulla riflessività, sulla capacità di moderare l’impulsività e di farsi domande che riguardano il proprio “fare” e “pensare” riguardo all’esperienza quotidiana sia di studio che di lavoro, focalizzando l’attenzione più che sul “che cosa”, sul “come”, più che sul risultato, sui processi che vi conducono. Uno dei frutti di questo atteggiamento è sicuramente una migliore conoscenza di sé.

Lo studio della competenza metacognitiva, intesa come capacità di valutare e controllare in modo esecutivo il proprio funzionamento cognitivo, ha coinciso con una visione nuova dell’architettura della mente e dello sviluppo intellettivo in generale. L’idea alla quale la ricerca in questo ambito è giunta è che l’intelligenza è flessibile, educabile e rieducabile.

Purtroppo questa pratica non è tanto diffusa quanto ci si aspetterebbe, forse a causa di un troppo scarso investimento nei confronti di una serie di strumenti che vuole uscire dai canoni didattici con cui abbiamo sempre vissuto, forse per mancanza di insegnanti formati secondo questo metodo. Probabilmente questi due dati sono strettamente collegati.

 

 

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Il pluralismo degli Stati Uniti, l’Italia e la fine di Berlusconi.

Berlusconi - Licenza d'uso: Creative COmmons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/spiritolibero85/Siamo forse giunti all’epilogo della carriera politica di Berlusconi, per alcuni un’epopea per altri un incubo lungo 17 anni. Tralascio molti altri aspetti di questa parabola e mi dedico all’analisi del sogno italiano di copiare i modelli sociali americani. Un’analisi poco freudiana e molto personale.

Tra i vari ambiti nei quali cerchiamo da molto tempo di avvicinarci alla cultura d’oltreoceano, appare in tutta la sua complessità l’esercizio della democrazia. Berlusconi si è sempre dichiarato fedele ammiratore della civiltà americana, e con lui molti nostri compatrioti, eppure qualcosa sfugge. Ad esempio come si possa paragonare il livello di pluralismo della società americana con il nostro. Parliamo infatti di una nazione in cui una scrittrice gay, di cui purtroppo non ricordo il nome, può presentarsi da David Letterman (noi abbiamo Vespa) affermando senza esitazione che la guerra in Iraq è stata un artificio costruito sulla menzogna di armi chimiche che nessuno ha mai trovato. A circa 7000 km di distanza uno scrittore gay e anche un illetterato gay, non possono ricevere l’aiuto dello Stato per una casa destinata alle giovani coppie, e nemmeno una coppia eterosessuale non sposata può riceverlo, figuriamoci andare da Letterman.

Quanto a Vespa, le dieci domande di Repubblica a Berlusconi hanno trovato risposta in un suo libro. Ossia non hanno trovato alcuna risposta dignitosa. Come descrivere poi la differenza tra un sistema nel quale non possono accumularsi più di due mandati presidenziali di quattro anni, ed uno in cui il potere di un uomo dura finché esala l’ultimo respiro politico? O la distanza tra chi impone confronti televisivi tra i candidati e chi consente ad un premier di sopravvivere 17 anni unicamente con proclami ai propri adepti, concedendosi in due sole occasioni al confronto diretto di un dibattito televisivo dopo il quale gli esperti di comunicazione non ebbero difficoltà a decretare la vittoria di Prodi? Comunicare si fa in due o più soggetti; parlare da soli non è comunicare, eccezion fatta per i deliri, ne conviene qualunque approccio delle scienze umane.

Ecco, tutto ciò e molto altro negli Stati Uniti sarebbe impensabile. E’ mia opinione che negli States non esistano sostanziali segreti di Stato, perché un segreto di Stato è veramente tale quando non è possibile affrontare nella società civile la discussione su come siano andate le cose. Un segreto di Stato è il giudice Paolo Borsellino che in un’intervista spiega chiaramente chi è Silvio Berlusconi ma viene mandato in onda in piena notte, affinché buona parte di un popolo rimanga per vent’anni nell’ignoranza più oscura. Gli Stati Uniti hanno perso un Presidente fornendo una versione dell’accaduto piuttosto curiosa, considerato il numero di testimoni che hanno visto dei fucili sparare senza essere imbracciati dall’uomo accusato in seguito di aver fatto tutto da solo. Da tempo però è possibile vedere e rivedere in tutti e cinque i continenti film, documentari, trasmissioni che parlano di un complotto, di una differente verità. E allora, che fine fa il potere della Casa Bianca? Rimane immutato, il pluralismo delle voci non è una lotta di potere. Non in questo caso.

Il pluralismo è una nazione che mentre fa la guerra in Vietnam viene sferzata ogni giorno da movimenti pacifisti sempre più forti, o che durante l’inquisizione di McCarthy contro i presunti comunisti assiste alla nascita della letteratura beat, dissacrante inno di libertà. Il pluralismo è una nazione che elegge un Presidente, un buon Presidente per molti aspetti, e lo caccia scoprendolo poco trasparente. Ve lo immaginate in Italia? E se l’America esporta una democrazia che spesso non è tale, noi siamo qui a dirlo. Perché è più noto al mondo l’operato di Kissinger a favore del golpe cileno rispetto alla verità sulle stragi di mafia nel Paese di Leonardo e Raffello. La cultura americana della libertà, caro Silvio Berlusconi, è cibo a noi indigesto. Possiamo spiegare anche in questo modo il palese fastidio dei coniugi Obama nell’incontrarla. Il pluralismo è sinonimo di flessibilità dei costrutti, ne parlava un certo Kelly. Americano? Yes!

 

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Il potere analgesico della bestemmia

Potere terapeutico bestemmia - © olly - Fotolia.com Non si tratta del delirio florido di uno psicotico, ma è il risultato di studio della Keele University’s School of Psychology (Gran Bretagna), secondo cui le persone che imprecano riescono a tollerare il dolore fisico più a lungo rispetto a quelli che non dicono parolacce, in risposta ad un forte trauma o ad una disavventura.

Nell’immaginario collettivo si è soliti pensare che chi pronuncia imprecazioni, dopo aver rotto un oggetto o essersi causato un danno fisico, abbia poca tolleranza alla sopportazione del dolore. Invece questo studio dimostra esattamente il contrario. Un gruppo di volontari si è sottoposto a una serie di curiosi esperimenti. I ricercatori hanno fatto loro immergere le mani in una vaschetta con acqua gelata: in una prima fase ognuno era libero di sfogarsi con parolacce e imprecazioni a piacere, in una seconda fase, invece, le esclamazioni di dolore andavano controllate utilizzando solo parole neutre, accuratamente selezionate.

 

I risultati indicano che il pronunciare le parolacce aiutava a sopportare per 2 minuti il dolore provocato dall’acqua ghiacciata. Senza bestemmiare, invece, si resisteva solo per 1 minuto e 15 secondi. I’esito è stato sorprendente! Il motivo che scatena l’effetto antidolorifico della parolaccia non è, comunque, ancora del tutto chiaro ai ricercatori.

Una delle ipotesi più accreditate è che si tratti di una sorta di riflesso psicologico “fight or flight”: gli improperi rappresentano una risposta che permette di aumentare il battito cardiaco e di sopportare più a lungo il dolore fisico. E’ possibile che inneschino reazioni fisiche oltre che emotive, che aiutano a sopportare il dolore.

Tutto questo potrebbe spiegare perché dire parolacce e imprecazioni è una pratica universalmente diffusa e vecchia di secoli e secoli. Probabilmente, le reazioni ‘aggressive’ portano il soggetto a scaricare parte del dolore provato. Quindi, imprecare in reazione al dolore per i motivi esposti è diventata una pratica comune anche tra le persone più educate. Per concludere, se ci capitasse di sentire una persona imprecare non ci dovremmo indignare, ma dovremmo pensare che lo sta facendo perché soffre e sta male. Allora, una parolaccia al giorno, toglie il dolore di torno!

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Berlusconi ha perso il controllo. Colpa della psicologia da venditore

Berlusconi psicologia da venditore- Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/spiritolibero85/Chiusa, o quasi, la lenta agonia di Berlusconi, ci si chiede perché un uomo che sulla carta dominava Parlamento, Esecutivo e Comunicazioni, primo, secondo e quarto potere, si sia dimostrato così poco incisivo nel muovere le leve del potere. Capace di conquistarlo e di conservarlo,  ma poco di usarlo, questo potere. La spiegazione più semplice è che non gli interessasse, in fondo, fare politica. A Berlusconi non interessava governare, ma controllare il potere per proteggere i propri interessi. È la spiegazione più feroce e becera, ma per ora mettiamola da parte…Leggi il resto dell’articolo su Affaritaliani.it

Melancholia, di Lars Von Trier

Melancholia (2011) di Lars Von Trier. Solenne, luminoso, bellissimo, l’astro azzurrino accende il buio dello spazio. Lento e inesorabile muove nel cielo nero la sua danza di morte. Attimo dopo attimo, sempre più vicino alla Terra, attratto dal nostro pianeta come un amante dalla sua bella. L’impatto sarà ineluttabile e devastante. Uno scontro cosmico-sessuale sulle note della musica più erotica e straziante mai scritta, il preludio del “Tristan und Isolde” di Wagner diretto da Furtwangler.

 

Inizia così Melancholia, apocalittico, dolente film di Lars von Trier oggetto dello scandalo allo scorso Cannes per via di certe dichiarazioni un po’ folli e molto fuorviate del regista danese, tacciato dai media di filo-nazismo, cacciato dal Festival come “persona non grata”. A farne le spese anche il suo film, subito escluso dalla Palma d’oro ma risarcito a furor di giuria con il premio per la miglior attrice a Kirsten Dunst, che è Justine, una delle due sorelle della storia. L’altra, Claire, è Charlotte Gainsbourg.

E mentre la Terra s’infrange, esplode nel fatale orgasmo cosmico, compaiono le ultime immagini di quel che è accaduto poco prima in un ameno luogo del nostro ex pianeta: un castello, un giardino, una sposa che fluttua sul fiume con il velo bianco e i mughetti in mano, simile all’Ofelia di Dante Gabriel Rossetti… Istantanee di vita già passata, disintegrata con tutto il resto.

Prologo incantatore, cinematograficamente scorretto. Contro ogni regola, Lars von Trier racconta subito come andrà a finire. Niente e nessuno potrà fermare quel corpo celeste che punta dritto su di noi. E dopotutto, come dice lui «Quello è il vero happy end. La soluzione migliore. Di certo non mancheremo a nessuno”. Tanto a Melancholia non si sfugge. Il Pianeta Lars lo sa bene.

“Non è un film sulla fine del mondo ma su uno stato d’animo che conosco”, ha confessato. Umor nero, depressione, ipocondria, attrazione per l’apocalisse: i suoi prediletti compagni di vita. Psicoanalisi, cure del sonno, farmaci, poveri rimedi. Buoni per illuderti ogni tanto di essere guarito. Come Justine, la sorella depressa, che nel tentativo di trovare una “normalità” decide di sposarsi nel più fastoso e tradizionale dei modi. Quasi che il rito potesse sopperire al vuoto spaventoso che l’attanaglia. “L’ho modellata su di me. Justine mi somiglia”, racconta lui.

 

Melancholia (2011) di Lars von Trier – TRAILER:

Fin dal nome. Justine, l’eroina di De Sade, la vittima di tutte le “disavventure della virtù”. Traversie della sorte che non hanno risparmiato neanche von Trier. Infanzia problematica, la madre Inger comunista-femminista dura e pura, lo cresce nel mito della verità ma gli nasconde l’unica cosa davvero importante. Solo sul letto di morte gli svelerà il nome del suo vero padre. Non l’ebreo signor Trier che l’ha cresciuto con affetto, ma tale Hartmann, di origine tedesca, scelto da lei per concepire un figlio per via dei “geni artistici” della sua famiglia. “Ho creduto di essere finito dentro “Dallas”, commenta Lars. Che a 33 anni deve rivedere tutta la sua storia. Quello che credeva suo padre è ormai morto, il genitore biologico gli manda a dire tramite avvocato che non vuol saper niente di lui. «Di colpo – raccontò a Cannes – non ero più il figlio di un ebreo ma di un uomo di origini tedesche. Forse sono un po’ nazi anch’io».

Apriti cielo. Insensibile al cupo senso dello humor del regista danese, la stampa fiuta lo scandalo, butta benzina sul fuoco. Cosa pensa di Hitler? Masochista più di Justine, Lars non arretra. «Lo capisco. È un uomo, ha il male dentro come tutti. Non è certo un bravo ragazzo, ma se lo penso nel suo bunker, solo… Provo simpatia per lui”. Perché anche Hitler, alla fine, si trasforma in vittima. E per Lars le vittime sono qualcosa di irresistibile. Kirsten Dunst intuisce lo schianto e sussurra: «È entrato in un buco nero». Troppo tardi. Nulla valgono i successivi “mea culpa” né l’aver fatto film contro la pena di morte come “Dancer in the Dark”, o l’aver salito la scalinata del Palais di Cannes con il pugno chiuso sulle note rosse dell’Internazionale.

Bollato ipso facto di apologia di nazismo, Lars von Trier si porterà dietro questa accusa infamante chissà per quanto ancora. Pochi giorni fa, dopo un nuovo interrogatorio della polizia danese, decide: “Visto che non riesco ad esprimermi in modo chiaro in pubblico, d’ora in poi mi asterrò da ogni dichiarazione e intervista”.
Voto del silenzio. Radicale come sempre Lars si ritira a Zentropa, il quartier generale della sua casa di produzione, appena fuori Copenhagen, dove divide con pochi e fidati collaboratori vita e cinema. Una sorta di comune utopica, regno anarchico dell”anarchico Lars von Trier.

Che lì ora sta scrivendo il nuovo film, Nymphomaniac. “Un porno”, annuncia provocatore come sempre. Un’esplorazione senza veli né tabù della “vita erotica di una donna da zero a 50 anni”. Già scelti i protagonisti maschili, Stellan Skarsgard e Willem Dafoe, entrambi già più volte suoi interpreti. Più difficile trovare la protagonista. Che, secondo Lars, deve essere pronta a tutto. “Anche a girare vere scene di sesso”. Ancora più complesso sarà trovare l’adolescente necessaria per la prima parte della storia. Peter Aalbek Jensen, storico produttore e amico di Lars, fiuta il pericolo: “Ci saranno due versioni. Una destinata alle sale e una più “spinta”. Ma, conclude cercando di sdrammatizzare, “Forse sarà anche un film divertente. Un po’ buffo e un po’ filosofico”. Vedremo. Già il titolo da solo promette di suscitare in qualsiasi festival dovesse approdare, levate di scudi e polemiche a iosa. Per la gioia masochistica di Lars-Justine.

 

Melancholia, una scena del film:

La vescica piena influenza le vostre decisioni?

Toilette - Vescica Piena - © piai - Fotolia.com - Se la vostra risposta fosse positiva, allora concordate su quanto ottenuto nella seguente ricerca in cui si dimostra che l’urgente bisogno di urinare può farvi prendere decisioni migliori in certi campi, e peggiori in altri.

Questo è il risultato di uno studio nato per indagare se esista una relazione tra la necessità di autocontrollo, imposta dalla vescica piena, e lo sviluppo di un maggiore autocontrollo anche in altre sfere della vita.

Tutti gli stimoli primari come la fame, la sete, il desiderio sessuale, una volta attivati tendono a innescare il desiderio di poter ricevere anche altre gratificazioni. Sono stati realizzati degli esperimenti per verificare l’ipotesi che i segnali inibitori non sono dominio-specifici, ma possono essere estesi a settori non correlati, aventi come conseguenza un maggiore controllo degli impulsi nel dominio comportamentale.

Da qui la domanda: se si frenasse, controllasse, uno di questi istinti primari si riuscirebbe a frenare anche gli altri non immediatamente urgenti? A quanto pare è proprio così: l’autocontrollo esercitato necessariamente quando ci troviamo nella spiacevole situazione di dover andare alla toilette, ma non possiamo farlo, si applica anche ad altri campi.

In un esperimento Tuk e colleghi (2011) hanno chiesto ad alcuni partecipanti di bere cinque bicchieri d’acqua, per un totale di 750 ml, due terzi di litro, e a un altro gruppo di bere solo piccoli sorsi da cinque bicchieri diversi. Dopo circa 40 minuti i ricercatori hanno verificato il livello di autocontrollo dei partecipanti su tutt’altra materia, chiedendo loro di scegliere tra opzioni alternative, come ad esempio ricevere una una ricompensa piccola ma immediata o una ricompensa più consistente ma a distanza di tempo o denominare colori (Stroop Task) . Chi aveva bevuto molto, e quindi aveva la vescica piena, sceglieva più spesso l’opzione più redditizia, che implicava però la necessità di aspettare più a lungo, rispetto a coloro che avevano bevuto solo qualche sorso. D’altra parte questi ultimi, riuscivano meglio nell’effetto Stroop. Quindi, chi aveva un impellente bisogno di liberare la vescica era in grado di effettuare scelte pianificate e redditizie, rispetto a chi riusciva meglio in prestazioni semplici che richiedevano una maggiore concentrazione.

“Con la vescica piena si prendono decisioni migliori“, quindi bevete una bottiglia d’acqua prima di fare grossi acquisti o scelte importanti.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Respira lento e in modo “mindful”…

Respirazione Mindfulness - © laurent hamels - Fotolia.comLa pratica della mindfulness ci insegna molte cose in termini di consapevolezza e di “presenza” a noi stessi ma ci mostra anche come il respiro sia un “ancora di aggancio” per imparare a notare i nostri pensieri e le nostre emozioni e non rimanervi impantanati, ritenendoli la verità assoluta e non un prodotto della nostra mente.

Per questo motivo, vale la pena imparare a respirare in modo lento e essere consapevoli del proprio respirare, respirare cioè in modo mindful. A pensarci bene, la respirazione stessa è già di per sè una piccola forma di meditazione. Quindi, perché non procedere nel coltivare la nostra consapevolezza tramite una facile e breve pratica del respiro?

Primo passo: riconoscere che tipo di “respiratore” sei.

Respiri troppo velocemente? ovvero fai più di 9-11 respiri al minuto quando sei seduto comodo in poltrona? Respiri troppo profondamente? ovvero respiri con la bocca gonfiando il torace finchè non ti alzi in aria, tanto sei pieno di aria? Sospiri o sbadigli frequentemente e più degli altri?

Probabilmente stai iperventilando. Questo tipo di respirazione è molto faticosa e impegnativa (anche se nel breve tempo non ce ne accorgiamo…) e spesso non è segno nè di rilassamento nè di calma. È bene riconoscerla e cercare di “riabituare” il nostro apparato respiratorio a respirare lentamente; dico “riabituare” perché quando siamo bambini, solitamente respiriamo proprio in modo lento e con il diaframma. Provare con il vostro bimbo/a (o quello di qualcun’altro) per credere…

Una volta riconosciuto che respiratore siete, è possibile cominciare la pratica del respiro lento e avvicinarsi a fare una piccola (sebbene importante) esperienza di mindfulness.

È importante notare che la consapevolezza mindful del respiro non implichi necessariamente respirare con il diaframma, è possibile osservare il proprio respiro, semplicemente notando “come” si respira, senza giudicare nè tentare di modificarlo.

 

Secondo passo: assaggio di pratica del respiro lento.

Interrompi quello che stai facendo e siediti o appoggiati a qualcosa. Assumi una posizione “consapevole” che evochi dignità, con la schiena eretta ma non rigida e la sommità del capo rivolta verso l’alto oppure verso un punto di fronte a te;

  1. Comincia a respirare lentamente, con il naso, lasciando uscire fuori l’aria.
  2. Ora respira solamente, e osserva il tuo respiro senza giudicare quello che senti, pensi o percepisci.
  3. Concentra tutta la tua attenzione sul respiro. Se qualcosa attira la tua attenzione, sia un pensiero, un ricordo o un’emozione o anche un suono, nota di esserne stato “agganciato” e dolcemente riporta l’attenzione sul respiro.
  4. Continua questa pratica per il tempo che ritieni sufficiente (intorno ai 3-5 minuti per iniziare può essere una durata adeguata) e poi apri gli occhi.

Provando questo assaggio di pratica mindfulness, le prime volte mi sono accorto di come sia davvero difficile concentrare tutta l’attenzione sul respiro, liberando la mente e non facendosi “agganciare” da un pensiero o da un suono. Praticandola per un po’ di tempo, però, mi sono accorto di una cosa: che la nostra mente continua a viaggiare di qua e di là anche senza la nostra intenzione consapevole. Ma non è stata questa la scoperta. Quello che mi ha colpito molto (e che mi sta mantenendo un praticante interessato da anni…) è come sia possibile imparare a guardare e osservare i propri pensieri ad un metro di distanza; non si possono cancellare o rifiutare (nè sarebbe utile, proviamo a non pensare a un elefante bianco…) ma si può comprendere e fare una piccola e affascinante esperienza di quello che Russ Harris definisce “il sè che osserva quello che pensa” (Harris, 2011).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Harris R. (2011). Fare ACT. Una guida pratica per professionisti all’Acceptance and Commitment Therapy. Franco Angeli: Milano.

 

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Amica? Nemica!

Striscia comica Amica-Nemica - Autore: Costanza Prinetti

 

Da un po’ di tempo sono apparse, sui giornali e sui muri delle città, pubblicità per il nuovo lancio della rivista femminile ‘Amica’. Si tratta di tre copertine, ognuna centrata su una diversa modella. Il sito Amica ci invita a scegliere tra una di queste tre ‘amiche’: ‘Irina che odia le ipocrisie, Elisa che conquista il suo uomo in cucina oppure Eva, mamma sexy e felice.’ Sul sito, possiamo leggere anche le loro ‘esclusive’ interviste. Vorremmo soffermarci un attimo sulle copertine e sulle (ulteriormente illuminanti, se ce ne fosse bisogno), interviste. Potete trovare il tutto cliccando qui.

Amica Nemica - Cover della rivista Amica - Bella Sexy e CasalingaCopertina 1: Elisa Sednaoui, dall’alto del suo vestito da sposa semitrasparente (sembra un po’ la sposa cadavere), con in mano guantoni di gomma e spazzolone per pulire, ci ricorda:

“Bella sexy e casalinga. Gli uomini ci vogliono così. E nell’intervista spiega: ‘Gli uomini vogliono tutto: la mamma, la moglie, l’amante. La donna che sa stare in casa, e soprattutto in cucina, ha dei punti in più. Per il ruolo, non per il cibo”.

Lorella Zanardo ha spesso parlato dell’interiorizzazione dello sguardo dell’uomo. Ma chi l’ha detto che le donne debbano schiacciarsi su quello che gli uomini vogliono? Anche perché non è affatto detto che vogliano sempre il nostro bene. E se, a volte, volessero cose che a noi fanno male? Per esempio, le donne ‘che sanno stare in casa’ sono a più alto rischio sia di obesità (Ersoy et. al. 2005) che di depressione (Mostow and Newberry 1975). Perché invece non chiederci come le donne SI vogliono? Per conto nostro, temiamo che gli uomini che ci sognano spose cadaveri con spazzolone allegato forse (sicuramente) non sono quelli che vorremmo. Il nostro consiglio alle altre donne (se mai venisse loro il dubbio) è di evitarli con cura. Meglio gli uomini che ci vogliono realizzate in quello che noi vorremmo diventare. Vi risparmiamo i dati sulla crescente istruzione femminile per non sembrare pedanti. Però alcuni li potete trovare qui:

Amica Nemica - Cover rivista Amica - 2 Seconda copertina: “Sono una mamma e mi sento ancora più donna”.

Nell’intervista, Eva Herzigova viene descritta così: Il piccolo Philip ha solo otto mesi, ma lei è in una forma smagliante. Il corpo di una ventenne… poi lei spiega: “sono una mamma non una suora. E grazie al cielo, Greg è altissimo, quindi posso portare i tacchi”.

Donne, ragazze, future mamme, questi sono i modelli che vi vengono proposti. Se per caso, ma molto per caso diventate madri, non mettetevi pantofole, maglioni di pile arancioni, sciabattando per la casa, ma tenete bene a mente che il problema centrale, il problema cruciale di questo momento è rimanere sexy (e miracolosamente giovani) per il vostro uomo, combattente metropolitano che tornando a casa, non può, proprio non può trovarvi senza un tacco 12 e una guepière nera.

Dal nostro punto di vista, la contraddizione mamma-donna ci sembra alquanto artificiale, per non dire insensata. Almeno quanto l’identificazione totale tra le due identità. Le donne possono diventare madri oppure no, ma questo non ha alcuna relazione col loro essere donne o meno. Il modello della top model Herzigova, invece, ci sembra quasi comico per la sua siderale distanza dalla realtà quotidiana della stragrande maggioranza delle donne. Sarebbe comico e non offensivo, se le donne non lavorassero in media due ore al giorno in più degli uomini per stare dietro a lavoro, casa e famiglia, guadagnando meno, avendo più difficoltà a trovare lavoro o a raggiungere posizioni di potere, ed essendo scarsamente (e malamente) rappresentate nella vita pubblica. Speriamo che per loro la maternità quando e se arriva, non si riduca ad un problema di linea.

 

Amica Nemica - Cover rivista Amica - 3L’ultima copertina (se vogliamo sceglierci come amica Irina Shayk) recita: Amo gli animali. Devo proprio rinunciare alle pellicce? E poi spiega: “Le persone che si scandalizzano per le pellicce spesso dimenticano le scarpe di cuoio che stanno calzando in quel preciso istante. Questa sì che è una contraddizione”. Con la stessa stringente logica con cui si potrebbe sostenere che siccome in alcuni stati esiste la pena di morte allora va benissimo andare in giro ad ammazzare la gente. Anche perché, in fondo, disprezzare i problemi legati all’ambiente è così cool al giorno d’oggi. Soprattutto in un posto come l’Italia, evidentemente situato all’interno del circolo polare artico, per cui, come per gli Inuit, usare una pelliccia è praticamente una questione di sopravvivenza.

 

A questo punto, ci sembra evidente che le riviste cosiddette “femminili” si possono dividere in “per le donne” e “dalla parte delle donne”. Le riviste “per” le donne fotografano uno status quo, mentre quelle “dalla parte” spingono in avanti il ruolo. Al momento, in Italia, la prima categoria comprende la stragrande maggioranza dei giornali (se non tutti). Un esempio (francese) di rivista ‘dalla parte le donne’ è stato segnalato dal blog Un’ altra donna, ed è questo: Causette.

Al di là degli ovvi benefici che comporterebbe per di più della metà della popolazione, ci possiamo chiedere se per l’intera società sia importante spingere il ruolo delle donne verso gradi di maggiore autocoscienza, autonomia e libertà. Alcuni dati iniziano ad essere ben noti, ad esempio che l’ineguaglianza di genere danneggia il buon funzionamento sociale. Un sacco di risorse perse, pochi vantaggi economici e sociali. Comincia ad essere chiaro che società più paritarie funzionano meglio. Due tra le tantissime risorse disponibili in questo senso:

E dunque più che Amica, ci pare che la nuova rivista sia l’ennesima Nemica, che ingabbia le donne dentro stereotipi obsoleti e dannosi per loro stesse e per la società in genere. A meno che, ovviamente, non vi piacciano amiche incivili, antiquate e decisamente sadiche.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Rassegna Stampa: Martedì 8-11-2011

rassegna stampaMetanfetamine (e Cannabis) e insorgenza di Schizofrenia

La metamfetamina, meglio conosciuta come “speed”, e altri stimolanti di tipo anfetaminico sono il secondo tipo più comune di droga utilizzato in tutto il mondo. Nel primo studio a livello mondiale nel suo genere, gli scienziati del Centro di Toronto per la Salute Mentale e Dipendenze (CAMH) hanno raccolto le prove a sostegno del fatto che chi fa uso massiccio di metamfetamina ha un maggiore rischio sviluppare schizofrenia rispetto al resto della popolazione. Questa scoperta si è basata su un ampio studio che ha confrontato il rischio di sviluppare una patologia schizofrenica in un gruppo sperimentale composto da persone che facevano abuso di metanfetamina, rispetto a un gruppo di controllo che non faceva uso di droghe, ma anche rispetto ad altri gruppi composti da consumatori di altre sostanze, come cannabis, alcol, cocaina o oppiacei. I ricercatori hanno scoperto che le persone ricoverate per dipendenza da metanfetamine, che non avevano avuto una diagnosi di schizofrenia o di sintomi psicotici, avevano un rischio da 1,5 a 3,0 volte superiore di ricevere, in seguito, una diagnosi di schizofrenia, rispetto ai gruppi di pazienti che facevano uso di altre sostanze. Ma non è tutto: l’aumento del rischio di schizofrenia per i consumatori di metanfetamine era simile a quella di grandi utilizzatori di cannabis. Il rapporto sarà pubblicato online, ancora prima che su carta, l’8 novembre 2011 dal Journal of Psychiatry, la rivista ufficiale della American Psychiatric Association.


La Paternità e i suoi effetti sugli uomini con comportamenti a rischio

Sull’ultimo numero del Journal of Marriage and Family sono stati pubblicati i risultati di una ricerca che suggerisce che la paternità può essere un’esperienza trasformativa anche per gli uomini responsabili di comportamenti ad alto rischio. I ricercatori dell’Oregon State University e dell’Università di Houston hanno osservato come la criminalità maschile, l’uso di tabacco, alcool e marijuana siano cambiati nel tempo in più di 200 ragazzi considerati a rischio. Precedenti studi avevano già messo in evidenza come il matrimonio negli uomini abbia un effetto positivo sui comportamenti a rischio, ma l’effetto della paternità non era ancora stato valutato. I ricercatori hanno scoperto che gli uomini che diventano padri tra i 20 e i 30 anni riducono sensibilmente i comportamenti criminosi, l’uso di alcol e di tabacco, rispetto a quelli che hanno avuto il primo figlio in età adolescenziale o comunque entro i 20 anni. Il potere metamorfico della paternità sembra quindi dipendere fortemente dal momento evolutivo nel quale arriva il primo figlio: neo padri non troppo giovani si sono dimostrati più disponibili, e pronti, a modificare stili di vita dannosi. Questo per i ricercatori è un dato importante perché permette di identificare una finestra temporale durante la quale è possibile intervenire efficacemente nel caso di situazioni familiari a rischio a causa dei comportamenti paterni dannosi.

Un precedente articolo degli stessi autori: The timing of entry into fatherhood in young, at-risk men

 

Terza età e Memoria: dimenticarsi degli Stereotipi

Secondo i ricercatori del Laboratorio di invecchiamento cognitivo e di memoria alla Tufts University, è tipico tra gli anziani essere vittima dei comuni stereotipi sulla perdita di memoria durante la vecchiaia; questo li indurrebbe implicitamente a considerare le proprie prestazioni mnestiche come progressivamente compromesse a causa dell’età. Nel corso di una verifica sperimentale i ricercatori hanno detto a un gruppo di partecipanti (sia gli anziani che giovani) che la loro memoria sarebbe stata testata e che era tipico per gli anziani avere prestazioni molto inferiori a quelle dei giovani adulti. Un altro gruppo veniva invece testato in un compito di riconoscimento di parole, ma, per minimizzare l’enfasi sul fatto che si trattasse di un compito di memoria, veniva detto ai partecipanti che stavano svolgendo un test di lingua invece che un compito di memoria. I risultati dell’esperimento indicano che i soggetti anziani, che erano stati informati prima dello svolgimento sulle differenze nelle prestazioni tra giovani e anziani, avevano effettivamente prestazioni peggiori di quelli a cui non era stata data questa informazione. Sembra proprio che gli stereotipi sulla perdita di memoria legata all’avanzare dell’età possano generare profezie in grado di autodeterminarisi.

 

Risonanza Magnetica come strumento diagnostico in psichiatria

All’Istituto di Psichiatria, King College di Londra in collaborazione con il Dipartimento d’Informatica dello University College è stato condotto un importante studio sulla corretta applicazione di algoritmi informatici all’analisi di scansioni MRI. L’uso di algoritmi per quantificare il rischio di ulteriori episodi di malattia è uso comune in medicina cardiovascolare e oncologica, ma in psichiatria non erano disponibili fino ad ora risultati sperimentali affidabili. I risultati di questo nuovo studio indicano che l’algoritmo, applicato alle scansioni cerebrali registrate al primo episodio di psicosi, è stato in grado di prevedere correttamente in 7 casi su 10 il successivo decorso della malattia. Questo sembra essere il primo passo verso l’introduzione dell’uso di immagini cerebrali in psichiatria, addirittura inserendo la procedura in indagini cliniche di routine. Nel caso di esordi psicotici potrebbe essere un modo veloce e affidabile per fare previsioni e ottimizzare i trattamenti nei casi più gravi, evitando contemporaneamente la somministrazione a lungo termine di farmaci antipsicotici in pazienti con forme molto lievi.


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