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Il controllo mentale nei disturbi dell’umore


 

La maggior parte delle teorie cognitive pongono alla base dei disturbi dell’umore la presenza di schemi cognitivi negativi attraverso cui le persone interpretano e attribuiscono significati agli eventi.

Secondo Wenzlaff e Bates in soggetti con depressione maggiore tali schemi negativi, caratteristici delle fasi depressive, vengono soppressi attivamente in un processo di controllo mentale quando i sintomi depressivi sono in remissione. Per soppressione del pensiero si fa riferimento a un processo che consiste nel provare a smettere di pensare a determinati contenuti mentali (Wegner 1989).

Secondo la teoria del controllo mentale (Wegner & Wenzlaff, 1996) vi sono due sistemi che interagiscono tra loro: un sistema definito sistema operativo intenzionale che cerca di promuovere stati emotivi desiderabili e di distogliere l’attenzione da materiale indesiderato, e un sistema definito di monitoraggio che si occupa di cercare contenuti mentali indesiderati che segnalino il fallimento del sistema operativo.

Quando le risorse cognitive diminuiscono il sistema operativo si indebolisce e prende il sopravvento il sistema di monitoraggio che ha l’effetto paradossale di portare a consapevolezza l’oggetto della propria ricerca, ovvero, i pensieri negativi e gli stati mentali non desiderati che il sistema operativo cercava di sopprimere.

Il Controllo mentale funziona quindi contro se stesso, portando alla mente proprio i contenuti mentali indesiderati.

Il funzionamento di tale meccanismo è stato ampiamente studiato in soggetti affetti da depressione che risultano piuttosto consapevoli dei loro tentativi di sopprimere pensieri negativi per mantenere un umore desiderabile o rimediare a un umore non desiderabile. Ancora poco invece si conosce circa il ruolo della soppressione del pensiero nei pazienti con disturbo bipolare.

Uno studio di Miklovitz et al. (2010) si è proposto di verificare se anche i soggetti affetti da disturbo bipolare tendono a sopprimere i pensieri negativi, e se tale tendenza si estende anche a pensieri “iperpositivi” per verificare se anche la fase maniacale possa essere il risultato di un controllo mentale inefficace questa volta su pensieri eccessivamente positivi. Si è così visto che quando un carico cognitivo interferisce con il controllo mentale i pazienti bipolari, come i depressi, sono più facilmente soggetti a un bias cognitivo negativo, rispetto alla maggior parte delle persone, sono cioè più soggetti a interpretare e giudicare gli eventi e le situazioni in senso pessimistico. Il bias negativo osservato potrebbe quindi essere il risultato di un controllo mentale inefficace, anche se i risultati sembrano in parte dipendere dalla presenza di alcuni sintomi depressivi. Non è semplice infatti attuare studi su soggetti bipolari in quanto difficilmente la loro sintomatologia, soprattutto depressiva, si trova in completa remissione. Rispetto alla soppressione di pensieri iperpositivi si osserva che, sebbene i soggetti bipolari riferiscano un maggior uso delle soppressione del pensiero anche in quest’ambito non vi sono dati significativi che confermino tale fenomeno.

Miklowitz et al. suggeriscono che ricerche future dovrebbero esaminare se la soppressione di pensieri negativi tra soggetti con disturbo bipolare sia effettivamente dovuta a un inefficace controllo mentale o è piuttosto attribuibile a un più generale bias attentivo o mnestico.

 

Bibliografia

Miklowitz, D.J., Alatiq, Y., Geddes, J.R., Goodwin, G.M., Williams, J.M. (2010). Thought suppression in patients with bipolar disorder. Journal of abnormal psychology, 119 (2), 355-365.

Wegner, D.M. (1994). Ironic processes of mental control. Psychological Review, 101, 34–52.

Wenzlaff, R.M., & Bates, D.E. (1998). Unmasking a cognitive vulnerability to depression: How lapses in mental control reveal depressive thinking. Journal of Personality and Social Psychology, 75, 1559–1571.

Tra default e odio, le emozioni politiche

 

Questo pasticcio del default americano è un triste enigma economico troppo complicato per noi, uomini e donne qualunque. E sta anche diventando un pasticcio serio. Ieri l’accordo sembrava trovato, ma poi i politici dello stesso partito di Obama si sono risentiti con il presidente, le agenzie di rating hanno iniziato a borbottare e il ballo delle borse è ripartito. 15 miliardi bruciati. Possibile? E in che senso? Già il denaro è un’entità astratta, ma il denaro delle borse mi pare particolarmente impalpabile.

E le agenzie di rating, poi. Ma che cosa sono queste agenzie? Altra entità incomprensibile per il non iniziato alla scienza triste, l’economia. Di queste agenzie so che sono tre, come le Parche che controllavano il destino degli uomini, che sono statunitensi e non greche (ma la Grecia è però un ingrediente di questo pasticcio economico), e che una di loro ha un doppio nome dal significato arcano e allusivo: “Standard & Poor’s”, con quel “Poor” là in mezzo che mi pare un malaugurio e che è incatenato a quel misterioso “Standard” che sembra dettare un modello o forse una legge. Ma quale legge? La legge del destino? O della povertà? Boh. Ah, so anche che ultimamente i cinesi hanno fatto la loro agenzia di rating che ha cominciato a sua volta a sfornare voti di buona e cattiva condotta.

Se la situazione non stesse diventando nervosamente seria, ci sarebbe materia per giocare uno degli infantili Risiko fatti di nulla e di parole, guerre mondiali combattute al bar, troni di spade e di dollari disputati nelle assemblee degli studenti universitari e liceali, con schiere di anti- e filo-americani fieramente avverse. Gli anti- naturalmente vantano la superiorità numerica, ma per fortuna manca quell’astratto furore che marcava gli anni’70. Tutto è più floscio oggi, per fortuna.

Parliamo un po’ di questo Risiko che si combatte nelle conversazioni. Imbarazzanti litigi, in cui si cita alla rinfusa un po’ di tutto, perfino ancora il vecchio Marx magari accanto a qualcuno che avendo orecchiato di liberismo economico tira in ballo von Mises.

Si tratta di vera e propria psicologia politica. Non è un modo di dire, è una scienza che va affermandosi, con le sue riviste, come ad esempio Political Psychology. Una scienza che già ha avuto il suo cambio di paradigma, da cognitivo a cognitivo-emozionale (Marcus, 2003). Insomma, anche qui si prende atto che l’azione umana non è un calcolo ponderato, ma agisce per scorciatoie che privilegiano piuttosto la rapidità delle decisioni, l’economicità, perfino la ripetitività. E nelle emozioni politiche gioca un ruolo fondamentale non tanto l’interesse, lo scopo razionale, quanto il buon vecchio senso di appartenenza, la necessità di riconoscersi in un gruppo in cui si condivida un linguaggio e si possano contare su un ventaglio prevedibili di azioni e reazioni da parte degli altri.

Soprattutto, un gruppo in cui ci si possa definire in rapporto a un nemico, o almeno un avversario. Tutto questo può suonare estraneo in una cultura democratica, ma questo è un equivoco da dissipare. La democrazia o -a essere più precisi- lo Stato di Diritto moderno (che può esserci anche democrazia senza diritti, come nell’antica Grecia) non si fonda sulla comprensione reciproca, ma sulla convenzione di non procedere all’eliminazione fisica del nemico. Democrazia significa che la lotta si effettua in termini regolati e per via puramente retorica, per persuasione senza coercizione. All’interno di queste regole, vige la più pura intolleranza e incomprensione reciproca. Ci si definisce in termini sostanzialmente manichei di puro odio, in fondo avendo ben chiaro soprattutto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Su quel che si è o che si vuole, le idee sono molto più confuse.

L’odio è l’emozione prevalente della politica (e specialmente dei regimi democratici, che da sempre vanno incontro a un caratteristico surriscaldamento politico, come aveva già notato Tucidide), uno stato emotivo prolungato il cui scopo è la netta differenziazione di se stessi rispetto all’avversario/nemico le cui idee sono considerate sempre e comunque considerate irricevibili (Ben-Zeev, 1992). Certo, in democrazia ci si mette d’accordo su certe regole: larghezza del campo, colpi più o meno proibiti, divieto dell’assalto fisico. Ma non certo sul superamento dell’odio stesso. Secondo Halperin, Canetti-Nisim e Hirsch-Hoefler (2009) questo odio non può essere ricondotto ad altre emozioni: la paura o la rabbia, ad esempio. L’odio non ha una funzione protettiva come queste due emozioni. Ma svolge una funzione definizionale. Definisce sé e il proprio gruppo in rapporto all’altro sentito come irrimediabilmente differente. Questa definizione di sé concorre a lenire l’angoscia esistenziale, incanala le decisioni in una narrazione della propria vita e del proprio gruppo almeno apparentemente coerente.

Si tratta di una ennesima versione della cosiddetta razionalità limitata di Herbert A. Simon (1997). Per Simon noi ragioniamo raramente prendendo in considerazione tutti gli elementi necessari per una decisione fondata. In realtà un smile grado di razionalità assoluta è impossibile, poiché ci costringerebbe a raccogliere una quantità immensa di informazioni davanti ad ogni decisione. Piuttosto, si preferisce imboccare scorciatoie, come quella che ci fa definire di un certo orientamento politico e soprattutto ci rende chiari a quale orientamento politico ci opponiamo (le emozioni negative danno sempre più soddisfazioni).

Allo stesso modo, un evento come il default americano spreme in noi emozioni di odio o di identificazione emotiva prima ancora che siano chiari i contorni concreti dell’evento. L’irritazione per l’egemonia culturale ed economica americana possono stimolare l’odio, mentre processi di identificazione possono innescare idee opposte. Questo naturalmente finché il default rimane un’idea astratta. Le cose possono cambiare e anche piuttosto rapidamente se oggi o nei prossimi giorni questo default si dovesse convertire in una crisi economica vera e non solo finanziaria come finora. In situazioni di emergenza, la mente mette da parte le scorciatoie emotive.

Ben-Zeev, A. (1992). Anger and hate. Journal of Social Philosophy, 2, 85–110.

Halperin, E., Canetti-Nisim, D., & Hirsch-Hoefler, S. (2009). The Central Role of Group-Based Hatred as an Emotional Antecedent of Political Intolerance: Evidence from Israel. Political Psychology, 30, 93-123.

Marcus, G. E. (2003). The psychology of emotion and politics. In D. O. Sears, L. Huddy, & R. Jervis (Eds.), Oxford Handbook of Political Psychology (pp. 182–220).New York:OxfordUniversity Press.

Simon, H. A. (1997). Models of Bounded Rationality, Volume I, II, III. The MIT Press,Cambridge,MA.

Molla il biscotto!

kid cookies © Paul Moore - Fotolia.comI bambini che riescono a resistere ai dolci potrebbero diventare adulti rispettosi della legge. Fermati! Non toccarlo! Siediti e sta’ calmo! Ascoltare questo tipo di esortazioni potrebbe determinare il futuro dei vostri bambini.

Un nuovo studio suggerisce che le persone che hanno mostrato meno autocontrollo da piccole una volta cresciute incorrerebbero più facilmente in pericoli per la salute, un numero maggiore di debiti e problemi legali nel corso della vita. L’idea che  la forza di volontà sia importante per il successo non è nuova. Già negli anni Sessanta Walter Mischel, psicologo della Columbia, ha studiato in un gruppo di bambini di 4 anni la capacità di resistere alla tentazione di assaggiare biscotti dimostrando che essi erano anche più bravi a scuola e con punteggi migliori nelle valutazioni. Venivano poi descritti dai genitori come più attenti, educati e intelligenti.

Incuriosita da questo risultato, la psicologa Terrie Moffitt della Duke e i suoi colleghi, ha condotto uno studio longitudinale per mettere alla prova l’ipotesti secondo la quale gli individui con più forza di volontà, che da bambini erano in grado di resistere alla tentazione di mangiare i biscotti, raggiungevano successi maggiori nella vita, rispetto a quelli che non ci riuscivano.

Il team internazionale ha monitorato nel corso del tempo circa 1000 bambini neozelandesi, nati tra il 1972 e il 1973, dall’età di 3 anni fino ai 30 e altri 500 gemelli eterozigoti inglesi, nati tra il 1994 e il 1995, dall’età di 4 ai 12 anni. I fattori presi in considerazione sono stati: l’autocontrollo, l’impulsività, la perseveranza nel raggiungimento di un obiettivo, il grado di disciplina e l’iperattività.

Paragonati al gemello più disciplinato, i bambini che avevano meno autocontrollo a 5 anni, a 12 con più probabilità avevano cominciato a fumare, andavano male a scuola e si comportavano più impulsivamente.

Sembrerebbe anche che questi problemi relativi alla condotta e ad un temperamento impulsivo, continuino anche per il resto della vita. I partecipanti ai due studi una volta cresciuti, basandosi su dati socioeconomici e il quoziente intellettivo, mostravano, a 30 anni, una forza di volontà minore e avevano un tasso più alto di problemi di salute (inerenti a peso, problemi polmonari e malattie, sessualmente trasmissibili). A 32, erano tre volte più dipendenti da tabacco, alcol e droghe pesanti o avevano commesso un crimine.

La dr.ssa Moffitt spiega che le persone non si categorizzano in base alla disciplina o alla sua assenza, ma  si collocano su uno spettro ed  è sempre possibile raggiungere un maggiore autocontrollo.

Insomma, i genitori con  bambini che non riuscano a resistere alla tentazione di un biscotto o di qualsiasi altro dolcetto, possono tirare un sospiro di sollievo e ricordare che l’autocontrollo e la disciplina si ottengono anche grazie all’apprendimento, all’educazione e al buon esempio di chi ci circonda.

 

http://www.pnas.org/content/108/7/2693

http://news.sciencemag.org/sciencenow/2011/01/dont-take-that-cookie.html?ref=hp

Come diventai paranoico: questo è un complotto (in teoria)!


E se un giorno desiderassi diventare paranoico, come potrei riuscirci? Quale percorso cognitivo dovrei seguire per costruirmi una credibile mentalità paranoica? Il nocciolo di questo modo di pensare è, come si sa, vedere e temere complotti dappertutto. Per fare questo, occorre nutrire delle buone teorie personali su cosa sono e come funzionano i complotti. Se lo conosci lo eviti. Vediamo come.

Gli elementi comuni delle teorie del complotto prevedono dei “potenti” che agiscono deliberatamente e sistematicamente per evitare che certi fatti diventino di pubblico dominio allo scopo di mantenere la propria posizione dominante. Il modo in cui queste cospirazioni vengono macchinate determina le tre tipologie in cui possono essere classificate:

Le cospirazioni ostruttive hanno lo scopo di impedire che qualche evento possa accadere. Un esempio potrebbe essere quello che vede la lobby del petrolio impegnata nella lotta alla diffusione del motore che funziona ad acqua.

Le cospirazioni oppressive riguardano le cospirazioni all’origine delle disuguaglianze sociali e delle privazioni di diritti politici. Sotto questa categoria rientrano le teorie riguardanti le tecnologie aliene di cui la CIA sarebbe in possesso ed utilizzate dal governo americano contro i propri cittadini, oppure la teoria secondo la quale il virus dell’HIV sarebbe stato creato in laboratorio e poi diffuso nelle comunità di “indesiderabili”.

Le cospirazioni ingannevoli, parenti strette delle teorie ostruttive, sono attuate per illudere che le cause alla base di problemi di ordine sociale, politico o economico siano diverse da quelle che in realtà sono. Un tragico esempio di questa tipologia è stato utilizzato negli anni ’30 in Germania da un certo Hitler, il quale accusò gli ebrei di essere la causa di tutti i problemi che la Germania stava attraversando in quel periodo.

Recentemente l’università dell’Ohio ha condotto una ricerca su 1010 adulti per determinare le credenze coinvolte nelle teorie della cospirazione riguardanti l’attacco terroristico alle torri gemelle. Il risultato ha evidenziato che il 36% del campione riteneva molto probabile o abbastanza probabile che il governo fosse coinvolto in vario modo negli attacchi.

Le possibili ragioni alla base di un così consistente radicamento nella popolazione di tali credenze sono state correlate dal sociologo Ted Goertzel a tre tratti:

– Uno stato di disaffezione o di alienazione rispetto al “sistema”

– La tendenza a non fidarsi delle altre persone

– Un senso di insicurezza legato alla continuità del proprio lavoro
Le teorie del complotto forniscono il “nemico” da accusare di fronte ai quei problemi che diversamente sarebbero troppo astratti ed impersonali per essere affrontati, fornendo inoltre risposte facilmente disponibili per risolvere le contraddizioni fra la realtà dei “fatti” e il sistema di credenze individuali.

Una teoria del complotto per avere successo deve quindi rinforzare la credenza personale secondo cui forze esterne siano responsabili di qualche aspetto spiacevole o indesiderabile della propria vita; se l’individuo si sente oppresso da  una cospirazione di “potenti”, che rende vano ogni sforzo individuale di miglioramento, si solleva inoltre dalla responsabilità soggettiva nei confronti della propria condizione.

http://www.world-mysteries.com/newgw/gw_rmd1.htm

Goertzel, T. (1994): Belief in Conspiracy Theories, Political Psychology 15: 733-744) Disponibile su  http://crab.rutgers.edu/~goertzel/conspire.doc.

Le terapie psicologiche del disturbo borderline di personalità

 

Dalla letteratura scientifica emergono diversi approcci psicoterapeutici efficaci nel trattare il disturbo di personalità borderline. In particolare, i recenti trial clinici sostengono che questa tipologia di pazienti trae i benefici maggiori da forme di psicoterapia strutturate e specifiche per questo disturbo. Le prove empiriche forniscono un’evidenza che favorisce soprattutto la Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT: Linehan, 1993) e il trattamento basato sulla mentalizzazione (MBT: Bateman & Fonagy, 2004). Ciò che appare rilevante è che una forma di psicoterapia efficace si dimostri più efficace del cosiddetto “trattamento usuale” (TAU – Treatment As Usual). L’obiettivo di queste terapie è offrire un metodo per promuovere la regolazione delle emozioni e la risoluzione dei problemi che incorrono nella vita di questi pazienti (Paris, 2010). I risultati della ricerca empirica hanno mostrato che una forma di psicoterapia ben strutturata può produrre esiti che i TAU non riescono ad ottenere. Vediamo nel dettaglio le componenti di questi approcci psicoterapeutici.

La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT, Dialectical-Behavioural Therapy) è un adattamento della terapia cognitivo-comportamentale. È stata elaborata dalla psicoterapeuta statunitense Marsha Linehan (1993) e il suo cardine è l’addestramento alla gestione delle emozioni disforiche e alla ricerca di comportamenti alternativi all’automutilazione e all’abuso di sostanze. Il programma prevede incontri individuali, di gruppo e reperibilità telefonica del clinico.

Lo studio di efficacia iniziale ha mostrato come la DBT sia nettamente superiore al TAU nel ridurre le automutilazioni, l’abuso di sostanze e il numero di ricoveri ospedalieri (Linehan et al., 1991; Linehan et al., 1993).

Tuttavia rimangono delle questioni non risolte. Nonostante il campione originale abbia effettuato questo tipo di psicoterapia più di 20 anni fa, non c’è stato alcuno studio di follow-up, perciò non è noto se i pazienti trattati abbiano mantenuto i loro progressi e abbiano continuato a migliorare. Inoltre, altre evidenze empiriche (McMain et al., 2009) sembrerebbero mostrare che, sebbene la DBT sia più efficace di altri trattamenti, può corrispondere ad altre terapie che siano altrettanto strutturate e designate appositamente per questa popolazione clinica.

Il Trattamento Basato sulla Mentalizzazione (MBT, Mentalization Based Treatment) è una tecnica elaborata da Bateman e Fonagy a partire dal 2004, che deriva dal concetto secondo il quale i pazienti borderline necessitano di imparare a “mentalizzare”, ossia a stare fuori dai propri stati d’animo, osservando accuratamente le emozioni proprie ed altrui. La teoria alla base dell’MBT suggerisce che questa capacità si sviluppi mediante un processo di esperienze infantili nelle quali le persone si sentono considerate nei pensieri degli altri (specialmente dei genitori) all’interno di una relazione di attaccamento sicuro con figure significative in grado di tenere “a mente” e considerare l’altro (Bateman & Fonagy, 2004). Nei pazienti con disturbo di personalità borderline questa capacità sarebbe compromessa a causa di un atteggiamento scarsamente mentalizzante e “riflessivo” da parte delle figure di riferimento, i quali non risponderebbero adeguatamente alle esperienze emotive del soggetto, causando così un trauma evolutivo.

L’MBT parte da una base teorica psicanalitica ma utilizza anche metodi cognitivi. Infatti questo trattamento è simile, in molte componenti, alla DBT: in entrambe le forme di psicoterapia i pazienti sono addestrati ad osservare le loro emozioni, a tollerarle e a gestirle in una maniera più adattiva. Nella MBT, tuttavia, l’addestramento è meno dettagliato e formalizzato rispetto alla DBT. Il paziente è piuttosto continuamente stimolato e incoraggiato a mentalizzare ogni suo stato emotivo e impulsivo, ma non gli si mostra operativamente –mediante esercizi cognitivi o comportamentali- come potrebbe realizzare questa mentalizzazione.

Nel 1999 è stato condotto un primo test tramite un trial clinico randomizzato su un campione modesto (n=41) in un programma della durata di 18 mesi: gli esiti hanno mostrato che la MBT era superiore rispetto ai TAU. Successivamente, il campione è stato osservato per 8 anni, notando un miglioramento stabile nella sintomatologia clinica.

Lo studio più recente sulla MBT, in un campione più largo di pazienti (n=134), ha fornito la più significativa evidenza riguardo alla sua efficacia (Bateman, Fonagy, 2009). Sono stati confrontati 18 mesi di MBT con un TAU. l’MBT è risultato nettamente superiore nel diminuire tentati suicidi e ricoveri ospedalieri. Gli autori hanno dunque concluso che i loro dati confermano la necessità di una psicoterapia strutturata per il disturbo di personalità borderline.

Altri approcci psicoterapeutici che risultano efficaci nel trattamento del disturbo borderline sono la Psicoterapia focalizzata sul transfert (Transference Focused Therapy, TFP) di Kernberg (validata in un trial del 2002). Anche la TFP, come la MBT, non si pone l’obiettivo di insegnare delle abilità ma di incoraggiare il paziente a integrare le rappresentazioni di sé e degli altri; la Terapia Cognitivo-Analitica (Cognitive Analytic Therapy, CAT) di Ryle (1997), un’altra combinazione di terapia cognitivo-comportamentale e terapia analitica, che applica la teoria delle relazioni oggettuali per aiutare i pazienti a stabilire un senso di sé più stabile, e la Terapia Focalizzata sugli Schemi (Schema Focused Therapy, SFT) sviluppata da Young (1999), che mira a modificare gli schemi maladattivi che derivano da esperienze negative nell’infanzia.

 

AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2002). DSM IV-TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Text Revision. Masson Ed, Milano

BATEMAN A., FONAGY P. (2004). Psychotherapy for Borderline Personality Disorder: Mentalization Based Treatment. Oxford: Oxford University Press

BATEMAN A., FONAGY P. (2006). Mentalization Based Treatment: A Practical Guide. New York: John Wiley

Bateman A., Fonagy P. (2009). Randomized controlled trial of outpatient mentalization based treatment versus structured clinical management for borderline personality disorder. Am J Psychiatry (Epub ahead of print).

LINEHAN M. (1993). Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Trad. it. di Ascoli M., D’Amore C. (2001). Edizione italiana BARONE L. (a cura di); Cortina Ed., Milano

MAFFEI C. (2008). Borderline. Struttra, categoria, dimensione. Cortina Ed., Milano

McMain S., Links P., Gnam W., et al. (2009). A randomized trial of dialectical behavior therapy versus general psychiatric management for borderline personality disorder. Am J Psychiatry (Epub ahead of print)

NATIONAL INSTITUTE FOR HEALTH AND CLINICAL EXCELLENCE (2009). Borderline personality disorder: treatment and management. NICE clinical guideline 78. Developed by the National Collaborating Centre for Mental Health

OLDHAM J., GABBARD G., GOIN M. et al. (2001). American Psychiatric Association Practice Guidelines: Practice Guideline for the treatment of borderline personality disorder. American Journal of Psychiatry, 158: 1-52

PARIS J. (2008). Treatment of Borderline Personality Disorder: A Guide to Evidence-based Practice. Guilford Press, New York

PARIS J. (2010). Effectiveness of Different Psychotherapy Approaches in the Treatment of Borderline Personality Disorder. Cur Psychiatry Rep 12: 56-60

RYLE A. et al. (1997). Cognitive Analytic Therapy and Borderline Personality Disorder: The Model and the Method. Hoboken, NJ: John Wiley

SKODOL A., BENDER D. (2009). The Future of Personality Disorders in DSM-V? American Journal of Psychiatry 166: 4

YOUNG J. (1999). Cognitive Therapy for Personality Disorders: A Schema Focused Approach, edn 3. Sarasota, FL: Professional Resource Press

Pillole o parole?


antidepressivi

La New York Review of Books, uno dei più prestigiosi giornali del mondo anglosassone, pubblica  tra giugno e luglio due articoli di Marcia Angell che costituiscono un attacco duro e severissimo al mondo psichiatrico moderno.

Ha vinto nel mondo psichiatrico il punto di vista che quasi tutto dipenda da squilibri chimici nel cervello. Questo ha portato ad una crisi grave delle psicoterapie e al fatto che la maggior parte degli psichiatri ormai distribuiscono solo farmaci e non parlano più con i pazienti se non per inferire da alcune cose che essi dicono, i “sintomi” che necessitano di essere curati.  E che essi cureranno, sintomo per sintomo. Il risultato di questo è che oggi il 10% circa degli americani sopra i sei anni si cura con farmaci psicotropi.

Kirsch, l’autore di uno dei  libri recensiti nell’articolo (2011) si chiede se gli antidepressivi funzionano e arriva a sconcertanti risposte. Il punto è questo: le case farmaceutiche che distribuiscono e guadagnano sui farmaci sono divenute negli anni non solo parte del sistema diagnostico che definisce le malattie mentali e le categorizza, ma anche di come esso debba essere trattato.

Quando tutto è iniziato (anni 50) non si sapeva affatto come questi primi farmaci funzionavano:  ad esempio la clorpromazina, uno dei primi farmaci che si sono studiati a metà degli anni cinquanta,si dimostrò capace di  abbassare i livelli di dopamina nel cervello. Questo fatto ha fatto inferire (in modo del tutto arbitrario) che malattie come la schizofrenia fossero causate da un eccesso di dopamina nel cervello.  Insomma , come dice il NYTRB, invece di trovare un farmaco che curasse una anomalia, si è postulata una anomalia per giustificare il funzionamento del farmaco.

Ma non si è ancora trovata nessuna certezza sugli agenti causali della depressione. Kirsch ha studiato per anni i placebo e il problema del funzionamento degli psicofarmaci contro la depressione.  E qui arriva nel suo libro l’attacco a come sono strutturati i trial randomizzati. Questi trial durano 8,10 settimane.  E dopo avere studiato almeno 38 di questi trial kirsch arriva al preoccupante risultato che in sostanza i placebo funziona almeno tre volte meglio del nessun trattamento, e gli antidepressivi funzionano poco meglio dei placebo.  (la proporzione è del 75%, cioè il placebo funziona il 75% di come funzionano gli antidepressivi) . I dati kirsch li ha presi dalla food and drug andiminstration, non dalla letteratura pubblicata. Il motivo c’è, nella letteratura riportata non vengono riportate le ricerche che danno dati non positivi.  Se due trial dimostrano un effetto positivo e vengono pubblicati su journal e 10 trial dimostrano una inefficacia o peggio, non vengono pubblicati. Voi capite che questa prassi influenza grandemente le decisioni per il trattamento,  che poi gli psichiatri ( e spesso anche i medici di base) prendono con i loro pazienti.

Kirsch è riuscito ad avere i dati dal FDA (federal and drug administration) e ha trovato 42 trial di sei farmaci. La maggior parte erano negativi. I placebo funzionavano circa l’82% dei farmaci.

Come vedete differenze minime. Le differenze statistiche minime a favore dei farmaci non appaio non significative dal punto di vista clinico.

I trial clinici sono fatti in doppio cieco, vuol dire che né il clinico né il paz sanno chi prende il placebo e chi prende il farmaco, Kirsch è andato a studiarsi alcuni trial clinici che fornivano placebo con effetti simili ai farmaci e udite udite, se si dava una sostanza con effetti collaterali simili al farmaco, spariva la differenza tra placebo e antidepressivi. Alcuni pazienti quindi, sentendo gli effetti secondari, deducono che stanno prendendo l’antidepressivo durante il trial e si convincono che stanno migliorando a causa del farmaco.

Kirsch sostiene che molti degli aneddoti clinici del miglioramento dei pazienti in cura per antidepressivi potrebbero essere dati da questo bias della narrazione comune.

Ma questo cosa significa per noi?

Stiamo attenti, il problema non è di non avere chiari i meccanismi base di funzionamento, la medicina funziona spesso così, abbasso la febbre in ogni caso, indipendentemente dalla comprensione del perché quel corpo malato abbia avuto un rialzo della temperatura,  è una pia illusione che l’unico intervento medico corretto sia quello seduto su una comprensione assoluta del disturbo che si presenta, illusione che ha fatto molto male alla psicologia, dove spesso si è tentato di trovare coerenze assolute, e gerarchicamente inoppugnabili, dove invece occorreva il coraggio di interrompere circoli viziosi di mantenimento, o intervenire semplicemente partendo dall’alleviare la sofferenza.

Il problema attiene alla credibilità della ricerca.

Good news: Sono anni ormai che l’intervento psicoterapeutico è sotto attacco proprio a causa della potenza e forza del mondo psichiatrico pro farmaci, quindi se se ne discute la scientificità può essere un passo verso una apertura a favore degli interventi psicologici.

Bad news: per i ricercatori in psicoterapia, un attacco a trial farmacologici potenti, ben finanziati,  dove i parametri da studiare sono precisi e facili da tracciare, (misurare la dopamina) può mettere in discussione il valore di trial clinici dove i parametri sono: il perfezionismo, l’intolleranza dell’incertezza, credenze molto più difficili da definire e rendere operazionalizzate, e dove la compiacenza con il ricercatore e la manipolazione dei parametri da parte del paziente può essere sicuramente un elemento importante di disturbo sull’andamento dell’esperimento.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Angell, M. (2011). The Epidemic of Mental Illness. New York Review of Books, 58, 11, June 23.
  • Angell, M. (2011). The Illusions of Psychiatry. New York Review of Books, 58, 12, July 14.
  • Kirsch, I. (2011) The Emperor’s New Drugs: Exploding the Antidepressant Myth. Basic Books, New York.

Genitori in attesa e aspettative sul futuro


Un gruppo di ricercatori finlandesi dell’ University of Tampere e dell’ University Central Hospital di Helsinki ha analizzato, in ben 745 coppie finlandesi in dolce attesa, le aspettative sulla futura relazione con il figlio e ne ha esaminato le correlazioni con i livelli di stress dei genitori durante il primo anno di vita del bambino. Gli aspetti della relazione genitori/figli che sono stati indagati e sui quali si concentrava l’analisi delle aspettative erano intimità emotiva e l’autonomia individuale; entrambe dimensioni fondamentali perchè relative a processi di sviluppo attivi sia a livello dell’individuo che a livello del sistema familiare: la capacità di stare in relazione e quella di differenziarsi.

I ricercatori si proponevano di verificare se rappresentazioni genitoriali prenatali problematizzate, cioè negative o sbilanciate, rispetto a temi così centrali nella costruzione della relazione genitore/figlio e della identità individuale, potessero predire problemi di adattamento nel passaggio alla genitorialità durante il primo anno di vita del bambino.

A tutte le coppie, nel secondo trimestre di gravidanza, a 2 e 12 mesi dopo il parto, è stato chiesto di compilare un questionario self report sulle rappresentazioni familiari; a due e 12 mesi dopo il parto è stato anche somministrato l’Abidin’s Parenting Stress Index, per testare il livello di stress dei genitori

le hp dei ricercatori prevedevano che sia aspettative molto positive che aspettative molto negative avrebbero correlato con alti livelli di stress genitoriale, ma contrariamente all’ipotesi i risultati hanno evidenziato che aspettative prenatali alte coincidevano, in entrambe le dimensioni, con bassi livelli di stress nel primo anno di vita del bambino.

L’ hp che aspettative moderate potessero favorire minore stress genitoriale si è dimostrata sensata solo per quanto riguarda le aspettative paterne sulla propria autonomia dal bambino: questa previsione si è avverata a due mesi di vita del bambino, suggerendo che nei primi mesi di paternità aspettative idealizzate possano scontrarsi con la realtà ed essere espressione di perfezionismo, atteggiamento pericoloso perchè di ostacolo agli adattamenti genitoriali nel caso in cui il genitore venga deluso (Kalmuss, Davidson, & Cushman, 1992). Anche aspettarsi eccessiva autonomia da parte del bambino, proprio quando il legame con il genitore è stretto e il bambino è molto dipendente e bisognoso di attenzione, può interferire con lo sviluppo di un buon attaccamento.

L’indagine prevedeva che venissero indagate sia le aspettative prenatali sulla relazione di ciascun genitore con il bambino che le aspettative di ciascun genitore sulla relazione che il partner avrebbe avuto con il bambino.

Sorprendentemente aspettative moderate sull’intimità tra partner e figlio, sia nelle madri che nei padri erano invece associate ad alti livelli di stress. Per spiegare questi risultati i ricercatori hanno ipotizzato che aspettative moderate potessero essere espressione di ambivalenza nel guardare alla relazione tra il proprio partner e il bambino; al contrario, aspettative molto positive o molto negative sulla relazione tra il partner e il figlio, rifletterebbero una più chiara definizione delle relazioni all’interno della famiglia e quindi un maggiore equilibrio e una minore problematicità. Inoltre in quelle famiglie in cui ci si aspetta che uno dei genitori sarà emotivamente distante dal figlio potrebbero essere in atto dinamiche compensatorie: questa aspettativa porterebbe a un rafforzamento della relazione dell’altro genitore con il figlio.

In accordo con la teoria dei sistemi familiari, aspettative negative (non solo della propria relazione con il bambino ma anche di quella del partner) predicono il futuro funzionamento della propria relazione con il figlio e coincidono con un alto stress genitoriale.

Dal punto di vista clinico e della salute mentale, le aspettative prenatali potrebbero essere un valido strumento per prevedere futuri problemi genitoriali. In quest’ottica maggiore attenzione dovrebbe essere data a quei genitori che durante la gravidanza già hanno aspettative negative, idealizzate o ambivalenti sul bambino in arrivo e sulla genitorialità, o preoccupazioni sulla futura relazione tra il partner e il bambino. Le ragioni di aspettative “caute”, ostili o distorte andrebbero approfondite perché potrebbero essere un forte indicatore di rischio per le future relazioni genitori-figli. Interventi focalizzati sulla relazione dovrebbero cominciare precocemente perché i risultati della ricerca mostrano che aspettative negative, idealizzate o ambivalenti, misurate prima del secondo trimestre di gravidanza, sono predittive di problemi genitoriali durante il primo anno di vita del bambino. Inoltre anche la qualità dei primi scambi affettivi e comunicativi è importante per lo sviluppo ottimale del bambino e per la sua salute mentale.

Insomma chi si fascia la testa ancor prima di romperla forse non sempre sta esagerando!

Flykt M. e coll..(2009) Prenatal expectations in transition to parenthood: former infertility and family dynamic considerations. Journal of Family Psychology 2009 Dec; 23(6):779-89.

Kalmuss, D., Davidson, A., & Cushman, L. (1992). Parenting expectations, experiences and adjustment to parenthood: A test of violated expectations framework. Journal of Marriage and the Family, 54, 516–526.

Io sarò con la tua bocca (Esodo 4, 12)


 

boccaNon è la prima volta che leggo questa  stuzzicante notizia, dal sapore inconfondibilmente  catto-dandy. La prima volta mi fu segnalata da un  amico che inorridito commentava: “Non ci credo, è un  complotto della Chiesa Cattolica”. E invece pare che sia vero. La relazione tra sesso orale e tumore della bocca c’è. Punto. Che fare? Prevenire, naturalmente. E anche stavolta si raccomanda l’uso preventivo del preservativo. Ancora nessuno osa invece raccomandare di astenersi. Forse non ne vale la pena impiegare la propria reputazione di bigotto per criticare le pratiche preliminari del piacere. O forse si. Lo faccio io e dico: è proprio necessario? È proprio impossibile rinunciare a un desiderio? Pensieri di bigotto di mezza età. Intanto rimando agli studi di Gabriele Caselli, esperto di statura internazionale (sul serio) di psicologia del desiderio.  Almeno capiamo cosa ci accade, quando decidiamo di rinunciare a rinunciare.

Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.

La strage di Oslo e la percezione sociale del cristianesimo


La strage di Oslo e le percezione sociale del cristianesimo.

La strage di Oslo e dell’isola di Utøya genera troppe domande che rischiano di sposarsi a risposte troppo semplici. La personalità anti-sociale, le idee estremistiche, il ruolo dei fondamentalismi e delle religioni monoteistiche e non, i totalitarismi secolari. E poi i videogiochi, l’uso perverso dei social network, l’ambiente dei gruppi estremisti. In questo calderone lo psicologo teme di non poter dire nulla di particolarmente originale e nemmeno nulla di rassicurante.

Mi limito a riflettere su un aspetto della tragedia: Andres Breivik, l’autore della strage, ha dichiarato di essere un cristiano. Lasciamo da parte il problema di cosa sia un cristiano e ancor più di cosa sia un vero cristiano e se e quanto Breivik lo sia. Atteniamoci al nucleo emotivo della faccenda, perché in esso riposano gli aspetti psicologici. Anche per il terrorismo islamico si è spesso disquisito su cosa sia il vero Islam, con puntualizzazioni probabilmente buone e giuste. Ma in termini di “minaccia percepita” ciò che oggi potrebbe contare è che Breivik ha rivendicato la strage (anche) in nome del suo cristianesimo.

Quando Osama bin Laden realizzò l’attentato alle Twin Towers diede inizio a un equivoco confusivo, anche se poi quella confusione aveva le sue ragioni. Osama attaccò l’Occidente, definendolo cristiano e “crociato”. È vero che talvolta se la prendeva anche con la secolarizzazione della vita occidentale, ma la sua terminologia utilizzava termini religiosi che –ancora una volta- si imprimevano nella mente anche quando non appropriati: cristiani, crociati, e così via.

Personalmente, mi è capitato di osservare qualcosa di simile perfino nel pur secolarizzato stato d’Israele: alcuni (non tutti) colleghi ebrei si rivolgevano a noi dicendo “voi cristiani”. A noi italiani in visita ci parve inutile stare a spiegare che il termine era abbastanza fuori luogo: i colleghi italiani che mi accompagnavano erano tutti atei e il mio personale cristianesimo mi definiva in misura meno incisiva e pubblica rispetto alla loro ebraicità.

Dopo l’11 settembre per la laicità occidentale è iniziato un periodo di disorientamento. Come conservare la propria laica equidistanza rispetto a tutte le religioni, e al tempo stesso prendere atto che, almeno in quei giorni (giorni che iniziano ad apparire stranamente lontani), la minaccia maggiore sembrava provenire dall’Islam?

A questo equivoco se ne aggiunse un altro. Molti occidentali laici, ma di formazione e mentalità più storicistica e romantica (e per questo differente rispetto a chi privilegiava l’illuminismo progressista), sentirono di doversi muovere per difendere non solo i valori dell’individualismo secolarizzato, ma anche la loro radice storica che era anche cristiana.

Non basta. Covava inoltre in alcuni uno strano desiderio di farla pagare a certe frange eccessivamente terzomondiste del fronte illuminista, frange che non rispettavano poi troppo l’attesa equidistanza illuministica da tutte le religioni e lo stesso equidisgusto per tutte le Tradizioni. Alcuni tradivano invece simpatie verso le Tradizioni che storicamente occidentali non erano. La solita innocua paccottiglia di fascinazione per le spiritualità orientali nelle sue varie reincarnazioni. Oppure la teoricamente meno innocua abitudine di indossare la kefiah (ma anche in questo caso spesso tutto si risolveva in un terzomondismo bonario e privo di conseguenze). Una delle ultime manifestazioni è stato un certo recente entusiasmo turistico per l’antica città di Istanbul.

Come guerra di civiltà, era abbastanza innocua e soft. Soft non è un mio termine, ma di un autorevole blogger dell’Unità: “non c’era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori ‘soft’ come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme”.

Di qui una polemica tra laici illuministi e mezzo-laici filo-cristiani più o meno devoti. Ad ascoltare queste discussioni, prevaleva la sensazione che l’Occidente si fosse tramutato in un consesso di giovani tromboni, un’assemblea di studenti fuori corso un po’ troppo saputi, tutti presi a discutere sull’esistenza o meno delle radici cristiane. Di lì a poco, molti finirono per essere infastiditi soprattutto da se stessi e dalle proprie ossessioni.

Il tutto oggi suona più chiassoso che dannoso, e al fondo innocuo. È vero che nel frattempo gli americani scatenarono una guerra in Iraq, ma col tempo la minaccia terroristica divenne una periodica tragedia che spuntava tra i titoli dei notiziari della sera: Madrid, Londra, e qualche altra esplosiva notizia. Tutto sconfinò nella banalità del male.

Era un modo per esorcizzare in qualche modo i difetti della “modernità liquida”, come la ha definita Zygmunt Bauman (2000). La società liquida conferisce all’uomo e alla donna la libertà di costruire liberamente il proprio percorso di vita, limitando al massimo i ruoli predefiniti, le attese, le pressioni e le costrizioni sociali. Tuttavia, l’atmosfera rarefatta della modernità non è per tutti, o forse è per tutti e per nessuno. La libertà va a cozzare contro un altro dei bisogni fondamentali dell’uomo, che è il bisogno di prevedibilità. E nel campo sociale e culturale la prevedibilità assume la veste politicamente non correttissima del senso di appartenenza.

Negli altri cerchiamo non solo lo stimolo e la novità, ma anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, di sensibilità, di storia personale. Negli altri cerchiamo perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie. Insomma un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi (Baumeister e Leary, 1995). Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise. Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro sgradite apparizioni. Per questo appare ingenuo il discorso di chi vorrebbe ridurre il pensiero conservatore a pavido timore del cambiamento e della novità.

Nel processo di secolarizzazione che ha investito le società occidentali, la vita sociale è andata incontro a un doppio processo sia di diminuzione che di intensificazione del senso di appartenenza. I due processi sono logicamente in contraddizione reciproca, ma le contraddizioni logiche possono benissimo convivere, sia pure conflittualmente, nell’arena emotiva delle persone e delle comunità sociali. E così in Occidente, accanto a un crescente stile di vita individualistico e secolarizzato, cresce anche il grado di coinvolgimento in forme di associazione neo-identitarie (Banks e Gingrich, 2006).

Da tutto questo è nato un lungo equivoco, che la strage norvegese dirime con il sangue. L’illusione che il cristianesimo potesse essere un nucleo identitario accettabile anche per la laicità illuministica, un nucleo sufficientemente elastico e adattabile da poter essere accettato anche dalla secolarizzazione moderna. Vivere “veluti si Deus daretur”, vivere come se Dio ci fosse, senza crederne l’esistenza. Espressione forte e acrobatica per un credente monoteista, ma comunque inaccettabile per un laico non credente.

Qualcuno ha sognato di poter concepire una difficile armonia tra l’individuo cristiano che ha sciolto i legami con le religioni etniche pagane e il (quasi) conseguente individualismo laico. Purtroppo non basta segnalare le affinità storiche tra l’individuo cristiano che rompe con i legami di sangue e di clan per vivere in una intimità solitaria (e quindi già così moderna) la sua fede e l’individuo moderno che organizza personalmente e ancor più solitariamente del cristiano la sua vita secondo i suoi scopi. La figliolanza storica non implica automaticamente unità di intenti. Ci sono delle inevitabili conflittualità psicologiche e culturali tra mentalità cristiana e modernità.

Conflittualità che sono al fondo della natura della libertà occidentale. Un assassino come Breivik le ha portate all’estremo, segnando una sorta di punto di svolta che però può rendere tutti più consapevoli di se stessi. Ma non è detto che rimarcare le differenze sia una diminuzione. La laicità occidentale non si riduce a mera conseguenza storica del cristianesimo e a sua volta il cristianesimo è qualcosa di più grande e grave del limitarsi ad essere la religione etnica dell’Occidente.

 

Banks, M., Gingrich, A. Neo-nationalism in Europe and beyond. In M. Banks, A. Gingrich (a cura di), «Neo-nationalism inEurope and beyond: perspectives from social anthropology». Berghahn,Oxford, 2006, pp. 136-161.

Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press, Cambridge. trad. it.: ”Modernità liquida”, Ed. Laterza, Roma-Bari 2002.

Baumeister, R. F., Leary, M. R. The need to belong: Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation. In «Psychological Bulletin», 117, 1995, pp. 497- 529.

Brewer, M. B. The social self: On being the same and different at the same time. In «Personality and Social Psychology Bulletin», 17, 1991, pp. 475-482.

Amy Winehouse: morte senza riabilitazione (she said “no, no, no”)


La malinconica morte di Amy Winehouse sembra consigliare reazioni stranamente silenziose. Il lutto per una giovane donna che scompare troppo presto e il rammarico per un talento reciso a 27 anni lasciano senza molte parole i fan e i giornalisti. E questa afasia sembra l’unica novità di un evento che sembra singolarmente incapace di parlarci e dirci qualcosa che vada oltre l’umana pietà.

Il silenzio è soprattutto quello degli appassionati di musica. I fan di Winehouse sono muti e attoniti. Muti perché determinati a non voler dare un senso a questa morte che vada oltre la tristezza della morte stessa. La mitologia della rockstar maledetta e che muore giovane è scomparsa. Non è più il tempo in cui i Jethro Tull si chiedevano se per caso non fosse venuto per loro il tempo di morire giovani, perché ormai già troppo vecchi per il rock’n’roll: correva l’anno 1976 e loro pubblicavano “Too Old to Rock ‘n’ Roll: Too Young to Die!

Oggi l’appassionato di musica non comprende il maledettismo vissuto o recitato dei suoi idoli. Amy Winehouse aveva già compromesso la sua produzione musicale da qualche anno, in un gorgo di insicurezze, droghe e perfino anoressia e bulimia. Ma, oltre l’umana pena, le reazioni dei fan sono state il fastidio, la delusione e l’irritazione del cliente insoddisfatto che reclama un servizio all’altezza, e non l’identificazione con qualcuno che condivide un destino bruciato di maledizione e lo esprime a un livello più alto. Non ho prove certe che confortino quel che scrivo, se non i commenti che ho letto in blog abbastanza popolari, per esempio qui.

Fastidio e non identificazione. Oppure sentimentalismo, che forse è ancor peggio, ancor più lontano dal maledettismo eroico. Per esempio Ernesto Assante che scrive: “Perchè viene da pensare che nessuno abbia avuto abbastanza coraggio, abbastanza forza, abbastanza amore per farla smettere, per fermarla, per arginare il caos che aveva dentro e che la portava a vivere una vita fatta di eccessi.”

Non credo sia questa la risposta. Non credo che non ci sia stato abbastanza amore o attenzione. O almeno non lo credeva Amy Winehouse. La risposta era già nelle parole di una delle sue canzoni più famose, il potente rhythm’blues Rehab: ‘They tried to make me go to rehab, I said “no, no, no”’. ‘C’hanno provato a mandarmi in disintossicazione, ma io ho detto “no, no, no”’ Ma più ancora delle parole conta la musica: il potente sottofondo rhythm’blues si unisce a una voce che non è da giovane rockstar arrabbiata contro un mondo che non la comprende. L’universo musicale della Winehouse non ha il corto respiro adolescenziale di chi ce l’ha coi genitori o gli insegnati o qualche altra autorità.

Non siamo di fronte a un giovanilistico rock’n’roll. La sua è una voce più adulta e meno propensa al vittimismo, una voce nera e profonda, quasi da baritono-donna. Amy Winehouse, questa ebrea londinese, canta come una cantante nera già avanti negli anni e che ha lasciato alle spalle il nervosismo richiedente dei giovani.

Insomma, rispetto agli anni ’70, gli anni delle grandi rockstar morte giovani, questa nostra sembra essere un’età meno propensa al maledettismo o al sentimentalismo, meno propensa a dare la colpa alla società, più consapevole che per disintossicarsi occorre la collaborazione (la cosiddetta compliance) del paziente (e spiacente se lui o lei dicono “no, no, no”), e meno propensa a comprendere le ragioni di chi spreca, o non sfrutta fino in fondo, il proprio talento.

Mal di testa? Oltre la solita aspirina


 

Le statistiche indicano che circa il 20% degli italiani soffre abitualmente per il mal di testa. Il costo sociale di questo disturbo   ammonta al milione di euro all’anno. E’ difficile dire cosa lo scateni visto che può configuarsi sia come sintomo di altri disturbi o costituire una malattia a sè. Insieme alle cause di tipo organico (alterazioni vascolari, del sistema nervoso, muscolare, ormonale, etc.) può essere scatenato da fattori legati allo stile di vita che procurano stress: troppo lavoro, mancanza di sonno, un’alimentazione scoretta, un consumo di alcol eccessivo o addirittura una postura scorretta. Quali che siano le cause il risultato è sempre lo stesso, una diminuzione del benessere del singolo e della sua qualità di vita, che può durare poche ore o protrarsi per giorni. Il tipo peggiore è sicuramente la cefalea a grappolo a volte indicato come “mal di testa da suicidio” a causa del dolore quasi insopportabile che causa in chi soffre e che solitamente coinvolge un solo lato del viso. Cosa la provochi non è ancora chiaro, studi recenti suggeriscono che siano coinvolti cambiamenti nella struttura dell’ipotalamo. Una struttura del cervello implicata, tra le altre cose, nella regolazione dei ritmi circadiani, ovvero il ciclo giornaliero dell’organismo che detta quando dormire, regola la temperatura corporea e la pressione sanguigna. Un’alterazione dell’ipotalamo potrebbe spiegare quindi la frequenza degli attacchi e perché sembrino avvenire particolarmente spesso intorno ai solstizi. Tra le cure che possono apportare sollievo, le inalazioni di ossigeno, farmaci che regolano le aritmie e LSD, la droga allucinogena simbolo degli anni 70!

Torsten Passie, psichiatra presso la Scuola Medica di Hannover e colleghi hanno deciso di testare la molecola 2-bromo-LSD, una variante non allucinogena, impiegata inizialmente dai laboratori Sandoz – la società svizzera che storicamente ha scoperto gli effetti psichedelici di un fungo parassita della segale che causava la “febbre del pellegrino” con allucinazioni e dolori articolari – come farmaco per la cura della cefalea. I dati preliminari su un campione di 6 pazienti, mostrerebbero come tutti i partecipanti allo studio hanno riportato una riduzione della frequenza degli attacchi, e cinque pazienti hanno riferito di non aver più avuto attacchi per mesi dopo l’assunzione.

Gli studi proseguiranno. Non ci resta che sperare e nel frattempo andare a cercare i pantaloni a zampa chiusi in soffitta!

http://news.sciencemag.org/sciencenow/2011/06/lsd-alleviates-suicide-headaches.html

Rimanda a domani la perfezione


 

Il rimandare è attività comune a tutti ma le ragioni che ci inducono a farlo sono diverse.

A rischio procrastinazione, ebbene sì, ci sono anche loro, i perfezionisti, coloro che fondano il proprio valore personale nell’eccellenza delle prestazioni.

Perchè mai persone così interessate a fare bene dovrebbero però concedere a se stessi il lusso di procrastinare? Forse perchè la frustrazione di aver rimandato un compito è comunque meno dolorosa della constatazione di non aver raggiunto la perfezione?

In tal senso procrastinare è un via di fuga, una strategia per non incrinare il proprio valore così saldamente ancorato all’esito perfetto delle proprie performance.

La strada che conduce il perfezionista alla procrastinazione è dunque un percorso in discesa.

Il punto di partenza è la tendenza a standard elevati. Se ad essi si accompagnano però garanzie di successo insufficienti, dal momento che ottenere meno della perfezione non è un’opzione considerata, il perfezionista sperimenta un senso di forte disagio a cui reagisce  col tentativo di nascondere a se stesso le proprie imperfezioni. In un attimo si ritrova ad affrontare attività giudicate meno pericolose perchè non coinvolte nella determinazione del proprio valore e il compito tanto temuto viene rimandato.

Ma come se ne esce? L’unica soluzione possibile sembrerebbe quella di accettarsi come persona fallibile concedendosi di fare il meglio che si può e non assecondando rigidi canoni di perfezione.

Ecco qualche pratico consiglio:

– tenere presente che il desiderio di eccellere non va abbandonato ma è ben diverso dall’aspirazione di essere perfetti;

– coltivare un atteggiamento mentale orientato all’apprendimento piuttosto che al risultato: solo gli errori ci insegnano come fare meglio la prossima volta;

– esercitarsi a essere meno critici verso se stessi e gli altri sottolineando le cose che vanno bene;

– chiedersi più spesso “quanto me ne importerà di ciò tra un anno?”  aiuterà se stessi a calare le situazioni in una prospettiva più ampia;

– fare spazio all’idea di abbastanza bene, ancora meglio celebrare gli errori;

– allenare la propria mindfulness: prendere nota del proprio scopo poi dimenticarlo e godersi il viaggio per arrivare alla meta.

Knaus, B. (2010). Break a Perfectionism and Procrastination Connection Now. Learn to overcome perfectionism and procrastination simultaneously. Science and Sensibility. Psychology Today.

Fate l’amore, non fate la guerra.


I figli dei fiori già ne erano a conoscenza, ma una ricerca pubblicata su Nature conferma la loro tesi: fare l’amore è l’antidoto contro l’aggressività.

Al grido di ‘peace and love’ un gruppo di ricercatori del California Institute of Technology (Caltech) di Pasadena ha individuato una correlazione tra le aree cerebrali che governano l’aggressività e quelli che rispondono agli stimoli sessuali. Quando questi sono attivati, nella fase di passione tipica dell’accoppiamento, si riscontra una disattivazione dei neuroni che regolano l’aggressività.

La ricerca per ora è stata condotta solo su cavie animali, nella fattispecie topi, ma gli studiosi sono convinti che i risultati ottenuti si possano estendere anche al genere umano.

Dayu Lin, David Anderson e colleghi, hanno infatti individuato l’area cerebrale predisposta al controllo dell’aggressività. I neuroni ‘litigiosi’ sarebbero localizzati nell’ipotalamo ventromediale, una piccola zona del cervello deputatata anche alla regolazione del comportamento sessuale. Il gruppo di Pasadena è partito da studi precedenti che individuavano genericamente l’ipotalamo come area dell’aggressività; e proprio in quest’area si sono concentrati per stabilire con maggior precisione quale zona della suddetta struttura svolgesse questa funzione. Per fare ciò hanno monitorato l’attività cerebrale dell’ipotalamo dei topi innescando degli ‘scontri’ fra le cavie.

Durante lo studio i ricercatori hanno rilevato che sia durante questi ‘scontri’ che durante l’attività sessuale veniva attivata la medesima zona dell’ipotalamo, l’area ventromediale.

Di conseguenza, Dayu Lin e colleghi si sono concentrati su questa zona per comprendere le basi del comportamento aggressivo.

Nella seconda parte dello studio si sono serviti un nuovo metodo d’indagine, l’optogenetica, che combina tecniche ottiche e genetiche di rilevazione, allo scopo di sondare circuiti neuronali e di manipolarli artificialmente provocando reazioni in un tempo nell’ordine dei millisecondi.

Dopo aver posizionato gli elettrodi sul cranio delle cavie, per studiare le zone di attivazione, i ricercatori hanno reso i topi sensibili alla luce blu introducendo un gruppo di geni nel loro cervello.

In seguito, grazie all’utilizzo di fibre ottiche direttamente montate al cranio dell’animale, Lin e Anderson hanno stimolato i neuroni dei topi per studiarne le reazioni indotte  a livello comportamentale.

I risultati evidenziano che quando attraverso una scarica di luce blu venivano attivati i neuroni dell’aggressività e nella gabbia c’erano solo topi di sesso maschile, questi attaccavano immediatamente i propri simili, cavie castrate o anestetizzate, ma anche oggetti. Se invece si modificava la variabile sesso, ovvero nella gabbia venivano posti topi maschi e femmine, lo stato di aggressività mutava rapidamente in stimolo sessuale e risultava impossibile innescare artificialmente lo stimolo violento, quasi i due stati fossero mutualmente escludentesi.

Quindi, concludono gli autori, il desiderio e il sesso sopprimono i comportamenti violenti ma, di contro, in presenza di uno soggetto ‘sconosciuto’ (cavie castrate/ anestetizzate o oggetti inanimanti) si attivano le reazioni che servono all’animale per proteggere se stesso da un rivale di sesso maschile.

Da questo studio emergerebbe l’esistenza di un legame competitivo tra il sesso e l’aggressività, competitività che, se ben sfruttata, potrebbe dar ragione ai cari vecchi hippies.

Dayu Lin, Maureen P. Boyle, Piotr Dollar, Hyosong Lee, E.S. Lein, Pietro Perona, David J. Anderson. ( 10 February 2011). Functional identification of an aggression locus in the mouse hypothalamus. Nature, 470, 221-226.

Le cure materne fanno crescere, anche il cervello


 

Che l’interazione della mamma con il proprio figlio sia fondamentale per la sopravvivenza e lo sviluppo del bambino è cosa tanto nota da apparire scontata, ma sono in pochi a sapere che questi scambi precoci hanno importanti conseguenze anche sullo sviluppo cerebrale.

Peculiarità intrinseca al nostro cervello è quella di essere diviso in due emisferi – destro e sinistro- con caratteristiche funzionali separate. Come molti studi dagli anni ’90 a oggi hanno oramai confermato, le basi di tali asimmetrie hanno origine già durante il periodo fetale, per poi continuare a svilupparsi durante tutta l’infanzia. Non si tratta però di un puro meccanismo biologico. Al contrario: sarebbe la capacità del neonato di sintonizzarsi con la mente di altre persone, e in particolare di chi si prende cura di lui, che si rivela fondamentale per la maturazione dei circuiti cerebrali. Sarebbe infatti l’ambiente affettivo primario in cui è immerso il bambino a influire sia in senso positivo che in senso negativo sulla comparsa del primitivo emisfero destro in via di sviluppo; nelle interazioni faccia a faccia, infatti, il bambino utilizza proprio la produzione della corteccia destra della mamma, la quale regola le emozioni che andranno a loro volta a modulare l’emisfero destro del piccolo. Questo significa che il neonato, già dai primi giorni di vita, modula le sue emozioni in base a quelle che vede espresse dalla madre ed è proprio da tali interazioni con il caretaker che dipende lo sviluppo dei primitivi circuiti cerebrali. Questo processo diventa sempre più complesso e matura nel primo anno di vita con il crescere del bambino e con l’intensificarsi degli scambi affettivi con la madre. Solo intorno ai 18 mesi, invece, si ha la maturazione dell’emisfero sinistro, collegato allo sviluppo del linguaggio, alle funzioni esecutive e alle abilità astratte.

In uno studio di Davidson e collaboratori sono stati analizzati i tracciati elettroencefalografici di bambini di 10 mesi alla separazione dalla madre. I dati mostrano un’evidente asimmetria frontale nell’EEG sia durante la fase di interazione con la madre che durante la separazione. In particolare i bambini che piangono molto alla separazione dalla madre mostrano un aumento dell’attivazione frontale destra durante questa fase in misura significativamente maggiore rispetto ai bambini che invece non piangono. Sembra possibile affermare, quindi, che già nel primo anno di vita, l’attivazione frontale destra sia associata ad affetti negativi, a paura e ansia. Come confermano altri studi, ad esempio, in madri depresse si è riscontrata una significativa riduzione delle capacità di condividere stati affettivi positivi. Queste donne e i loro figli presentano una forte diminuzione dell’attività frontale destra, e se la depressione persiste dopo il primo anno di vita del bambino, i bambini possono continuare a esprimere tali pattern di attivazione frontali.

Ecco perché storie di traumi precoci costituiscono un ambiente inibente la crescita e la maturazione dell’emisfero destro. Studi di brain imaging hanno dimostrato, infatti, che l’emisfero destro si attiva quando vengono richiamate alla mente le memorie emotive, mentre a livello del linguaggio queste memorie possono essere del tutto inaccessibili.

Davidson, R. J., & Fox, N. A. (1989). Frontal brain asymmetry predicts infants response to maternal separation, Journal of Abnormal Psychology, 98, 127-131.

Schore, A. N., (2001). The Effects of Early Relational Trauma on Right Brain Development, Affect Regulation, & Infant Mental Health, Infant Mental Health Journal, 22, 201-269.

Trevarthen, C., (1996). Lateral asymmetries in infancy: implications for the development of the hemisphere, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 1996, 20(4), 571-576.

Pratica(mente) mindfulness – L’esercizio dell’uva passa

 

Mindfulness - pratica dell'uva Passa

La Mindfulness ci mette di fronte ad una riflessione importante: quanto è limitata la nostra maniera consueta di prestare attenzione alle cose? Quali (e quante) sono le cose che ogni giorno facciamo con il pilota automatico?

Quando abbiamo attivato il pulsante del pilota automaticoprobabilmente la nostra mente è in quella che è nota come la “modalità narrativa”, concentrati cioè su aspetti diversi dal momento presente. Pensiamo a quando sentiamo un’emozione spiacevole legata ad un evento passato o futuro, un’immagine legata ad un evento/situazione accaduto o in procinto di accadere, un pensiero su cosa dovremo fare poco dopo o che avremmo dovuto fare. Sebbene tale modalità interpretativa della nostra mente di tipo concettuale/semantico dia senso alla nostra esistenza, in alcuni casi può far sì che, come dicono Kabat-Zinn e i suoi colleghi Williams, Teasdale e Segal “ci perdiamo tanto della vita, la nostra mente è sempre sul piano narrativo del passato e del futuro” e non ci concediamo mai (o quasi mai) di prestare attenzione al momento che stiamo vivendo “con tutta la mente e con tutto il cuore, utilizzando appieno le risorse del corpo e dei sensi; quest’ultimo è il secondo stato di funzionamento della mente, quello “esperienziale

Per continuare il nostro viaggio nella pratica della Mindfulness e per “farci un’idea di quanto possa essere vivida un’esperienza quando la mente è presente al suo dispiegarsi in modo intenzionale e non giudicante” oggi vi suggeriamo la pratica dell’uva passa, per un primo assaggio di consapevolezza, così come è descritta Williams, Teasdale, Segal e Kabat-Zinn nel loro libro “Ritrovare la serenità” (Williams et al., 2010, p. 47-48).

Pratica dell’uva passa

1 – Tenere in mano

Per prima cosa prendete un acino di uva passa e tenetelo sul palmo della mano o tra pollice e indice.

Concentrandovi su di esso, immaginate di essere appena arrivati da Marte e di non aver mai visto un oggetto come questo nella vostra vita;

2 – Vedere

Datevi il tempo di vederlo veramente; osservate l’acino d’uva passa con cura e con piena attenzione.

Lasciate che i vostri occhi ne esplorino ogni parte, esaminando i punti in cui risplende la luce, gli incavi più scuri, le pieghe e le grinze e qualsiasi asimmetria o caratteristica unica.

3 – Toccare

Rivoltate l’acino d’uva passa tra le dita, esplorandone la consistenza, magari a occhi chiusi, se ciò acuisce il vostro senso del tatto.

4 – Annusare

Tenendo l’acino d’uva passa sotto il naso, a ogni inspirazione inalate qualsiasi odore, aroma o fragranza che ne scaturisca, notando se ne frattempo avviene qualcosa di interessante nella vostra bocca e nel vostro stomaco.

5 – Mettere in bocca

Ora avvicinate lentamente l’acino d’uva passa alle labbra, notando come la mano e il braccio sappiano esattamente come e dove collocarlo. Posatelo delicatamente in bocca, senza masticare, notando innanzitutto come ci è arrivato. Esplorate per qualche momento l’acino d’uva passa con la lingua e le sensazioni che suscita in voi.

6 – Assaporare

Quando siete pronti, preparatevi a masticare l’acino d’uva passa, notando come e dove deve collocarsi per la masticazione. Poi, molto consapevolmente, date un morso o due e notate che cosa succede subito dopo, facendo esperienza delle eventuali ondate di gusto che emana mentre continuate a masticarlo. Senza ancora ingoiarlo, notate le semplici sensazioni generate nella vostra bocca dal gusto e dalla consistenza dell’acino d’uva passa e come esse possano cambiare nel tempo, momento per momento, oltre a prendere nota di eventuali cambiamenti nell’oggetto stesso.

7 – Ingoiare

Quando vi sentite pronti a ingoiare l’acino d’uva passa, vedete se prima di tutto riuscite a percepire l’intenzione di ingoiare mentre essa emerge, in modo da sperimentare consciamente anche tale intenzione, prima di procedere.

8 – Seguire le sensazioni

Infine, vedete se riuscite a sentire ciò che rimane dell’uva passa mentre scende nello stomaco e a percepire le sensazioni del corpo nel suo complesso, al termine di questo esercizio di consapevolezza nel mangiare.

I pensieri rigidi, le mani pulite e Amleto


I Pensieri rigigi, le mani pulite e Amleto. Sull’ultimo numero dell’American Journal of Psychiatry sono stati pubblicati i risultati di un lavoro che potrebbe confermare un’ipotesi cognitiva del disturbo ossessivo compulsivo. La tendenza di questi pazienti a nutrire dubbi ossessivi (per esempio: avrò davvero le mani pulite? Chi mi assicura che le abbia pulite in ogni momento della giornata? E se le avessi sporcate senza rendermene conto?) e comportamenti di controllo compulsivi (dato che non esiste la certezza di avere le mani pulite, me le lavo in continuazione) potrebbe dipendere da uno stile di pensiero rigido e poco flessibile. Del tipo: l’idea sottostante all’ossessione delle mani pulite dipenderebbe da una definizione di pulizia rigida e irrealistica. Il che vuol dire che il paziente ritiene che sia accettabile solo la pulizia perfetta e assoluta in ogni momento della giornata. E se accettiamo questo criterio, davvero abbiamo sempre le mani sporche.

Ma non basta. I ricercatori hanno anche dimostrato che l’ossessività dipende anche da una particolare rigidità nella organizzazione dei propri obiettivi personali significativi, a breve e lungo termine. Che vuol dire? Torniamo all’esempio dell’igiene delle mani. Le mani pulite non sono solo un valore in sé, ma servono anche a scopi a lungo termine: per esempio per curare l’accettabilità sociale, la possibilità di intrecciare relazioni gratificanti con gli altri. Relazioni di vario tipo: professionali, amichevoli e/o amorose.

Per non far diventare le mani pulite un ossessione occorre ricordare a cosa ci serve la pulizia delle mani: un paio di mani sporche ci danneggiano con i colleghi, gli amici, il partner. Certo, l’igiene è anche un valore in sé. Ma possiamo gestire bene questo obiettivo solo se sappiamo iscriverlo in una famiglia più ampia di obiettivi complessi: gli obiettivi sociali. Se invece tutto si irrigidisce, se l’igiene delle mani diventa un obiettivo in sé irrinunciabile e non modulabile, ecco che, paradossalmente, diventiamo disposti al sacrificare il nostro benessere sociale pur di avere sempre le mani perfettamente pulite. Ovvero, potremmo preferire di rinchiuderci in casa, pur di poter passare serate intere a lavarci le mani.

Tutto questo è utile al terapeuta? In parte si. Gli dice che per il paziente ossessivo è bene apprendere uno stile di ragionamento più flessibile, capace di valutare la ragionevolezza degli obiettivi e la capacità di stabilire delle priorità. Ne vale la pena rinunciare agli amici per un paio di mani nette e impeccabili? Certo, rimane il sospetto che questi studi sui processi mentali non riescano poi a catturare certi stati d’animo che emergono più facilmente in seduta e non nella stanza del laboratorio. Per esempio che in realtà il soggetto ossessivo si senta profondamente inadeguato nelle situazioni sociali, o ancor peggio, amorose.

Non è solo questione di pensiero rigido o flessibile. Confessiamolo: è anche vero che la vita sociale non è affatto facile. Ci fornisce gioie, ma anche dispiaceri. Per godersela, occorre saper essere simpatici e brillanti. Occorre saper gestire eventuali (e inevitabili) gaffe e defaillance. Occorre sapere accettare la derisione e la provocazione che gli altri a volte (o spesso) ci infliggono per mera superficialità o, peggio, per cattiveria. E, a pensarci bene, chi mai sopporterebbe “il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri”?  (Amleto, atto terzo, scena prima). E così via.

Forse hanno ragione gli ossessivi. Certe sere d’inverno è meglio starsene a casa a lavarsi le mani. Fa freddo là fuori.

 

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Mal di testa? Meditate


Niente più pillole, sciroppi o iniezioni, basta un’ora di meditazione e il dolore se ne va. In uno studio pubblicato dal Journal of Neuroscience e condotto da un gruppo di ricercatori del Wake Forest Baptist Medical Center di Winston-Sale (Usa) la meditazione avrebbe un potere analgesico sul dolore.

Gli scienziati hanno selezionato un campione di soggetti sani composto da 15 volontari senza alcuna esperienza di meditazione e li hanno sottoposti ad un training di Mindfullnes. Tramite la tecnica di “attenzione focalizzata” hanno insegnato ai soggetti a concentrare la mente sul respiro, ad allontanare i pensieri intrusivi e le emozioni negative’.

Il trial consisteva nel posizionare sotto la gamba destra dei soggetti un’apparecchiatura generante calore dolorifico raggiungendo la temperatura di 49°, mentre i soggetti erano impegnati in un training di meditazione della durata di 20 minuti. Prima e durante la meditazione i soggetti venivano sottoposti ad una particolate tecnica di risonanza magnetica, l’Arterial Spin Labelling, in grado di rilevare l’intensità del dolore attraverso la mappatura del flusso sanguigno.

Dai dati emergerebbe una riduzione della percezione dolorifica dal 40% fino al 93% durante la meditazione, accompagnata anche dalla diminuzione di circa il 57% della percezione soggettiva di fastidio e dispiacere conseguente alla sofferenza. Le scansioni hanno individuato a livello cerebrale una sostanziale riduzione dell’attività della corteccia somato-sensoriale notoriamente coinvolta nella genesi della sensazione di dolore. Non basta. Tramite la meditazione venivano attivate altre zone fondamentali implicate nella percezione dolorosa: il cingolo anteriore, l’insula anteriore e la corteccia fronto-orbitale. Questo circuito elabora i segnali dolorosi, definendo durata ed intensità del dolore percepito.

Secondo gli autori, il punto di forza della meditazione sarebbe proprio la capacità di coinvolgere più aree cerebrali, che permetterebbero un’alterazione della costruzione dell’esperienza dolorosa modificandone l’intensità delle informazioni afferenti. Il risultato è una significativa diminuzione della percezione del dolore. Fadel Zeidan, autore dell’articolo, e i suoi collaboratori ipotizzano addirittura l’utilizzo delle tecniche meditative come sostituto di terapie standard.

Se queste ipotesi dovessero trovare riscontro in ulteriori studi sarebbe un’ulteriore conferma di quanto lo stato mentale possa influenzare le sensazioni corporee tanto da essere più potente di qualsiasi antidolorifico.

Quindi meditate gente, meditate.

F. Zeidan, K. T. Martucci, R. A. Kraft, N. S. Gordon, J. G. McHaffie, R. C. Coghill (2011). Brain Mechanisms Supporting the Modulation of Pain by Mindfulness Meditation. The Journal of Neuroscience, 31, 5540-5548.

Magro è bello? Dipende dalle latitudini!

Romina Brambilla.  


Se nel mondo Occidentale contemporaneo le diete e la magrezza sono diventate una vera e propria “ossessione culturale di massa”, in Mauritania, stato dell’Africa Occidentale con la minore densità abitativa del mondo, vale esattamente il contrario. In questo Stato resiste ancora oggi l’antica pratica tribale del LEBLOUH, consistente nel far ingerire fino alla nausea enormi quantità di cibo a bambine e preadolescenti, per renderle spose appetibili e procurare loro un buon e “precocissimo” matrimonio. Questo modello estetico, giunto sino ai giorni nostri, affonda le sue radici in un tempo lontano quando nel deserto le mogli degli uomini più importanti della tribù locale, per sfuggire al caldo, non uscivano mai dalla tenda e passavano le loro giornate mangiando e dormendo, fermamente convinte che “le dimensioni di una donna siano proporzionali allo spazio occupato nel cuore degli uomini”. L’obesità della sposa è, infatti, associata alla prosperità, al potere e alla bellezza; un corpo magro e filiforme, non è solo considerato poco attraente dal punto di vista fisico, ma anche fonte di vergogna per la famiglia, che nel concedere in sposa un’esile fanciulla, potrebbe correre il rischio di essere considerata “famiglia poco prestigiosa ed incurante delle tradizioni”. Questa forma di “binge eating” indotto è diffusa soprattutto nelle zone rurali del Paese ed è facilitata dalla presenza di vere e proprie “fattorie dell’ingrasso”, che al pari dei nostri centri fitness più avanzati, modellano il corpo delle giovani, trasformandole in poco tempo da minute bambine a matrone oversize. Al posto dei personal trainers, vi sono signore, specializzate nella pratica dell’ingrasso, che propongono alle giovani un regime alimentare giornaliero estremamente efficace e crudele nella sua semplicità: trangugiare per tre volte al giorno enormi quantità di datteri, couscous, miglio, burro e latte di cammella. La tortura inizia a cinque anni e se tutto va nel verso giusto le bambine, promesse spose, arrivano a 12 anni a pesare tra i 60 e i 100 kg. Alla fine della “cura” alcune ragazze faticano a camminare per il troppo peso accumulato e dimostrano il doppio della loro età.

Come è facile immaginare la pratica dell’ingrasso è portatrice di numerosi problemi, soprattutto legati all’obesità. Il governo della Mauritania ha pertanto lanciato diverse campagne di “desensibilizzazione”, puntando soprattutto sui rischi connessi alla salute. Se nelle zone rurali, dove le campagne di informazione promosse dal governo e da alcune associazioni locali, non sono mai arrivate, tanto che la pratica dell’alimentazione forzata coinvolge ancora l’80% delle giovani donne, in città il vento sta cambiando. Nella capitale Nouakchott – dove pure si vendono pillole superenergetiche, barrette ipercaloriche e persino prodotti a base di ormoni o di cortisone – la percentuale scende sotto il 10%. Oltre alla scolarizzazione, le maggiori “spallate” alle tradizioni arrivano da internet e dalle tv satellitari che portano in casa nuovi modelli culturali in relazione all’aspetto corporeo: corpi snelli e tonici. Così ogni sera migliaia di giovani mauritane riempiono le palestre o corrono lungo i viali cittadini. Madide di sudore e sorridenti. Sebbene rimangano alcuni estimatori delle forme sovrabbondanti, secondo alcuni sondaggi anche gli uomini, nelle città, sembrerebbero preferire compagne snelle ed atletiche, probabilmente conquistati da bellezze d’importazione occidentale, tanto da far dire ad Jussuf, negoziante di 19 anni intervistato dalla BBC: “Vogliamo mogli magre!”.

La moda e i mezzi di comunicazione, al pari delle tradizioni, rivestono pertanto un’enorme capacità di influenzare. Non sono entità culturali isolate ma creano e riflettono valori e interessi culturali dominanti, anche nell’atteggiamento nei confronti del corpo, tanto da riuscire a modificare “dimensioni di una donna nel cuore di un uomo”. Voi che ne pensate?

Fonti e bibliografia

www.magharebia.com. http://www.corriere.it/esteri/09_febbraio_25/mauritania_donne_grasse_viviana_mazza_d3b7bbde-0347-11de-a752-00144f02aabc.shtml
Gordon, R. (2004). Anoressia e Bulimia, Anatomia di un’epidemia sociale. Raffaello Cortina Editore

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