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EABCT 2011: Beliefs over control interact with intolerance of uncertainty and metacognition on worry

EABCT 2011: Marsha Linehan

EABCT 2011: ReykjavikEABCT 2011, Reykjavik. Una cornice spettacolare per la mia iniziazione. Da novellina a questa emozionante esperienza europea, mi avvicino ai grandi nomi con il rispetto reverenziale che meritano.

Terzo giorno EABCT, keynote serale di Marsha Linehan, con un update sugli Emotion Regulation Skills proposti dalla Dialectical Behavior Therapy. Sala gremita, con partecipanti che arrivano a prendere posto mezz’ora prima. Puntuale alle 16:30 sale sul palco la Linehan iniziando con una breve introduzione alla DBT e al motivo per cui era stata inizialmente concepita: “suicide is an important factor: if you want to treat you patient, you first have to keep him alive” è lo statement di apertura, pragmatico, in tipico stile americano, e a seguire una carrellata di informazioni sullo stato dell’arte della DBT. Alcuni dati di evidenza scientifica: l’insegnamento di abilità di gestione delle emozioni sembra essere un fattore cruciale che media gli effetti della DBT; questi skills comprendono tecniche di mindfulness (la mindfulness sembra l’argomento alla moda di questo congresso, esplorata ampiamente da Melanie Fennell ieri e da vari simposi distribuiti nelle diverse giornate), esercizi per la tolleranza delle emozioni negative, la regolazione emotiva e l’efficacia interpersonale.

La Linehan sottolinea l’importanza dei gruppi skills all’interno della terapia dei pazienti con disturbo borderline di personalità, restringe lo scopo di questi gruppi al solo e unico insegnare abilità e metodologie senza entrare nel merito della sofferenza del singolo paziente, che è invece tutta affidata al terapeuta individuale. Il fine ultimo di questi gruppi è infatti l’insegnamento al paziente di comportamenti finalizzati alla regolazione emotiva, come primo step verso la gestione più funzionale delle proprie emozioni percepite ora come intollerabili.

Continuando con il chiaro stampo concreto che la contraddistingue, la Linehan va avanti e elenca alcune delle abilità che è opportuno insegnare al paziente: se il disagio emotivo sta in un dato di fatto, la risposta è il problem solving concreto; se invece concentrare la propria attenzione su un aspetto del problema non è utile ma provoca sofferenza, la soluzione è la distrazione.

Mi affascina guardare al mondo dei disturbi di personalità attraverso le lenti della Linehan. Vedere come i pazienti siano concepiti come bambini, come inesperti delle emozioni e delle abilità di gestione emotiva, e non come persone “disturbate”. Viene proiettata una sorta di flow-chart decisionale che aiuti i pazienti stabilire se e come esprimere il proprio disagio, come interrogarlo per capire meglio quale sia la situazione reale e quale quella esperita da loro nel momento di sofferenza. I pazienti sono guidati da caselle che chiedono “la mia emozione è adeguata alla situazione?”, e procedono in base alle risposte per arrivare a definire il comportamento più consono da mettere in pratica.

Il comportamento per cambiare l’emozione, ancora prima di lavorare sulle cognizioni e le credenze. Mi ricorda l’apprendimento dei bambini, che prima di arrivare all’età del “perché, mamma?” si fanno guidare mano nella mano verso cosa sia più opportuno fare in determinate situazioni. Vedo questa donna energica e positivamente agguerrita dire ai suoi pazienti “per ora non chiedere, non hai ancora gli strumenti per gestire la situazione da solo. Nessuno te lo ha mai insegnato, te lo insegno io”. Puntuale con la mia riflessione, la Linehan colora di aneddoti i dati riportati, come l’importanza di dare fiducia al paziente anche a fronte di una sua evidente bugia, esperienza per lui riparatoria, che può arrivare a fargli dire “Marsha, you are the first person who decided to believe me”.

Affascinante, complicato, impegnativo. Stimolante. Hopeful.

EABCT 2011: “Yes…But…” Cognitive response to partial success: an exploratory research

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey YoungE ora tocca alla Schema Therapy di Jeffrey Young. Che ne pensate? Per aiutarvi a capire e farvene un’idea, vi racconto cosa ho ascoltato qui a Reykjavik da un simposio e da una keynote dedicate a questo modello terapeutico. Keynote e simposio entrambi curati da Arnoud Arntz, che è ormai il proconsole in Olanda e forse in Europa di Jeffrey Young.

Tra i nuovi modelli emersi, la Schema Therapy è quello in qualche modo che più rimane fedele al principio cardine del cognitivismo clinico classico: l’approfondimento dei contenuti mentali. A differenza della ACT di Hayes, della terapia metacognitiva di Wells o delle varie terapie basate sulla mindfulness, tutte terapie che in qualche modo invitano a pensare meno e che teorizzano che il pensare bene coincida con il pensare poco, la Schema Therapy di Young invece propone un ricco campionario di schemi cognitivi applicabili ai disturbi di personalità.

Ma se si fosse limitato a questo, Young non avrebbe in fondo proposto nulla di nuovo rispetto a un’operazione già effettuata da Beck, che anch’egli si cimentò nella descrizione delle credenze cognitive dei disturbi di personalità. Young aggiunge ai contenuti mentali cognitivi delle componenti emotive, esperienziali, interpersonali, evolutive e comportamentali.

Il quadrato emotivo-esperienziale-evolutivo-interpersonale è il contributo più caratterizzante della Schema Therapy. Per Young i contenuti cognitivi distorti, le credenze insomma, devono essere analizzati nella loro radice evolutiva, cioè nella loro origine in esperienze infantili dolorose, e vanno trattati non solo attraverso la ristrutturazione cognitiva esplicita, ma anche attraverso una rievocazione emotivamente vivida dell’esperienza relazionale dolorosa (per lo più si tratta di interazioni con i genitori) e una consapevole riscrittura del copione esperienziale in termini non traumatici.

Per fare questo Young si serve di 4 modelli che rappresentano le parti in gioco nel copione relazionale traumatico, modelli che Young chiama modes:

  • il protettore distaccato (detached protector mode);
  • il genitore punitivo (punitive parent mode);
  • il bambino arrabbiato e impulsivo (angry impulsive child mode);
  • il bambino abbandonato/abusato (abandoned/abused child mode);

A queste figure si aggiunge il cosiddetto genitore sano (healthy parent). Ho appena usato il termine “figura” non a caso. Quelle di Young non sono solo credenze o costellazioni di credenze, ricordi, idee, valori, stili relazionali, ma modelli interni e rappresentazioni interiori che agiscono con l’unitarietà d’azione di personaggi che recitano un dramma interiore che poi diventa esterno, concreto.

Infatti anche le figure genitoriali, i “parental mode” del protettore distaccato e del genitore punitivo per Young corrispondono non solo a reali comportamenti che il paziente subì in età precoce dai genitori, ma anche a rappresentazioni interne che continuano a condizionare i contenuti cognitivi ed emotivi della vita mentale del paziente e che il paziente non solo subisce, ma è in grado di impersonare e rivivere a sua volta e a far subire a chi lo circonda. Ecco che dunque il paziente diventa a sua volta un protettore distaccato o un genitore punitivo.

Tutto questo, che effettivamente ha molto in debito con la teoria psicodinamica, rimane però formulato in termini di teoria cognitiva, cioè secondo una visione della mente come elaboratore di informazioni. I “mode” rimangono costellazioni di credenze in grado di ricombinarsi in continuazione. I personaggi interiori rimangono una metafora, non diventano mai agenti totalmente indipendenti che condizionano la vita interiore del soggetto come se agissero dall’esterno.

A questa concezione evolutiva e interpersonale corrisponde un trattamento molto esperienziale, in cui il paziente è incoraggiato a esprimere i vissuti più intensi e dolorosi. Per Young questo elevato livello di temperatura emotiva è indispensabile per arrivare a una vera ristrutturazione, che non può essere solo cognitiva ma esperienziale. Questo significa che per Young il paziente non solo deve diventare più consapevole dei suoi “mode” e di quelli che mettevano in atto i suoi genitori, ma deve anche vivere in seduta il “mode” sano che non ha potuto ricevere durante lo sviluppo: lo “healthy parent”, il genitore accogliente e non giudicante ma anche capace di fornire delle regole in maniera non distaccata.

Chi può e deve impersonare per il paziente questo “healthy parent” è, per Young il terapeuta stesso, secondo in processo denominato di “limited reparenting”, rigenitorializzazione limitata e controllata. Il terapeuta in seduta non solo sottolinea i momenti in cui il paziente impersona i vari “mode” ma cerca sempre di reagire secondo il “mode” del genitore sano. L’obiettivo non è soltanto banalmente trattare bene il paziente maltratto, ma rappresentare concretamente la figura sana che riesce a gestire ragionevolmente i propri impulsi e alla lunga trasmetterla al paziente sia per la via consapevole e razionale che attraverso quella inconsapevole e esperienziale. Il paziente dovrebbe così a sua volta diventare in grado di concepirsi e trattarsi in maniera accogliente, non giudicate e capace di darsi e seguire delle regole, ma non in maniera distaccata e anaffettiva.

Fin qui il modello di Young, su cui molto di sarebbe da dire e anche da obiettare. Il modello appare molto completo, forse il più esaustivo nel trattare l’interezza della persona reale tra quelli finora prodotti dal cognitivismo clinico. Non pare però che Young abbia dato ancora abbastanza importanza agli scopi di vita del paziente, in grado anche essi di modellare la personalità, e non pare che si sia data attenzione ai momenti di crisi e incomprensione tra paziente e terapeuta. Il genitore accoglie ma al tempo stesso regola, e in questo regolare sono inevitabili delle frizioni. Forse anche Young indulge al difetto cognitivista di rappresentare la relazione terapeutica come un processo sempre armonico senza scossoni.

Ma passiamo ora alla plenaria e al simposio di Arntz, entrambi molto interessanti. Arntz infatti non si è limitato a riversare sull’uditorio la solita carrellata di dati che dimostrano quanto questa terapia sia efficace. Intendiamoci, ha comunque mostrato dati positivi, quasi trionfali (anche troppo, un po’ di prudenza non guasta). La Schema Therapy si sarebbe dimostata superiore alla transference focused therapy (TFP) di Kernberg e alla Dialectical-Behavioral Therapy (DBT) della Linehan nel trattamento dei pazienti borderline. Inoltre, dice Arntz, la Schema Therapy può essere adattata per gruppi di pazienti molto gravi in ambiente ospedaliero psichiatrico (però aggiungendo una massiccia dose di skills training alla Linehan, va ammesso questo) e addirittura avrebbe effetto su una classe di pazienti tradizionalmente intrattabili come i sociopatici con problemi giudiziari (forensic patients).

Ma Arntz ha fatto anche un discorso critico e riflessivo sul processo terapeutico della Schema Therapy. Insomma, si è chiesto come funziona la terapia di Young, senza dare per scontato che la dimostrazione dell’efficacia si tramuti automaticamente in dimostrazione del meccanismo ipotizzato teoricamente.

E quali meccanismi terapeutici ha discusso Arntz? Relazione, tecnica, modello teorico ed effetto del training. Sulla relazione Arntz ci ha tenuto a sottolineare che non si tratta del solito meccanismo aspecifico comune a tutte le psicoterapie, ma del tipico stile relazionale del terapeuta cognitivo: accogliente, direttivo e facilitante. Per Arntz questo tipico stile ha un effetto non generico, ma specifico per la terapia cognitiva. E lo dimostra portando dei dati che confrontano lo stile del terapeuta di Schema Therapy con un terapeuta di formazione analitica che segue il protocollo di Kernberg, la terapia focalizzata sul transfert (TFP). Il terapista TFP è meno direttivo e meno coinvolto direttamente nell’incoraggiare l’emersione di stati d’animo intensi. E questo atteggiamento sarebbe meno efficace di quello del terapeuta cognitivo di orientamento Schema Therapy.

Definita così, la relazione terapeutica è direttamente in connessione con la tecnica, che per Arntz è il fattore più probabilmente responsabile dell’efficacia della Schema Therapy. E come fa a sostenerlo Arntz? Citando studi di aderenza.  Cioè gli studi che correlano il grado di aderenza dei terapeuti ai principi tecnici della terapia che essi seguono. Nel caso della Schema Therapy, la correlazione è particolarmente forte e questo, per Arntz, significa che il contributo della tecnica al successo terapeutico è particolarmente forte. Questo significa che la combinazione di tecniche esperienziali con le tecniche classiche emotive è un’idea probabilmente vincente.

E il contributo del modello teorico? Per Arntz questo è un aspetto più difficile e complesso da dimostrare. Tuttavia si deve sottolineare come nel modello teorico di Young, tecnica e aspetti relazionali specifici siano intrecciati. Il modello teorico, dunque, più che essere un fattore che spiega direttamente l’efficacia della terapia potrebbe essere semmai la cornice che contiene coerentemente il tutto.

Infine l’effetto del training. Per Arntz, nel caso della Schema Therapy l’effetto positivo del training è particolarmente accentuato. Che vuol dire? Che terapeuti che hanno fatto l’intero training strutturato della scuola di Young sono molto più efficaci di terapeuti che hanno fatto solo corsi introduttivi, o solo videolezioni o che hanno studiato da soli il modello. Può sembrare una banalità, ma in un periodo in cui si sottolineano sempre più solo i fattori aspecifici questi dati invece appoggiano l’importanza degli aspetti unici e tipici della Schema Therapy.

EABCT 2011: Melanie Fennell sulla mindfulness (un confronto tra le onde cognitive davanti all’oceano nordico)

 

EABCT 2011 Melanie FennellSecondo giorno di congresso e tra le letture magistrali è ancora la mindfulness a vincere il primo premio per numero di partecipanti. Ciò nonostante devo ammettere che negli occhi dei colleghi comincia a mostrarsi una leggera stanchezza e qualche sbuffo all’ennesimo invito all’esercizio meditativo.

Anche Melanie Fennell non ha resistito alla tentazione. Lei, nota psicoterapeuta e ricercatrice di Oxford, inizia il suo intervento con qualche minuto dedicato alla meditazione. Tutti in silenzio e occhi chiusi. Ora, dopo due giorni di congresso intenso, lo stimolo naturale sarebbe quello di lasciare andare la mente verso lo spegnimento della coscienza. Tuttavia l’interesse per il tema e forse la speranza in un vivo dibattito mi tengono sveglio.  Al riguardo devo ammettere che le spiccate doti comunicative della Fennell hanno dato un contributo. La relazione è attiva e stimolante e questo sostiene lo sforzo attentivo.

Il tema principale è il confronto tra MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy)CBT (Cognitive-Behavioral Therapy), tra seconda e terza ondata delle terapie basate sull’evidenza. Quali punti comuni e quali contrasti? Esiste la possibilità di un matrimonio duraturo, un’integrazione? O siamo destinati a rimanere incastrati in questa diatriba per tutta la prossima decade congressuale?

Melanie Fennell ci offre una sintesi ordinata ma con poche novità. Il quesito resta aperto e Melanie se la cava alla vecchia diplomatica maniera: “l’importante è porsi delle domande e non trovare delle risposte”. E siamo d’accordo, ci mancherebbe. Ma almeno qualche risposta bisognerà pure indicarla, altrimenti rischiamo di girare come dei criceti sulla ruota delle stesse domande. Lo spettro di altri dieci anni di esercizi meditativi prima di una relazione congressuale continua a perseguitarmi anche ora mentre scrivo. In ogni caso il punto della situazione è chiaro ma è descritto da una sostenitrice della mindfulness. La Fennell infatti lavora con Mark Williams uno dei coautori del manuale MBCT per la prevenzione delle ricadute nella depressione.

Ma quali sono i punti chiave? Entrambi gli approcci cercano di raggiungere il medesimo obiettivo: offrire una mappa di come la mente funziona e stimolare un cambiamento in prospettive mentali controproducenti,  ridurre la sofferenza emotiva. Le differenze sono nei contenuti e negli elementi che possono mediare questo percorso.

La MBCT è focalizzata sui temi dell’accettazione e della compassione, anche verso i propri pensieri e sensazioni corporee, non mira a modificare i pensieri ma la relazione che la persona ha con i propri pensieri, è molto più interessata alla ‘corporeità’ indipendentemente dal tipo di disturbo che è trattato. Melanie Fennell lo definisce un approccio con un linguaggio ‘ecologico’ e naturalista contrapposto al linguaggio ‘militare’ delle terapie cognitivo-comportamentali che appaiono maggiormente direttive, esplicite, orientate a far prendere in mano i problemi e a trovare una soluzione concreta. Sembrano contrapporsi due mondi difficili da coniugare: cambiamento contro accettazione.  La stessa autrice arriva alla conclusione che un simile matrimonio potrebbe facilmente finire in un prematuro divorzio.

Allora proviamo a prenderla da un’altra parte. Dimentichiamo la teoria e parliamo di efficacia. MBCT e CBT mostrano risultati pressoché equivalenti nel trattamento di ansia e depressione. Questo è il risultato che emerge da una recente e completa meta-analisi (Hoffman et al., 2010). Ergo, nessun vero vincitore, nessuna rivoluzione scientifica. Certo, la MBCT è particolarmente efficace per trattare pazienti cronici con tre  o più episodi depressivi, ma offre scarsi risultati e non è consigliata per pazienti con meno di tre episodi depressivi. Sembra efficace anche in casi di depressione reattiva e acuta. Ma è un trattamento pesante e impegnativo, in termini di tempo e di risorse quotidiane, per l’individuo, rispetto alla tradizionale CBT.

Risultati incerti. Competizione aperta. Ma allora, matrimonio possibile? Forse solo quando finalmente si abbandoneranno posizioni radicaliste. Forse arriveremo ad accettare un giorno che certe gabbie psicopatologiche hanno bisogno di cambiamento, certe altre hanno bisogno di accettazione. E per le rimanenti? Una volta adeguatamente informato, scelga il cliente.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

EABCT 2011: Perceived Parental Criticism, Self-Criticism and Depression: An Exploratory Research

EABCT 2011: Shopaholics! Fenomenologia dello Shopping Compulsivo

Shopping compulsivoNel primo giorno ufficiale del congresso di Reykjavik si è svolto un simposio centrato su uno dei disturbi di recente attenzione clinica: lo shopping compulsivo (compulsive buying). Il disturbo è caratterizzato da un’eccessiva e incontrollata tendenza all’acquisto e alla spesa di denaro che può produrre notevole disagio emotivo e dannose conseguenze sociali e finanziarie.

Il simposio si pone l’obiettivo di dare un quadro esaustivo della conoscenza attuale di un disturbo ancora poco conosciuto e poco studiato. Gli autori sono un’equipe internazionale di diversi centri in Germania, Belgio e USA.

Innanzitutto i pazienti con un disturbo da shopping compulsivo tendono a usare l’acquisto come strategia di regolazione di un’escalation di emozioni negative ch può anche dipendere da problemi non connessi all’azione dell’acquisto.  Secondariamente queste persone sono più sensibili, già a un livello neurochimico, al piacere derivato da una ricompensa o da una gratificazione. Infine mostrano una scarsa capacità di uscire dall’urgenza del presente, non solo nel momento dell’acquisto, e ad assumere un atteggiamento distaccato e decentrato rispetto a emozioni e pensieri che sorgono nel presente.

Per quanto riguarda la terapia, il confortante risultato è che la terapia di gruppo cognitivo comportamentale applicata a pazienti con shopping compulsivo ha mostrato risultati preliminari incoraggianti (Mitchell et al., 2006). Questo significa che le conoscenze generali sul modello teorico e clinico cognitivo e comportamentale possono già dare un significativo contributo al trattamento di questo disturbo. Questo risultato però non può essere sufficiente, occorre infatti valutare quali sono fattori di rischio e di mantenimento specifici del disturbo. Insomma, non siamo disarmati ma possiamo essere molto più efficaci se focalizziamo maggiormente il nostro intervento sugli elementi chiave.

Questi risultati preliminari sono ancora descrittivi. Abbiamo bisogno in futuro di comprendere con maggior dettaglio cosa succede nella mente di queste persone di diverso da coloro che hanno imparato forme di distrazione o di gratificazione più moderata a fronte dello stesso livello di stress.

Bibliografia:

Mitchell JE, Burgard M, Faber R, Crosby RD, de Zwaan, M (2006) Cognitive behavioural therapy for compulsive buying disorder. Behavior Research and Therapy, 44, 1859-1865.

EABCT 2011: The role of metacognitive processes in desire thinking

EABCT 2011: Clark sulla diffusione ed efficacia della terapia cognitiva

David ClarkL’Islanda si annuncia dal finestrino del taxi con distese pietrose a perdita d’occhio, erba stentata, montagne minacciose all’orizzonte, un lontanissimo geyser che zampilla tra i monti e nuvole, nuvole grigie e bassissime, così vicine da incombere sulla terra come la noia di una plenaria di Clark sulla diffusione della terapia cognitiva nel servizio pubblico inglese incombe sul mio cuore.

E invece la plenaria di Clark mi è piaciuta e non mi sono annoiato, forse aiutato anche dalla necessità di prendere appunti per questo articolo. Clark ha iniziato con un’ora di ritardo dopo un noiosissimo (quello sì) discorso del presidente della repubblica islandese. Il presidente ha detto che il congresso cognitivo è una delle risposte alla crisi di debito dell’Islanda. Contento lui, contento il Fondo Monetario Internazionale.

Torniamo a Clark. Parte male, fa un riassuntino della teoria cognitiva standard della fobia sociale. Dopo un quarto d’ora di lezioncina per un primo anno di specializzazione  in terapia cognitiva sospetto che Clark sia definitivamente impazzito, forse anche per l’influenza del presidente della repubblica islandese che paga i debiti a colpi di congressi cognitivi.

Poi Clark si riprende. Presenta qualche dato di ricerca in cui si ribadisce che la terapia cognitiva è la più indicata e migliore delle altre terapia, e fa il confronto con la terapia interpersonale. Però anche qui mi convince poco, perché la terapia interpersonale è ormai un vecchio ronzino, una versione semplificata della psicoanalisi inventata a tavolino e che non ha mai avuto una vera vita indipendente al di fuori delle università. Troppo facile. Ho l’impressione che molti pensino che i veri rivali siano altri (la terza ondata, la terza ondata, sempre lei!).

Infine inizia una parte davvero interessante. Non propriamente clinica, quanto piuttosto sull’impatto socio-economico della terapia dell’ansia e della depressione e sulle potenzialità di una sua maggiore diffusione. Ma comunque interessante.

Clark ci informa che ben il 15% della popolazione generale è affetto da ansia o depressione, ma che solo il 5% di costoro è in cura e ancor meno intraprendono un trattamento empiricamente efficace, con grossi costi sociali ed economici. Tutto questo significa che c’è lo spazio per addestrare un numero molto maggiore di terapeuti di quelli ora presenti sul territorio inglese. Ma il dato sarà applicabile anche all’Italia, paese dove il numero di laureati in psicologia è molto maggiore che in ogni altro paese europeo? A occhio forse si, e un po’ di ottimismo ci vuole.

Clark passa poi a esporre dati in un grande studio naturalistico sulle conseguenze positive dell’immissione nel territorio  di un massiccio numero di terapisti, per lo più cognitivi. Lo studio è stato fatto nelle contee di Newham e Doncaster. I risultato più importante è che in questo modo le remissioni da ansia e depressione raggiungono il valore del 52% (con punte del 67% nella popolazione di origine asiatica, curiosamente). Una maggiore presenza nel territorio di psicoterapeuti migliora il benessere psicologico della popolazione e diminuisce i costi.

Ma ci sono anche altre variabili che sono in relazione con un aumento dell’efficacia. Tra queste il numero delle sedute settimanali (ebbene si, pare proprio che più sedute a settimana incrementino l’efficacia; questo può essere un incoraggiamento a infrangere il tabù cognitivo della seduta settimanale unica?), il monitoraggio con brevi questionari effettuato dopo tutte le sedute e il grado di preparazione e aggiornamento formativo del terapeuta.

EABCT 2011: Luci e ombre della Compassion Focused Therapy

EABCT 2011 CongressTra i vari workshop precongressuali della giornata odierna, ho scelto di partecipare a quello presentato da Paul Gilbert sulla sua Compassion Focused Therapy. Ci sono diverse ragioni per cui la mia scelta è caduta su questa opportunità formativa. Prima di tutto non avevo mai assistito a un suo workshop, solo a diverse lezioni magistrali (keynotes) che mi avevano incuriosito ma che non avevano certo completato in modo esaustivo la descrizione dei presupposti teorici e tecnici di questo approccio. Secondariamente, l’intervento si occupa principalmente di depressione, argomento a me caro, e di autocriticismo, uno dei temi ai quali il gruppo ricerca cui appartengo sta recentemente dedicando attenzione. Infine avevo la necessità di comprendere quanto ci fosse di realmente nuovo in una forma di terapia che pare concentrarsi su un unico tema peraltro affrontato secondo una prospettiva molto mindfulness based, cioè basata su un uso massiccio di tecniche meditative.

Ho iniziato il workshop con molte curiosità e qualche dubbio. Devo dire che al termine mi ritrovo con qualche strumento utile per la mia valigia da professionista della salute mentale, ma con parecchi dubbi. Da un punto di vista puramente teorico le riflessioni portate avanti da Gilbert sono certamente complete e interessanti. Mostra una riscoperta del ruolo dei bisogni e delle motivazioni biologicamente determinate con forte connessioni con la neuroanatomia e il processo evolutivo cerebrale. Il terreno teorico è quello della biologia e delle teorie dell’attaccamento, la prospettiva è evoluzionistica, in realtà un punto di vista per molti aspetti già sviluppato da teorici italiani negli ultimi trent’anni, Gianni Liotti su tutti. Gli aspetti più interessanti nascono da riflessioni specifiche più che generali, cioè dall’esplorazione originale, questo è il contributo principale di Gilbert e dei suoi collaboratori, sul ruolo dell’autocriticismo e sulle credenze ad esso associate.  Ad esempio gli individui sembrano faticare ad abbandonare una prospettiva autocritica e autopunitiva perché temono di non poter apprendere a correggersi, migliorarsi ed essere accettate dagli altri. La compassione è presentata come una prospettiva con cui accogliere gli eventi della vita, ma soprattutto quelli del mondo interno come pensieri, fantasie, impulsi in modo non autocritico ma benevolente. Il nucleo da raggiungere è il riconoscimento che ciò che passa nella nostra mente e nel nostro corpo non è figlio della nostra volontà, né un nostro errore ma qualcosa che ci capita sulla base del nostro corredo genetico e della nostra storia. Qualcosa di cui non abbiamo responsabilità ma con cui dobbiamo avere a che fare, come fosse una qualsiasi allergia, malformazione o debolezza fisica. L’obiettivo è deresponsabilizzare l’individuo da come si esprime la sua mente o il suo corpo, il suo pensiero associativo così come le sensibilità e l’intensità delle reazioni emotive. Tutto mira, sin dai suoi principi teorici a demolire la tendenza ad attaccare, biasimare, criticare o considerare vergognosi sé stessi.

Dal mio punti di vista le questioni delicate sono due. Innanzitutto questo tipo di riflessione clinica è funzionale e adatta laddove l’autocriticismo è il problema nucleare e ritengo possa dare buoni frutti terapeutici. Attenzione però a non ridurre l’ampio e complesso mondo della psicopatologia a un’equazione che può essere risolta nel semplice volersi bene. Secondariamente la parte tecnica effettivamente è tutta focalizzata su esercizi di mindfulness, non che siano inadeguati per lo scopo proposto ma vien da chiedersi se non bastava delineare una linea guida per trattare l’eccessiva autocritica piuttosto che costituire una forma di terapia generalizzata.

Certo, al di là di questi dubbi, le linee guida e il pacchetto di tecniche offerto dalla CFT rappresentano un modulo facilmente integrabile in qualsiasi percorso terapeutico e all’avanguardia per quanto riguarda la comprensione e il trattamento dell’eccessiva tendenza all’autocritica e degli stati di malessere emotivo ad essa connessi.

EABCT 2011: promesse e preoccupazioni

Vulcano IslandeseL’Islanda è una terra primordiale, dove elementi opposti si attraggono, coesistono e si abbracciano in modo naturale, diremmo noi emotivo. Alcuni teorici sosterrebbero si tratti di un processo automatico, preconsapevole, sorto da una strana mescolanza di temperamento e di storia evolutiva. Così, l’Islanda, la terra del ghiaccio e del fuoco, ha un temperamento favorevole a questo naturale equilibrio emotivo: la presenza di forti contrasti termici nell’aria e nell’acqua, l’energia geotermica e la sovrapposizione con una frattura geologica, i venti freddi della Groenlandia e quelli tiepidi provenienti dall’Europa. Poi c’è la storia evolutiva, contraddistinta da una lontananza dalla civiltà fino all’epoca moderna, il ritardo nel progresso, l’esigua popolazione umana. Insomma, per molto tempo le infrastrutture portate dall’uomo non hanno intaccato, con le loro barriere architettoniche (che noi diremmo cognitive), l’emotivo equilibrio islandese. Questa è la mia prima sensazione dell’Islanda, sensazione plasmata sia dalla magia che dalla psicologia del luogo (e chi mi conosce sa che psicologia e “magia” sono due mie passioni) e che voglio condividere con voi. Vedremo come fiorirà questa sensazione nel corso del Congresso dell’European Association of Behavioural and Cognitive Therapy (EABCT). In attesa dalla mia camera d’albergo mi dondolo tra qualche curiosità e diverse perplessità. I precedenti due congressi europei (Dubrovnik e Milano), non lo nascondo, hanno lasciato un po’ di amaro in bocca. All’epicità dei grandi scontri di Helsinki 2008, ai dibattiti teorici e metodologici tra Steven Hayes, Lars-Goran Ost e Paul Salkovskis, sembra essere seguito un periodo di calma e leggero appiattimento. E ora mi chiedo se quest’anno assaporerò la stessa sensazione o se mi attende qualcosa di nuovo. Quali sono le variabili che possono avere un peso in una direzione o nell’altra? Almeno tre. Punto primo: l’Islanda è stata scelta, come è politica di anni recenti, per dare spazio ad associazioni nazionali più piccole e meno in vista. L’obiettivo è diffondere la scienza psicoterapeutica nei cosiddetti “paesi emergenti”. Questo è un punto di forza politico, poiché porta con sé conoscenze in paesi ove le opportunità di formazione e aggiornamento sono ridotte. Ci sono però anche dei rischi. L’Islanda per molti, per quasi tutti a dire il vero, non è particolarmente comoda e accessibile. Inoltre una giovane e piccola associazione come quella islandese potrebbe faticare a gestire un congresso di questa portata e a rappresentare una notevole attrattiva per grandi nomi e quindi anche per numerosi colleghi. Tuttavia, proprio per la stessa ragione, potremmo riuscire a sentire qualcosa di nuovo e originale. Punto secondo: l’EABCT per chi non lo sapesse è un associazione internazionale composta da associazioni nazionali, un organo istituzionale di ordine superiore. Per questo rappresenta il campo sui cui si gioca e si definisce la politica internazionale per lo sviluppo delle terapie cognitive e cognitivo-comportamentali . Quindi c’è il rischio che il valore e il rilievo politico possano oscurare quello clinico; rischio che pare evidenziato dal sempre maggiore interesse che riscuote un altro circuito di congressi, quello che fa capo all’ICCP, un associazione internazionale di singoli professionisti. Punto terzo: questo è stato l’anno in cui un altro famoso teorico contemporaneo, Adrian Wells, ha deciso di fondare un suo circolo scientifico che raccolga gli studi sull’approccio terapeutico metacognitivo di cui è fondatore. Al contrario di Steven Hayes, Wells non sembra intenzionato a portare la sua Terapia Metacognitiva (MCT) fuori dal circuito EABCT, tuttavia resta da vedere quale impatto il congresso di Manchester avrà sulle presenze e sui contenuti di Reykjavik 2011. Forse è proprio questa la ragione per cui, a una prima occhiata, il programma scientifico profuma così tanto di cognitivismo standard con contorno di mindfulness. Insomma, potrebbe attenderci una versione più povera e canonica dei precedenti congressi, quasi esclusivamente politica; oppure potremmo vedere finalmente contributi liberi da soliti schemi e personaggi, con spazi per idee nuove finora coperte dal mainstream della diatriba tra ondate di terapia cognitiva. Vi terremo aggiornati.

Cronache dal 41esimo Congresso Cognitivo Europeo (Reykjavik, 31/08 – 3/09 2011)

ReykjavikTra pochi giorni, dal 31 agosto al 3 settembre, a Reykjavik, in Islanda, si terrà il 41esimo congresso europeo di terapia cognitiva. Più precisamente, il 41esimo congresso annuale della EABCT, la European Association of Behavioural and Cognitive Therapy.

Da qualche anno i congressi cognitivi sono diventati eventi movimentati. Non più piste per il confronto e la competizione, ma arene gladiatorie per scontri tra le ondate del cognitivismo clinico. La seconda e la terza ondata sono da qualche anno in contrapposizione. Forse questa volta non si arriverà ai momenti di tensione estrema di Helsinky 2008 anche perché mancherà Steven Hayes, L’Ettore di quelle giornate. Hayes ha abbandonato l’EABCT e ha fondato la sua società scientifica che organizza i suoi congressi indipendenti. L’ultimo in Italia, a Parma dal 13 al 15 luglio 2011. Ed è stato l’11esimo congresso dei seguaci di Hayes. Insomma, questa terza ondata comincia ad avere i suoi anni.

Ma lasciamo Hayes ai suoi esili e diamo uno sguardo al programma di Reykjavik. Il congresso si apre di mercoledì 31 agosto (costringendoci ad abbandonare le spiagge estive) con ben undici (11!) workshop. Sette di impostazione standard, con i soliti Clark e Salkovskis e le loro solite terapie standard per la fobia sociale e il disturbo ossessivo compulsivo. I dioscuri tengono stretto il timone del cognitivismo classico. A prua invece troviamo quattro workshop di terza ondata: uno sulla mindfulnes (Kuyken), uno sulla terapia dialettico-comportamentale (Ritschel), uno sulla schema therapy (Arntz) e uno sulla terapia focalizzata sulla compassione (Gilbert). Sembrerebbe una sorta di lottizzazione, un manuale Cencelli in cui 2 terzi dello spazio è dato al cognitivismo standard e un terzo ai parvenu della terza ondata.

Il mercoledì di apertura si chiude con Clark (e così seconda ondata si becca la keynote di apertura! Applausi dai banchi di destra, entusiasmo dei tradizionalisti!) che parla di “Developing and disseminating effective psychological treatments: science, practice and economic“.

Sviluppo? Disseminazione? Economia? Trattamento efficace? Insomma, clinica zero. Si preannuncia un discorso di una noia mortale (mutismo tra i banchi della destra, pernacchie e sarcasmi provengono dagli opposti banchi del progressismo di terza ondata). È possibile che il fronte standard abbia dovuto pagare un prezzo per aver ottenuto il discorso di apertura (questo lo dicono quei cinici dei parlamentari centristi, la palude). E il prezzo è stato: la noia. L’assoluta neutralità che non scontenta nessuno, e forse farà dormire molti.

Sarà vero? Ve lo diremo mercoledì sera stessa. Infatti la delegazione di Studi Cognitivi si appresta a invadere l’Islanda con le sue truppe: Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Chiara Manfredi saranno lì e vi terranno informati. Sarà il primo esperimento di livebloggingcognitivo.

Intanto domani getteremo un secondo sguardo alle altre giornate del congresso.

Meno problemi comportamentali e voti più alti a scuola per chi è stato allattato al seno?

AllattamentoIl latte materno, ricco di grassi polinsaturi, proteine e ferro rappresenta il miglior alimento per i neonati, tanto che l’OMS, l’Unicef e l’Unione Europea lo raccomandano come scelta esclusiva per i primi sei mesi di vita del bambino, per poi continuare come alimento complementare fino ai due anni.

I vantaggi per lo sviluppo fisico sono ben noti: incrementa le difese immunitarie del neonato, previene dalle infezioni e dalle allergie, favorisce lo sviluppo intestinale, la vista e persino lo sviluppo psicomotorio. Nel latte materno, però, ci sarebbe molto di più: incrementerebbe nel bambino il normale sviluppo intellettivo e comportamentale. Secondo uno studio longitudinale condotto dalla Christchurch School of Medicine, Nuova Zelanda, su un campione di oltre 1000 soggetti, l’allattamento al seno sarebbe associato a un miglioramento delle abilità cognitive e dei successi scolastici dei bambini rispetto a chi era stato nutrito esclusivamente con latte artificiale. Questi miglioramenti si traducono in punteggi più elevati ottenuti a test di intelligenza somministrati a 8 anni, maggiori abilità matematiche di lettura, comprensione e voti scolastici più alti valutati tra i 10 e i 18 anni.

Ma i benefici non finiscono qui! Uno studio inglese che ha coinvolto più di 10.000 diadi madre-bambino ha portato a risultati ancora più robusti. Alle mamme è stato chiesto di completare dei questionari riguardanti le difficoltà che osservavano nei loro bambini, sia a livello emotivo – come ansia, timidezza o iperattività- che a livello comportamentale – ad esempio mentire o rubare. Questi comportamenti devono essere considerati inadeguati socialmente e ripetersi per un certo periodo di tempo, devono avere un impatto negativo sullo sviluppo del bambino e interferire con la vita familiare quotidiana. I dati sono stati raccolti a 9 mesi di vita del bambino e successivamente a intervalli di due anni fino al compimento del 18esimo anno. I risultati sono sorprendenti: solo il 4% dei bambini che erano stati allattati al seno mostrava una tendenza a tali difficoltà, contro il 16% di chi era stato nutrito con latte artificiale. La validità di questo lungo studio è ancora maggiore se si considera che tali risultati rimangono invariati tenendo in considerazione anche variabili come lo status socioeconomico, il livello di istruzione delle madri, il consumo di sigarette e alcool ed eventuali psicopatologie della madri, con l’aggiunta del fatto che in un campione così numeroso le possibili differenze individuali di chi osserva i comportamenti dei bambini vengono praticamente annullate.

Come si spiegano questi risultati? Anche se rimane vero che lo speciale contenuto di enzimi e acidi grassi presenti nel latte materno sono fondamentali per lo sviluppo del sistema nervoso, negli ultimi decenni le aziende che producono latte artificiale hanno ben sopperito a questo bisogno, creando un prodotto molto simile a quello naturale. La risposta va allora cercata altrove e ce la danno gli psicologi. Anzi, ce lo dicevano già Bowlby e la Ainsworth. Si tratta dell’importanza dello speciale legame che si instaura durante l’allattamento tra la mamma e il suo bambino e che, attraverso il contatto, favorirebbe maggiori interazioni durante questo momento (come più sorrisi, più scambi di sguardi ecc…) e infonderebbe “calore” alla relazione. Attraverso questo processo e questo momento condiviso, si trasmetterebbe al bambino un rinforzo ai comportamenti adattivi e funzionali e alle emozioni positive.

Anche se molte ricerche andrebbero ancora condotte in questa direzione, ad esempio su differenti gruppi etnici e altre culture, rifacendoci alle parole di Peter Kinderman, professore di Psicologia Clinica all’Università di Liverpool, il legame tra la mamma e il suo bambino durante l’allattamento potrebbe proprio costituire il reale fattore chiave di tali differenze comportamentali ed emotive osservate a lungo termine nei bambini.

 

Bibliografia:

Craving e pensiero desiderante


 

 

Il craving è descritto come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere certi effetti (Marlatt, 1987). Per molti autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche e il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento. Per queste ragioni è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche (Kavanagh, Andrade & May, 2004).

Una domanda che resta aperta è: qual è il funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene questa sensazione di desiderio e impulso incontrollabile (craving)? Recentemente alcuni studi hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio e hanno individuato uno stile di pensiero con specifiche caratteristiche. Il pensiero desiderante, questo è il suo nome tecnico, è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti (Caselli & Spada, 2010):

  • Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)

  • Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).

Gli studi preliminari non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta un eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che certe modalità di usare il pensiero rispetto ai nostri desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità dei nostri impulsi e sulle nostre capacità di autocontrollo.


Bibliografia

 

Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.

Kavanagh, D.J., Andrade, J, & May, J. (2004). Beating the urge: Implications of research into substance-related desires. Addictive Behaviors, 29, 1399-1372.

Marlatt, G.A. (1987). Craving notes. British Journal of Addiction, 82, 42-43.

 


Psicoterapia nucleare e psicoterapia esistenziale

psicoterapia-nucleare

 

Una delle cose che mi ha sempre stupito della psicoterapia cognitiva è la sua storica tendenza a vivere lungo dicotomie polarizzate e per molti versi inconciliabili, così come la tendenza a non vedere un punto di unione più alto.  Gli esempi più chiari emergono considerando le critiche poste all’approccio cognitivo. Da un lato le psicoterapie dinamiche e umanistiche sottolineano quanto i terapeuti cognitivi possano essere figli del DSM, dei mezzi comportamentali, attenti solo al sintomo e poco inclini a considerare la persona nella sua globalità. Dall’altro lato, i puri comportamentisti ci indicano come una sottospecie spuria, da tempo fin troppo emarginata dalla scienza e caduta nella tentazione dell’attaccamento, dello sviluppo storico della sofferenza emotiva, cose forse anche interessanti per filosofeggiare ma superflue entro un percorso di cura.

Com’è possibile conciliare queste due anime critiche opposte? Probabilmente è possibile poiché, a un esame di realtà, i terapeuti cognitivi condividono questa natura ambivalente e condividono entrambi i rischi. A volte la negano, a volte propendono chiaramente per un rischio piuttosto che un altro portando così alla nascita di micro fazioni ibride che vanno dal cognitivo-comportamentale, cognitivo-costruttivista, cognitivo-postrazionalista, cognitivo-evoluzionista, e così via. Così si moltiplicano i nomi degli approcci, un po’ come quando ogni gruppo musicale ci tiene a essere fondatore del suo genere innovativo rischiando di rimanerne per sempre l’unico e solo rappresentante.

Ma torniamo alle diatribe tra i rischi cognitivisti. Due sono i rischi concreti, due gli estremi tendenzialmente da evitare, la deriva focalizzata sul sintomo e la deriva esistenzialista. Il saggio, colui che usa una mente saggia e metacognitiva, direbbe che non esiste una tendenza giusta e una sbagliata ma che esiste una tendenza migliore in relazione al contesto. Così potremmo dire, rinunciando semmai al nostro bisogno narcisistico, elitario o di riconoscimento, che esiste una buona terapia cognitiva nucleare centrata sul sintomo e una buona terapia cognitiva esistenziale. Scritta in questo modo sembra un’affermazione perfino banale, ciò nonostante risulta quasi completamente assente dai manuali di terapia cognitiva.  Potremmo forse osare ancora di più e dire che esistono terapie che devono essere centrate sul sintomo, terapie che devono essere esistenziali sin dal loro principio e terapia che possono avviarsi sul sintomo e divenire esistenziali in una seconda fase. Possiamo infine dire che la psicoterapia cognitiva nucleare è più semplice da rendere in protocolli e forse funziona meglio qualora ne segua rigorosamente le procedure, mentre la psicoterapia esistenziale deve essere giocoforza a maglie più lasse, chiamare in causa l’aspetto evolutivo, più difficile e lenta da modificare, non è una terapia d’urgenza ma questo non vuol dire che debba esimersi dal vaglio della ricerca empirica.

Una prospettiva in cui queste due componenti siano considerate paritarie e metacognitivamente valutate nella definizione di un piano terapeutico non è in fondo una nuova terapia, essa è la terapia cognitiva così come si sta naturalmente evolvendo nel corso della storia. Nemmeno parlerei di terapia integrata, perché in fondo non v’è nulla da integrare, se non cadiamo nei rischi degli estremi i due percorsi risultano il naturale esito di un buon processo terapeutico cognitivo. Però, soprattutto i saggi, i maestri di terapia cognitiva, questo lo devono dichiarare. Loro per primi hanno la responsabilità di non presentare la terapia cognitiva come un rischio tecnico e sintomocentrico o come un rischio filosofico e quasi aclinico.

Questa prospettiva peraltro non è particolarmente nuova e, anche se non in questi termini, si aggancia alla dicotomia tra accettazione e cambiamento. La psicoterapia nucleare sta all’accettazione come la psicoterapia esistenziale sta al cambiamento? Steven Hayes e collaboratori (2003) sembrano proprio andare in questa direzione nel manuale di riferimento del loro approccio terapeutico: l’acceptance and commitment therapy (ACT). Da quando lessi questo manuale mi convinsi che tutta la componente centrata su mindfulness e accettazione non fosse poi così innovativa, nonostante sembrasse quella su cui pubblicamente i ricercatori si confrontavano, complice l’impatto comunicativo e scientifico che il concetto di mindfulness si è ritagliato in anni recenti. Per il sottoscritto, la vera rivoluzione dell’approccio ACT stava nel commitment , in quella parte del lavoro terapeutico finalizzato all’impegno nel riconoscere, scegliere e perseguire i propri valori personali. L’impegno al cambiamento mira a disegnare la propria direzionalità di vita nel tempo, una linea guida comportamentale liberamente scelta (e non imposta da aspettative altrui come da condizionamenti socioculturali), un area dove il controllo del pensiero verbale sul comportamento è possibile e funzionale. L’ACT è forse il primo intervento che ha associato un percorso nucleare sul sintomo a uno esistenziale. Soprattutto è il primo modello ad aver strutturato un intervento esistenziale in modo chiaro, rigoroso ed empirico prima che filosofico o fondato sul pensiero di un grande teorico.

Sarà interessante in futuro scrivere qualcosa su questa parte dell’ACT e sulle sue implicazioni. Per ora mi limito a sperare in un futuro della terapia (ma anche della teoria) cognitiva basato su una valutazione più saggia ed equilibrata tra cosa funziona nel processo terapeutico nucleare, cosa funziona nel processo terapeutico esistenziale, quando usare l’uno e quando usare l’altro. Soprattutto auspico che questi due aspetti vengano sempre più considerati come componenti della terapia cognitiva piuttosto che come derive antitetiche di presunti approcci innovativi e tendenzialmente autoreferenziali. Con questi presupposti credo sarebbe possibile aprire dibattiti più interessanti e nuovi rispetto alla continua simmetria di due visioni estreme in cui la critica dell’altro rischia di essere prioritario rispetto all’analisi della realtà sia clinica che scientifica.

 

Hayes, Steven C.; Kirk D. Strosahl, Kelly G. Wilson (2003). Acceptance and Commitment Therapy: An Experiential Approach to Behavior Change. The Guilford Press.

E tu, Maschio, che ne pensi? In margine a Marrazzo

marrazzo

 

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio. La vicenda di Marrazzo distrugge le personalità singole e ci trasforma tutti in archetipi, in figure mitologiche che vanno oltre la vita individuale e singolare. Di mitologico non c’è solo l’Ermafrodito, Natalie il transessuale. Di mitologico c’è anche lo stesso Marrazzo, ridotto a Satiro itifallico sorpreso in camicia e gambe nude, quasi ad alludere per inversione al petto nudo e alle gambe caprine del dio dionisiaco.

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio, ridotto a caricatura di se stesso, schiavo del sesso, eterno adolescente ingrifato dall’immagine dell’origine del mondo, i cui pensieri sembrano non poter far altro che assumere la forma attorcigliata della sexual addiction, contortamente ingroppata nelle proprie ossessioni. Intervistato ancora sulla triste vicenda da Concita de Gregorio, Marrazzo ha finito per scatenare l’eterna diatriba tra Uomo e Donna, Maschio e Femmina, in cui ci si rinfaccia stancamente le stesse eterne lamentele, e anzi si finisce per rinfacciare quel che pochi minuti prima si era negato. La frase più incriminata e irritante è stata naturalmente quella su Natalie. Marrazzo, perché Natalie? Perché “I transessuali sono donne all’ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria.”

Apriti cielo. Laddove nulla è più umiliante dell’allusione alla capacità di accudimento straordinaria del trasessuale. A rivelare che sopra le gambe e il sesso caprini del satiro si posano sempre il cuore e la testa umane di un ragazzino, un uomo bisognoso di affetto.

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio. Che vuol dire: confessa, hai anche tu di questi strambi desideri? E dietro questa muta domanda si celano le vecchie teorie sulle differenze tra sessualità maschile e femminile. Le pubblicazioni su questo argomento sono sempre state non frequentissime e più fondate su teorie che su dati. Per molti evoluzionisti darwiniani la femmina umana sarebbe più portata a investire su relazioni stabili e per questo cerca di incastrare, pardon di attirare il maschio in un patto di accudimento prolungato della prole. Insomma, la femmina per massimizzare la probabilità di diffondere i propri geni punterebbe sempre in qualche modo al matrimonio o ai suoi surrogati. Invece il maschio punterebbe alla fecondazione a pioggia del massimo numero di femmine possibile del pollaio, disinteressandosi dell’accudimento e delle relazioni stabili. Di qui l’eterna guerra dei sessi. Una delle ultime versioni di questa vecchia teoria la troviamo nelle opere del popolare darwinista Richard Dawkins nel suo (molto) divulgativo “Il gene egoista” (1976).

In un articolo del 1975 Gunter Schmidt notava che sebbene la ragazze mostrino comportamenti sessuali differenti rispetto ai maschi (minore interesse per esperienze sessuali al fuori di relazioni affettive, minore frustrazione se astinenti e non innamorate, significativo aumento della disponibilità sessuale se impegnate in una relazione affettiva), questi modelli non sembravano però legati a modelli innati controllati dall’evoluzione, ma a modelli culturali.

Schmidt si inseriva in un filone di emancipazione della donna basato sull’assenza di differenze. Donne quindi altrettanto ingrifate che i maschi. In questo caso, quindi, la risposta del Maschio colto con le mani in fallo non può che essere: Donna, che vuoi? Il mio destino è il tuo, e finora solo la tua debolezza sociale ed economica ti ha distolto dalle gioie del sesso mercenario. Come si sa, anche le donne scoprono il turismo sessuale e i paesi esotici si popolano di sfaccendate occidentali in cerca di amore e di accudimento.

Tuttavia, accanto al filone dell’eguaglianza c’è anche quello della differenza. L’emancipazione femminile si nutre anche della differenza, e finisce quindi per far propri gli argomenti di Dawkins: effettivamente le donne sarebbero meno interessate al sesso -anzi, alcune sostengono: per niente, siam tutte di legno- e su questo devono costruire la loro emancipazione. Di conseguenza, la caduta di Marrazzo diventa segno della difficoltà maschile a entrare in contatto con il Femminile. Abbiamo aperto una porticina e ancora una volta siamo entrati in un paesaggio popolato di archetipi: il Maschile, il Femminile. Ma è sempre il paesaggio delle nostre ferite.

E anche nel campo tradizionalista vagabondano gli stessi archetipi mitici: la sottomissione della donna è stata teorizzata sia argomentando una minore che una maggiore propensione al sesso delle donne stesse.

Un possibile compromesso è quello proposto da quattro canadesi, Wentland, Herold, Desmarais e Milhausen (2009), i quali propongono che effettivamente, accanto alle donne romantiche e poco interessate al sesso ludico e casuale, esiste una sottogruppo di donne satirescamente ingrifiate come e più degli uomini, le “highly sexual women”, capacissime di tutte le acrobazione del sesso casuale e ludico nei luoghi dedicati, virtuali e non (spiacente per chi ultimamente me lo chiede troppo spesso: non ho ancora potuto apprendere dove i 4 canadesi abbiano reclutato il loro campione di “highly sexual women”; cercatevele da soli).

Ma non basta. Wentland e colleghi notano anche che, al contrario di quanto atteso, gli uomini cercano le coccole mentre le donne, o alcune di loro, vogliono il sesso. E infatti Marrazzo ha parlato di accudimento, non di sesso.

E tu, che ne pensi? Chiede la Donna al Maschio. La risposta migliore è che in fondo sono fatti di Marrazzo e che il buon senso suggerisce che la “capacità di accudimento” dipende non tanto dal Transessuale, dalla Donna o dal Maschio ma, molto più probabilmente, dai 5000 euro di parcella. E ci mancava che per quella cifra il servizio non prevedesse i guanti bianchi (Tutto questo non depone a favore del buon senso di Marrazzo, donna! Cosa c’entrano il maschio e l’uomo e l’emancipazione e l’accudimento e compagnia cantante?)

E, infine, dopo che la Scienza e la Ricerca ci hanno dimostrato l’esistenza delle donne arrapate, ovvero “highly sexual women” (che consolazione!) attendiamo anche la conferma scientifica dell’esistenza di uomini poco interessati al sesso (“lowly sexual men”? Suona molto scientifico e anglo-sassone). Per la scoperta dell’acqua calda attendiamo il prossimo giro.

Dawkins, R. (1976).  The Selfish Gene. Oxford, Oxford University Press. Tr. italiana Il Gene Egoista. Milano, Mondadori, 1992.

Schmidt, G. (1975). Male-female differences in sexual arousal and behavior during and after exposure to sexually explicit stimuli. Archives of Sexual Behavior, 4, 353-365.

Wentland, J. J., Herold, E. S., Desmarais, S., & Milhausen, R. R. (2009). Differentiating highly sexual women from less sexual women. Canadian Journal of Human Sexuality, 18, 169-182.

Mindfulness o Detached Mindfulness? Questo è il problema.

DETACHED MINDFULNESS: differenze con il concetto di Mindfulness e impianto teorico

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Nel panorama delle psicoterapie cognitive di terza ondata il concetto di mindfulness ha certamente assunto il ruolo di principale protagonista, elemento di riferimento intorno al quale ruotano tutte le molteplici varietà psicoterapeutiche di questi ultimi anni. Altri articoli si sono concentrati sul descrivere nel dettaglio il concetto di mindfulness e di mindfulness based therapy (MBT, Segal, Williams & Teasdale, 2006). Mi limito a riprendere brevemente la definizione di mindfulness come esercizio meditativo, una pratica di allenamento a una forma di attenzione consapevole, intenzionale, non-giudicante, nel momento presente.

Il potente ingresso nel mondo scientifico di questo complesso concetto filosofico/religioso  di sapore orientale ha generato molti punti di vista, anche all’interno dello schieramento di scienziati che si riconoscono entro il flusso delle terapie di terza ondata. Si sono generati negli ultimi anni due schieramenti: i radicalisti e gli integrazionisti. I radicalisti sono i puristi sostenitori di protocolli MBT dove la mindfulness equivale alla componente nucleare del processo di cura, se non addirittura l’unica. Gli integrazionisti, tra tutti Steven Hayes e Marsha Linehan, attribuiscono alla mindfulness un ruolo importante ma non sufficiente e forse nemmeno il più rilevante. La mindfulness per gli integrazionisti non garantisce da sola il processo di cura.

All’interno di questa diatriba c’è stato anche spazio per nuove prese di posizione. Tra tutte spicca la posizione di Adrian Wells e della sua Metacognitive Therapy (MCT, Wells, 2008), che rispetto alla mindfulness fa una scelta diversa: la prende, la modifica in linea con il pensiero teorico metacognitivo, la riadatta in una nuova versione all’interno dell’intervento con il nome di detached mindfulness. Questa manovra clinica e scientifica ha suscitato varie reazioni. I radicalisti hanno espresso moti di indignazione condito di velate accuse di appropriazione indebita di idee (la chiama diversamente ma in realtà è solo mindfulness). Gli integrazionisti invece sembrano strizzare l’occhio a questa scelta, perché in linea con l’idea di non considerare la mindfulness come unico perno del percorso di cura. Wells non si cala pienamente in queste diatribe e prende le distanze da entrambe le fazioni ma anche dallo stesso concetto di terapia cognitiva di terza ondata a cui sembra sostenere di non appartenere.

Ma cerchiamo di comprendere le differenze tra mindfulness e detached minsfulness e proviamo a distinguere diversi livelli di analisi. Per non annoiare i lettori non mi addentrerò nell’esposizione delle tecniche di mindfulness ben descritte in molti altri articoli ma cercherò di focalizzare l’attenzione sugli elementi che distinguono la versione della terapia metacognitiva.

 

Differenze nel substrato teorico.

Già il punto di partenza teorico è differente. La DM nasce su base teorica e non esperienziale, la cornice di riferimento è la S-REF Theory (Wells & Matthews) e successivamente la teoria metacognitiva dei disturbi emozionali. All’interno di quest’ultima la DM viene descritta come una modalità di elaborazione delle informazioni antitetica alla CAS (Cognitive-Attentional Syndrome). La CAS costituisce il processo psicopatologico nucleare della teoria metacognitiva fondato su un uso costante e percepito come incontrollabile di attenzione focalizzata sulla minaccia, processazione concettuale perseverante (nella forma di rimuginio o ruminazione) e comportamenti di controllo o evitamento. La mindfulness è la trasposizione teorica e clinica di una filosofia che per prima nasce fuori dai parametri scientifici ma dentro la pratica quotidiana. Non esiste una verifica empirica della teoria della mente e della teoria clinica della mindfulness e delle MBT, mentre esistono molti lavori scientifici sulla sua efficacia e sul processo di cambiamento che produce.

 

Differenze nella definizione.

Imparare una modalità DM sarebbe quindi competitiva e in contrasto al mantenimento della CAS.  Da qui le cinque caratteristiche fondamentali della DM per Adrian Wells:

  • Metaconsapevolezza: consapevolezza del flusso automatico di pensieri non intenzionali e di sensazioni che scorrono nella coscienza.
  • Decentramento cognitivo: comprensione degli eventi mentali e corporei come eventi e non come fatti che dicono qualcosa di reale sul mondo, sugli altri o su di sé.
  • Decentramento attentivo: attenzione  flessibile e ampia, priva di ancoraggio o di orientamento volontario a un contenuto.
  • Basso processamento concettuale: riduzione dell’attribuzione di significati agli eventi osservati, eliminate etichette verbali o riflessioni o del dialogo con sé stessi.
  • Scarsa tendenza verso obiettivi: il raggiungimento di un obiettivo (es: evitare una minaccia) non viene percepito come rilevante.

La differenza con la mindfulness di tipo classico non risulta immediata ma traspare già nel significato di queste componenti. I primi due punti sono generalmente simili e condivisi da entrambe le forme. Il terzo punto (decentramento attentivo) segna invece il divario più ampio. La DM non prevede un allenamento attentivo, il cosidetto processo di “accorgersi di dove siamo con la mente e riportare il pensiero al respiro o ad altre forme di ancoraggio”, nella DM non si riporta niente da nessuna parte, si osserva poiché già riportare è una forma di evitamento che da più salienza a ciò da cui ci si allontana. Non c’è, per esempio, la concettualizzazione di “rimanere sul momento presente”. Se la mente va sul futuro, la DM sta con la mente nel futuro in modo distaccato e non concettuale. Se la mente progetta, l’individuo non solo osserva la progettazione, la riconosce come tale ma non ritorna al momento presente, resta a osservare cercando di non intervenire con volizione per modificare attivamente cosa accade nella mente.  Il quarto punto sottolinea la necessità di abbandonare meta-valutazioni durante la modalità DM, tutto ciò che accade va bene e non è necessario fermarsi a riconoscere se la nostra mente ha emesso un giudizio o una considerazione o una paura, la tendenza è quella di ridurre al minimo il nostro intervento dentro il flusso della coscienza. Allo stesso modo il quinto punto sottolinea l’assenza di obiettivi, persino l’obiettivo di allenarsi al momento presente, alle sensazioni corporee, al contatto con la realtà  viene abolito, sono tutte cose che possono riattivare la CAS e ostacolare la pura passiva contemplazione.

In questo modo la DM assume forme ancora più puriste ed estreme rispetto la classica mindfulness. Certo, resta il dubbio che questi elementi non siano realmente sufficienti a fondare un costrutto e una tecnica significativamente diversi, piuttosto che un diverso uso dello stesso processo.  Probabilmente si entra nell’influsso di dinamiche di mercato e di politica scientifica, dove per dare risalto a un punto di vista differente è necessario marchiarlo di una definizione sintetica e riconoscibile.

 

Differenza di impatto clinico

Per le MBT la mindfulness rappresenta il motore centrale del cambiamento, mentre per la terapia metacognitiva la DM è una base utile per garantire l’efficacia di tutte le altre strategie adottate, un componente, se vogliamo una base fondamentale, ma non sufficiente a sciogliere la concettualizzazione psicopatologica del caso.

L’obiettivo della DM è creare uno spazio in cui le componenti della CAS (ricordiamo: attenzione sulla minaccia, necessità di un obiettivo, rimuginio o ruminazione) sono finalmente bloccate e ferme. In un secondo momento, attraverso altre tecniche, il terapeuta può guidare lo sviluppo nuovi piani di elaborazione delle informazioni. La mindfulness mira a sostenere una “modalità essere” come nucleo del benessere psicologico. Il fine della DM, questo punto mi pare importante, non è quello di promuovere una “modalità essere” come soluzione costante e definitiva, ma creare quello spazio di controllo (incremento di controllo esecutivo)  in cui è possibile inserire nuove “modalità fare”, più variegate e adatte a diverse situazioni contestuali e soprattutto diverse dalla CAS.

 

Differenze pratiche

Infine esistono anche differenze pragmatiche nell’implementazione della tecnica. Nel concreto della sessione terapeutica la DM non viene inserita come una pratica meditativa. Anzi, l’uso della DM ricorda maggiormente le pratiche di sperimentazione comportamentale. Inizialmente il paziente fa esperienza di DM in seduta con brevi esercizi esperienziali guidati dal terapeuta. Questi ultimi sono sostanzialmente composti da immagini evocative e da stimoli presentati al paziente assieme a istruzioni che descrivano e guidino l’assunzione di una prospettiva DM. Per esempio, Wells recupera l’uso delle associazioni libere di idee, ripete al paziente una serie di parole di uso comune, istruendolo contemporaneamente a osservare come le idee si associano tra loro in catene di pensieri e immagini, facendo “un passo indietro” rispetto all’essere attivamente coinvolti in quest’attività.  La pratica a casa viene suggerita, anch’essa solo per pochi minuti ogni giorno e come allenamento preliminare più che come un esercizio costante e continuo nel tempo. In una seconda fase l’esercizio di DM viene riportato su contenuti che (1) assumono valenza emotiva negativa e (2) dipendono dalla formulazione del caso specifica del paziente. La pratica della mindfulness nelle MBT è più lunga e impegnativa e certamente meno esplicita della DM. Al paziente viene presentata una descrizione del razionale iniziale ma successivamente l’impronta è sulla pratica e sulla riflessione riguardo la pratica. D’altra parte è anche vero che la mindfulness ha il vantaggio di poter trattare agevolmente molte persone attraverso percorsi terapeutici di gruppo mentre la DM, allo stato dell’arte attuale della terapia metacognitiva, non prevede applicazioni di gruppo anche per la sua più accentuata focalizzazione sul funzionamento del singolo paziente.

L’ultima differenza potrebbe guardare l’efficacia terapeutica dei due approcci, ma riguardo a quest’ultima i dati sono ancora pochi, incerti e soprattutto manca un confronto diretto tra terapie basate su mindfulness e terapia metacognitiva. Probabilmente potremmo valutare meglio tra qualche anno.

 

Bibliografia

Segal Z.V., Williams J.M., Teasdale J.D. (2006). Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Bollati Boringhieri: Torino.

Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press.

Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.

La terapia metacognitiva di Wells: pregi e considerazioni critiche

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Si pensa di conoscere bene, di aver veramente compreso qualcosa: una persona, una teoria o una terapia. E invece non è così. Un giorno ci si rende conto che si è fatta conoscenza solo di un aspetto introduttivo, di una sala di rappresentanza, mentre invece nel tinello ci aspettano sorprese.

La terapia e teoria metacognitiva di Adrian Wells (2009) si presentano come una riforma moderata del modello cognitivo standard. Si parla di credenze, sia pure metacognitive. C’è un questionario autosomministrato, il Metacognition Questionnaire, che valuta contenuti cognitivi. Per la precisione metacognitivi. E quindi si conclude che Wells effettivamente rimane nel campo cognitivo standard, che si tratta di un tipo da seconda ondata e mezzo.

Poi però si inizia a studiare a fondo il suo modello, che lui chiama un po’ pomposamente il Self-Regulatory Executive Function (S-REF). Si inizia studiare la sua ipotesi di processo psicopatologico, il cognitive attentional sindrome (CAS). E infine si iniziano a studiare attentamente le sue tecniche terapeutiche, e si comprende che siamo in presenza di un modello massicciamente neo-comportamentale e processuale di terza ondata che col vecchio cognitivismo standard ha poco a che fare. E così improvvisamente ci si rende conto che con quei colleghi wellsiani con cui credevi di condividere un linguaggio finora hai spesso intrattenuto conversazioni comicamente ricche di equivoci. Intendiamoci: non è che non ci si è capiti per niente, ma meno di quel che si credeva.

Il modello S-REF di Wells descrive la mente secondo tre livelli. Siamo quindi già fuori dal modello profondamente unitario della mente e della terapia di quello che io chiamerei il “computazionalismo clinico semplificato” di Ellis e Beck. Come si sa, in quel modello la mente è omogenea e gli stati mentali sono controllabili in maniera abbastanza efficiente dalla elaborazione consapevole cosciente.

Già per questo lo S-REF appartiene pienamente ai modelli cognitivi di terza ondata, che tendono a sostituire questo modello unitario con teorie multilivello, in cui l’elaborazione cosciente influenza e in qualche modo regola gli stati mentali complessi. Attenzione: regola si, ma malamente. Nel senso che si tratta di un’azione regolativa non solo poco efficiente, ma che a volte addirittura disregola e finisce per inquinare e gettare sabbia negli ingranaggi dell’elaborazione non cosciente (o non online, per usare un termine alla moda).

Nel modello S-REF di Wells ci sono tre livelli: 1) primo livello, in cui sono presenti processi cognitivi rapidi e irriflessi, che si sviluppano abbastanza caoticamente tutti assieme (in gergo tecnico: sono disposti in parallelo), che producono valutazioni emotive globali confuse e genericamente negative o positive, o a un livello leggermente più sofisticato paura, rabbia, gioia e poco altro, processi che quindi si dicono metaforicamente “down” ovvero di basso livello, che “poppano” pensieri intrusivi in automatico al livello cosciente o in altri casi meno intrusivi e automatici si presentano in forma di stati emotivi, cioè percezioni vivide immediatamente legate all’azione (action readiness) e proceduralmente confuse e opache (il soggetto non sa bene perché ha una certa emozione: sa di aver paura ma non sa sempre ed esattamente bene di che ha paura); 2) secondo livello, ovvero elaborazione cosciente online con i pensieri disposti uno dopo l’altro e con un certo ordine logico (insomma, in gergo tecnico sono disposti sequenzialmente), un’elaborazione trasparente e dettagliata (il soggetto sa abbastanza bene perché pensa una certa cosa); 3) terzo livello, conoscenza depositata nella memoria a lungo termine per lo più in forma meta-cognitiva.

Finora questo modello S-REF mi era parso inutilmente complesso (e perciò pomposo e prolisso) rispetto a una terapia cognitiva delle metacredenze che mi pareva molto più semplice. Troppe chiacchiere per una terapia cognitiva che mi pareva rimanere al fondo beckiana: credenze disfunzionali, critica e ristrutturazione. Unica novità, qui si trattava di metacredenze.

Non era così. La complessità del modello generava il tratto originale di Wells, che è questa. L’originalità di Wells -che lo rende abbastanza diverso da altri riformatori (come per esempio Young)- è che per lui il problema non è affatto la  minore controllabilità del livello emotivo basso, ma nei livelli superiori e soprattutto nel livello metacognitivo depositato nella memoria e lungo termine. Le credenze metacognitive, infatti, per Wells svolgono una funzione utile solo se usate con parsimonia, anzi con estrema parsimonia. Se si esagera, invece di regolare disregolano perché finiscono per accentuare in maniera eccessiva e dannosa l’attività consapevole online. Per Wells l’attività consapevole online è utile -o meglio è funzionale- solo se usata con semplicità, pragmaticità e parsimoniosa prudenza. Se si esagera (e basta poco per esagerare) sui finisce nello stato disfunzionale e patologico cosiddetto del rimuginio (tipico degli stati ansiosi) o della ruminazione (tipico degli stati depressivi).

Rimuginio e ruminazione una volta stabiliti tendono a rigenerarsi spontaneamente, in quanto che il paziente spontaneamente tenta di gestirli “pensando”, cioè moltiplicando l’attività di pensiero consapevole online. Ma per Wells questo è strutturalmente patologico, perché l’attività online è utile solo se usata con parsimonia, forse perfino con avarizia. Esagerando si creano loop disfunzionali: appunto rimuginio e ruminazione.

Quindi per Wells gli “emotional disorders” non sono “emotional” e la sofferenza emotiva in realtà non è mai emotiva ma sempre ruminativa e metacognitiva.

Fin qui sembrerebbe esserci un certo livello di compatibilità con il cognitivismo standard. In Wells troviamo cose che in qualche modo somigliano ai circoli viziosi autorigeneranti e alle credenze patologiche. Ma in realtà non è così. Per Wells il problema non è solo nelle credenze come per Beck, ma nel processo disfunzionale stesso che generano. Per questo Wells parla di cognitive attentional sindrome (CAS). Per Wells la sofferenza emotiva di tipo depressivo e ansiosa è generata da un errore non tanto di credenze, ma di stile cognitivo. Un eccesso di attenzione e di uso del pensiero consapevole. Il problema non è tanto la credenza negativa, ma lo star lì a infinitamente ribadirsela in testa. Insomma, il rimuginio come processo e non come credenza. Questa differenza parziale nel modello teorico diventa poi abissale nel modello terapeutico.

Infatti la terapia metacognitiva di Wells, fedele ai propri presupposti, concorda col paziente un lavoro cognitivo ancora una volta parsimonioso e limitato alle sole metacognizioni, Le cognizioni beckiane del modello standard su di sè, il mondo e gli altri sono considerate del tutto ininfluenti, e si limitano ad essere il contenuto neutro del processo disfunzionale generato dall’eccesso di attività consapevole online e dalle metacognizioni depositate nella memoria a lungo termine (che così diventano le uniche credenze davvero attive; tutte le altre sono dei fantocci vuoti).

Ma perché per Wells questo lavoro terapeutico sulle (meta) credenze deve essere necessariamente parsimonioso? La risposta è semplice e credo che i lettori ci siano già arrivati da soli. Infatti, essendo l’analisi critica delle (meta) credenze fondamentalmente un lavoro di consapevolezza online, esso rischia di diventare facilmente a sua volta un ennesimo rimuginare insensato. Esso quindi va limitato a quel minimo indispensabile per iniziare a far capire al paziente che pensare bene significa pensare poco, anzi pochissimo. Se invece per capire questo ci mettiamo troppo tempo, impiegando troppe energie mentali (e terapeutiche, se siamo in seduta) ecco che abbiamo già iniziato a pensare troppo, cioè a rimuginare e/o a ruminare.

E in cosa consiste questo lavoro parsimonioso? Qui Wells è costretto in parte a contraddirsi ricorrendo all’armamentario del vecchio Beck. Il lavoro è quello classico di questioning e challenging. Il terapeuta esorta il paziente a non dare per scontate ma ad attivamente dimostrare le sue credenze metacognitive, che per semplicità qui riduco a due (ma non sono molte di più): che il rimuginio/ruminazione è utile (credenza positiva) e che il rimuginio (ruminazione è incontrollabile (credenza negativa).

Ma per Wells, lo ripeto, Il challenging beckiano va eseguito in stile minimale, non più dello stretto indispensabile. Basta sfidare il paziente a dimostrarci che effettivamente lui non può fare altro che rimuginare (vale qui la regola d’oro di Beck: non sono io che devo dimostrare al paziente che la sua credenza a sbagliata, deve essere lui che mi dimostra che è giusta). Non di più. Una volta che il paziente non riesce a dimostrarci che effettivamente lui non passa tutto il suo tempo a rimuginare e basta, si passa a una fase pienamente neocomportamentale (e quindi di terza ondata), cioè di un “comportamentismo mentale” in cui i pensieri non sono più concepiti come pensieri dotati di scopi e portatori di credenze, ma puri eventi mentali privi di senso, da desemantizzare e con i quali esercitarci a non averli!

Il ventaglio di tecniche proposte di Wells è abbastanza ampio, anche se non so quanto originale dato che non sono di formazione comportamentale. Si parla di “worry/rumination postponement” (decidere col paziente un tempo fisso quotidiano per rimuginare), “attention training tecqnique” (un elenco di tecniche di gestione dell’attenzione molto interessante per un non comportamentista come me, anche se non saprei come proporla a freddo al paziente; è lo stesso problema che ho con la mindfulnes, non ci riesco proprio a dire al paziente di punto in bianco “e adesso meditiamo!”); una forma di mindfulness chiamata “detached mindfulness” (non c’è spazio per descriverla qui, basti dire che mi pare mirata a pensare non rimuginativamente); “situational attention refocusing” (anche questo lo descriverei in un altro post); “targeting meta-emotions” (argomento che devo approfondire; comunque per ora basti dire che le meta-emozioni sembrano essere ancora una volta l’esito emotivo dell’uso eccessivo e disfunzionale delle metacognizioni, il passaggio circolare dalla conoscenza depositata in memoria al livello di base inconsapevole); “developing new plans for processing” (in pratica una gestione non metacognitiva degli stati di sofferenza, in cui l’elaborazione metacognitiva disfunzionale e mantenuta al minimo e non volizionalmente accentuata verso il disastro).

Insomma la terapia di Wells consiste in due passi: critica minimalista (e poco rimuginativa) delle metacognizioni e addestramento neo-comportamntale alla gestione metacognitivamente parsimoniosa delle metacognizioni stesse. Gestione quindi in in qualche modo “accettante” alla Hayes, anche se Wells è abbastanza diffidente verso la ACT di Hayes.

Una considerazione critica: la concentrazione estrema di Wells sulla metacognizione produce un modello terapeutico particolarmente distaccato e anemotivo, per non dire anaffettivo. Il totale disinteresse verso le cognizioni verso sé, gli altri e il mondo del paziente accentua all’estremo la tendenza alla gestione pragmatica delle emozioni tipica della terapia cognitiva (una nota personale: mi ha sempre colpito come la terapia cognitiva combini uno stile accogliente e rassicurante con  na modalità di gestione in fondo anaffettiva delle emozioni).

In tal modo il mondo personale del paziente può essere totalmente trascurato e la declinazione soggettiva delle credenze può essere del tutto non esplorata. Lo so, qui si parla di quei famigerati significati personali cari alla corrente costruttivista e che non a tutti piacciono, ovvero quelle formulazioni per cui il paziente ci dice che la paura di rimanere bloccato in ascensore è anche la paura di essere abbandonato in un luogo soffocante e senza persone che lo rassicurino. Ne riparleremo in un altro post. Per ora basti dire che qui forse è il punto di massima divaricazione con il modello di Hayes: nel mondo privo di significati di Wells i “valori” alla Hayes non hanno senso.

Questo tratto anaffettivo e quasi desertico (un mondo senza significati, ripeto) della terapia metacognitiva di Wells porta alla stupefacente dichiarazione (sempre di Wells) che questa terapia sarebbe eseguibile in un numero di sedute ancora minore del famigerato numero di 12 sedute che costituisce il totem del trattamento cognitivo (e il bersaglio delle ironie di terapeuti di altro orientamento). Wells parla addirittura di 6-8 sedute. Dopo aver letto il suo modello comprendo bene che un simile trattamento iper-formalizzato, che propone al paziente uno stringente addestramento (quasi a rotta di collo, però)  ad attutire il più possibile la tendenza a rimuginare metacognitivamente è possibile.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi: possibile con chi? Con pazienti selezionati? Magari in trial psicoterapeutici eseguiti in università da giovani ricercatori ammaestrati a somministrare questa terapia a quei pazienti selezionati, cioè che resistono e non mollano in seconda terza seduta? Per carità, c’è del giusto e del buono in tutto questo, soprattutto rispetto al terapeuta medio che invece tende a proporre troppe volte solo se stesso, la sua esperienza e -peggio- le sue idiosincrasie come metodo.

Insomma, qui però si esagera dall’altra parte (ma forse questo oscillare tra opposte esagerazioni è un inevitabile destino umano).

Naturalmente a questo punto sarebbe corretto studiare a fondo la letteratura dei trial della terapia di Wells, letteratura abbondante e sicuramente rigorosa. Ma qui il problema non è certo Wells. I limiti di questi trial trascendono il lavoro di Wells. Ci si può quindi chiedere, in attesa di andare a pazientemente controllare i dati forniti da Wells, quanti drop-out si subiscano nei trial psicoterapeutici organizzati per la terapia metacognitiva. Ci si può chiedere come siano gestiti questi drop-out, cosa si raccontino nelle riunioni cliniche i membri dello staff. Stupefacenti indici di efficacia spesso riposano su troppo ampi bacini di utenza tra i quali sono stati pescati i non troppi pazienti davvero adatti alle terapie proposte (gli studi più onesti riportano queste cifre e non sono incoraggianti). A volte ho visto in questi studi di efficacia che -è vero- la maggioranza dei pazienti che hanno finito il trattamento è migliorata significativamente, ma -è altrettanto vero- che solo una minoranza di quelli che hanno iniziato hanno poi finito. Ho voglia di rispondere: e ci mancava pure che quelli che hanno finito poi non stessero meglio!

Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York: Guilford Press.

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