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Il cambiamento: possiamo prenderla con filosofia? – Viva tutto! Di Bolelli e Cherubini

Il modo migliore per comprendere un libro dal titolo un po’ indecifrabile è leggerlo. Anzi, parlarne con l’autore. E’ quanto accaduto ad un piccolo sodalizio di ricerca culturale di Studi Cognitivi composto da Elena Malgrati e dal sottoscritto. Il libro è “Viva tutto!” (2010) di Franco Bolelli e Lorenzo Cherubini, meglio noto come Jovanotti, e ripercorre un lungo scambio di idee che i due hanno intavolato attraverso lettere, mail e conversazioni vis à vis.
Cambiamento © Orlando Florin Rosu - Fotolia.com

 

 

 

 

Franco Bolelli è un filosofo che si occupa di innovazione culturale, nuove modalità di comunicazione, potenzialità del progresso umano. Si tratta di un libro molto stimolante, nel quale lo sguardo più fanciullesco di Jovanotti si incontra con le consapevolezze talvolta disincantate di uno studioso dell’animo umano. Il titolo è stato il primo argomento di dibattito tra me ed Elena Malgrati; come possiamo intendere “Viva tutto!”, specie se consideriamo le molteplici esperienze negative che l’uomo nella propria individualità e l’umanità nel complesso della storia vivono e hanno attraversato? Si tratta di un’espressione ingenua che mira a promuovere un libro o c’è qualcosa di più? Curiosi di appurarlo e motivati dalla presenza nel testo di numerosi spunti che potevano interessare anche la nostra pratica clinica, ci siamo confrontati con Franco Bolelli ricevendone l’impulso definitivo a scrivere un articolo che sarà pubblicato sui “Quaderni” Sitcc. “Viva tutto!” è la sintesi di alcune indicazioni molto preziose per la terapia cognitiva, che in parte abbiamo accostato al sassaroliano “ogni cosa è per noi”. L’esperienza umana contiene in sé una spinta propulsiva alla vita che all’interno di un setting clinico possiamo identificare con le risorse attuali e potenziali del paziente. Chi chiede il nostro aiuto sperimenta una condizione in cui le possibilità evolutive sono bloccate da credenze disfunzionali, costrutti rigidi, modalità di relazione interpersonale che organizzano i vissuti attorno a bisogni e scopi che il soggetto non riesce né a gestire emotivamente né a modificare in maniera strategica.

La terapia accresce la consapevolezza dei processi, le capacità autoriflessive e questo può determinare un progresso positivo nel funzionamento psicologico, ma un cambiamento sostanziale richiede che il lavoro clinico raggiunga in profondità le potenzialità creative, ristrutturanti dell’individuo. Ci riferiamo non solo a ciò che egli mostra di saper fare nel presente, ma anche ai percorsi che potrebbe intraprendere abbandonando la rigida protezione delle proprie certezze ed esplorando alternative innovative.

La psicoterapia, cogliendo e validando la sofferenza del paziente nel prendere distanza da schemi patologici divenuti per lui una base sicura, si differenzia da alcuni orientamenti di pensiero più recenti che conferiscono alle abilità individuali un potere curativo pressoché assoluto, sottostimando il peso degli ostacoli ambientali e della storia personale. “Viva tutto!” e le convinzioni di Franco Bolelli coniugano la fiducia nell’homo faber suae fortunae ad un’attenzione verso le difficoltà poste da nuove esigenze di adattamento al contesto di vita, parallele alla formazione di una realtà sociale caotica, aggressiva e spesso incapace di ancorare le relazioni a valori condivisi. La possibilità di una scelta autonoma in grado di superare e integrare la sofferenza ci fa pensare a tante situazioni cliniche incontrate; la nascita, nella vita del paziente, di uno scenario evolutivo che non sia solo la somma delle parti che egli è riuscito razionalmente a legare, ma anche e soprattutto il risultato di un’originale scoperta di sé, costituisce il reale obiettivo della psicoterapia e pone presupposti affascinanti per un dialogo tra essa ed altre discipline, in particolare la filosofia.

Mercoledì 28-09-2011


Fonte: Plos ONELa percezione dell’appartenenza etnica varia in funzione dei vestiti indossati.
Un nuovo studio pubblicato lunedi su PLoS ONE evidenzia come indizi relativi a un certo status sociale, ad esempio il vestiario indossato da una persona, influenzino la percezione dell’appartenenza etnica. I ricercatori hanno presentato ai soggetti sperimentali alcuni visi computerizzati, ambigui dal punto di vista della pigmentazione della pelle, presentati a mezzo busto e vestiti rispettivamente in giacca e cravatta oppure in tenuta da guardiano; hanno quindi chiesto loro di determinarne l’appartenenza etnica di tali visi. Dai risultati è emerso che, a parità di pigmentazione della pelle dei volti presentati, quelli in giacca e cravatta avevano più probabilità di essere valutati come caucasici “bianchi”, al contrario di quelli in tenuta da guardiano che venivano più facilmente valutati come afroamericani.

Estetica & Neuroscienze. L’estetica è un concetto sviluppato dalla filosofia dell’arte nel diciottesimo secolo. Teoricamente l’apprezzamento estetico deriverebbe da processi diversi da quelli coinvolti nella valutazione degli oggetti ordinari. Nuove ricerche nel campo della biologia evoluzionistica e delle neuroscienze stanno ora rovesciando questo paradigma di divisione tra ciò che è arte e ciò che non lo è. Dall’utilizzo delle mappature di neuroimaging risulta evidente che le stesse aree attivate nell’apprezzamento estetico di un quadro sono in funzione nel determinare se una fetta di torta è o meno appetibile. Trovate i risultati della ricerca su Scientific American.

Autocontrollo, cibi grassi e funzione esecutiva. Uno studio coordinato da Peter Hall, direttore del Health Behavior Research Lab – University of Waterloo sottolinea il ruolo rilevante della funzione esecutiva nel moderarsi rispetto al consumo di cibi grassi. I dati raccolti su 208 adulti sottoposti a specifici compiti sperimentali per valutare la funzione esecutiva, evidenziano una correlazione negativa tra prestazioni ottimali in tali tasks e consumo di cibi ad alto contenuto di grassi; d’altro canto coloro che avevano prestazioni più scadenti presentavano anche un maggiore consumo di tali cibi.

La caffeina riduce il rischio di depressione nelle donne? Le donne che bevono almeno due tazze di caffè al giorno sarebbero meno a rischio di sviluppare sintomi depressivi. Lo suggerisce una ricerca pubblicata su Archives of Internal Medicine, e riportata anche da BBC News, che ha coinvolto più di 50.000 donne americane. Gli esperti ad ogni modo riconoscono che tale studio debba essere approfondito soprattutto per comprendere i meccanismi che porterebbero a tale riduzione del rischio di depressione. Quindi, donne è troppo presto per concedersi caffè a scopi preventivi…

Menti più veloci, teenagers più intelligenti. Gli adolescenti diventerebbero più intelligenti poiché le loro menti sarebbero sempre più veloci. Questa è una delle conclusioni cui è giunto un gruppo di studiosi della University of Texas, a San Antonio. Lo studio verrà pubblicato nella prossima edizione di Psychological Science. I ricercatori per identificare la correlazione positiva tra intelligenza e velocità mentale hanno analizzato i risultati di 12 diversi test di intelligenza e di velocità mentale somministrati a 6,969 adolescenti nel 1997 all’interno del National Longitudinal Survey of Youth.

 

Control and perceived criticism in eating disorders

Control and perceived criticism in eating disorders: their psychopathological role and significance for treatment Sandra Sassaroli+, Giovanni M. Ruggiero° + Studi Cognitivi, Post-graduate cognitive psychotherapy school, Foro Buonaparte 57, 20121 Milano;

Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Post-graduate cognitive psychotherapy school, Foro Buonaparte 57, 20121 Milano

La felicità è negli occhi di chi guarda

Gli sguardi o la loro assenza possono discriminare gli stati d’animo.

Sad eyes © Konstantin Sutyagin - Fotolia.comBruce Springsteen cantava “gli occhi tristi non mentono mai”, uno studio sembra confermare che di certo sono “sfuggenti”. J.Hills e Michael B. Lewis, due ricercatori, rispettivamente, della Ruskin University di Cambridge e della Cardiff University, hanno confermato quanto aveva già suggerito, nel 1982, uno psicologo di Stanford, il professor I.H. Gotlib, ovvero che le persone depresse tendono ad evitare di guardare l’altro negli occhi.

L’esperimento che hanno condotto i due studiosi consisteva nel far ascoltare a 36 partecipanti, divisi in tre gruppi, tre tipi di musica diversi: una allegra, la siglia di A-Team, una triste, il Requiem di Mozart e una riconosciuta come neutra, il tema musicale di “Caccia ad Ottobre Rosso”, con lo scopo di indurre nei soggetti uno stato emotivo rispettivamente a valenza positiva, negativa o neutra.

Successivamente veniva testata la capacità dei soggetti di trovare delle piccole modifiche realizzate al computer sui dettagli di immagini raffiguranti volti. L’esperimento ha permesso ai ricercatori di appurare le differenze nel processo di riconoscimento delle espressioni facciali influenzato dallo stato emotivo dei soggetti, basandosi su quali zone del volto i tre gruppi focalizzavano maggiormente la loro attenzione.

I partecipanti che avevano ascoltato la musica allegra si focalizzavano per un tempo significativamente maggiore sugli occhi, non solo rispetto ai soggetti “tristi”, ma anche al gruppo di controllo.

Che la capacità di riconoscere le espressioni del volto giocasse un ruolo importante nelle interazioni sociali era noto da tempo. Ciò che di nuovo suggerisce l’esito di questo studio è che uno stato emotivo più positivo, dato per esempio dall’ascoltare una musica allegra, può avere implicazioni sulle modalità con cui focalizziamo la nostra attenzione nel riconoscere le emozioni dal volto degli altri e quindi anche sul modo di vivere le interazioni e le relazioni con gli altri.

Biografia:

  • Hills P. J., Lewis M. B. (2010). “Sad people avoid the eyes or happy people focus on the eyes? Mood induction affects facial feature discrimination“. British Journal of Psychology (2011), 102, 260–274.
  • Gotlib, I. H. (1982). “Self-reinforcement and depression in interpersonal interaction: The role of performance level“. Journal of Abnormal Psychology, 93, 19–30. doi:10.1037/0021-843X.93.1.19

Come la mente reagisce ai “non luoghi”

Restaurant scene - © Adrian Hillman - Fotolia.comLa notizia del suicidio di una donna in un locale di Torino, unita all’annotazione che gli avventori hanno continuato a consumare i cocktail, ci fa riflettere su come la nostra mente -e il nostro cuore- reagiscono alle circostanze e alle situazioni. Continua a leggere su Affari Italiani.

EDRS 2011: Le neuroscienze all’assalto dei disturbi alimentari

Edimburgh - Licenza d'uso: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons“Il rischio di contrarre anoressia nervosa aumenta in individui col gene 5-HTTLPR-S/S che ricevono l’allele MAOA-L da madri MAOA-S/L”. Quando ho sentito questa frase, ascoltando la sessione plenaria di Kenneth Nunn, neuropsichiatra infantile australiano appassionato di disturbi alimentari e della nuova neuroscienza del cervello, una frase mi ha schiaffeggiato la mente: “che ci faccio qui?”

Che ci faccio qui? Sono a Edimburgo, al congresso della EDRS (Eating Disorders Research Society). È il terzo congresso che mi concedo in un mese, e comincio a pensare che forse ho esagerato. D’accordo, il dovere e il piacere di tenersi aggiornati, ma mi chiedo quanto sia sano collezionare congressi con la stessa inesorabile costanza con cui il nostro primo ministro colleziona avventure boccaccesche e intercettazioni.

E invece il congresso è molto interessante, anche se non c’è quasi nulla di cognitivo. La plenaria è militarmente occupata da una banda di psichiatri seguaci delle neuroscienze: Brian Lask, Kenneth Nunn, Mark Rose e Ian Frampton. Uno dopo l’altro i quattro presentano un modello intregrato neurologico e psicologico dei disturbi alimentari. La mente direttiva del gruppo è evidentemente Nunn, uno studioso che da anni approfondisce la mappatura delle funzioni psicologiche delle varie zone del cervello, dando un contributo forte al nuovo paradigma connessionista della mente/cervello che ha sostituito il vecchio modello computazionalista della mente, quello per intenderci su cui noi terapeuti cognitivi abbiamo campato per un paio di decenni. Campato un po’ di rendita a volte, la rendita di chi poteva automaticamente auto-attribuirsi il titolo di psicoterapeuta scientificamente corretto e ammodo grazie alla parentela con i cugini scienziati cognitivi puri della mente, tutti più o meno computazionalisti (cioè seguaci del modello scopi-credenze; insomma come noi terapeuti, ma a un livello di sofisticazione più alto).

Ma torniamo ai neuroscienziati di Edimburgo. Il modello di Nunn non è poi particolarmente rivoluzionario. Dice delle cose che noi terapeuti cognitivi avevamo un po’ detto: che il disturbo alimentare è una forma di ansia. Questo è il principio di partenza.

Ma naturalmente per Nunn l’ansia non è una credenza cognitiva, o non è solo una credenza cognitiva, ma è una funzione neurocognitiva stanziata nell’amigdala. La domanda successiva che si pone Nunn è: perché questa focalizzazione dell’ansia sul controllo del cibo e dell’aspetto corporeo? La risposta che egli da non è cognitiva, ma neurocognitiva: perché risulterebbero disturbate anche funzioni  e zone cerebrali specifiche che controllano la rappresentazione e la definizione di sé in termini sia sociali che dell’aspetto corporeo. Inoltre sarebbero disturbati anche centri neurologici più primitivi come quello del controllo della fame e della percezione viscerale. Insomma l’anoressia è uno stato di allarme ansioso che verso l’alto, cognitivamente, genera timori e inadeguatezze sociali e verso il basso difficoltà e confusioni nella rappresentazione e percezione del corpo, della fame e della sazietà e in generale delle percezioni corporee, ricevute a livello centrale in forma di esperienze terrificanti e traumatiche.

Questa ipotesi viene ripetuta per quasi tutto il congresso da vari studiosi, tutti portando dati di neuro-imaging, livelli ormonali, attivazione cerebrale e genetica. Una vera e propria ondata neuroscientifica invade il congresso. Per esempio Favaro e Santonastaso, autori di uno degli studi più ammirati, portano dati che dimostrano l’attivazione alterata di non so quali vie cerebrali dorsali e ventrali, alterazioni che dimostrano come le anoressiche abbiano dei gravi deficit nella valutazione nel tempo presente della loro forma corporea. Invece l’iperattivazione di altre vie dimostrerebbe che la rappresentazione del corpo rimarrebbe fissata in una informazione a lungo termine del passato, la situazione di partenza in cui erano cicciottelle prima di ammalarsi. Insomma queste si vedono sempre grasse.

Riassumendo, l’ipotesi cognitiva del disturbo alimentare come variante dell’ansia sociale e dell’ossessività resiste, ma le neuroscienze portano una serie di dati che sottolineano anche l’importanza dei disturbi dei centri neurali della rappresentazione corporea e della percezione viscerale. Dall’incontro dei due disturbi, cognitivo ansioso e neurologico percettivo, scaturirebbe il disturbo alimentare.

Il definitivo trionfo di questa ipotesi è stato suggellato dal prestigiosissimo nome di Baron-Cohen, il famoso neuroscienziato, che ha portato dati a favore dell’esistenza di stati autistici nell’anoressia, difficoltà di elaborazione dell’informazione sociale a livello viscerale che si trasformano in stati emotivi terrificanti che la paziente anoressica poi controlla concentrandosi su un dato numerico, il peso del corpo. L’autismo faciliterebbe la tendenza a focalizzarsi su informazioni quantitative piuttosto che qualitative e viscerali, meno prevedibili. Ma al tempo stesso queste informazioni quantitative in qualche modo e metaforicamente alluderebbero alle paure di tipo sociale e viscerale che tormentano l’anoressica.

E la terapia? Le proposte sono essenzialmente due: ancora una volta la mindfulness (ebbene si, sta diventando un’ossessione e una panacea) e la cosiddetta “cognitive remediation therapy” di Kate Tchanturia.

La mindfulness è citata con frequenza ma un po’ genericamente. A domanda specifica: “si, ma di quale mindfulness si parla?” molti hanno risposto citando il protocollo della Linehan adattato ai disturbi alimentari. E basta, senza poi approfondire troppo l’argomento.

Passando alla cognitive remediation therapy (CRT), questo è un protocollo ideato da Kate Tchanturia, terapeuta che lavora a Londra nel gruppo di Janet Treasure. Il nocciolo dell’idea è che i disturbi cognitivi dell’anoressia vadano affrontati non al livello dei contenuti cognitivi, la paura di ingrassare, il perfezionismo o il senso d’inadeguatezza, ma a livello dei processi, rieducando la paziente a ragionare in maniera meno ristretta e autistica e più globale e flessibile, attraverso un vero e proprio addestramento cognitivo che somiglia più a un apprendimento che a una terapia.

E la terapia cognitiva standard? Fairburn ha brillato non solo per la sua assenza, ma anche per il fatto che nessuno si è accorto della sua assenza. Il che è più grave. La terapia cognitiva standard per i disturbi alimentari non è morta, ma le si conferisce il rispetto che si tributa a una vecchia amica che non ha però nulla di nuovo da dire. Nessuno mette in discussione che rimanga il trattamento di elezione per la bulimia non complicata da disturbo di personalità. Ma ormai per l’anoressia e per la bulimia complicata l’orientamento è verso la mindfulness o la CRT della Tchanturia. C’è da sottolineare una cosa: in un ambiente non cognitivo come la EDRS nessuno si sogna di definire queste nuove terapie come trattamenti cognitivi di terza ondata. No, semplicemente sono nuove terapie, senza sottolineare troppo l’aggettivo cognitivo, anche nel caso della CRT.

Tutto questo, credo, è un preciso messaggio per noi terapeuti cognitivi. Ormai la sensazione generale è che il lavoro sulle credenze cognitive sia ritenuto esaurito. Molti al di fuori del campo cognitivo sono disposti a riconoscerne l’importanza, ma pochi si aspettano qualcosa di nuovo da lì.

Si tratta di uno sviluppo che è parallelo nel campo delle scienze cognitive al superamento del modello computazionale classico, quello per intenderci che riteneva di poter descrivere l’intera attività mentale in termini di  algoritmi informativi perfettamente rappresentabili nel campo di coscienza: insomma le credenze.  La riscoperta del cervello va in parallelo con la scoperta dei limiti di padronanza, di mastery, della conoscenza esplicita sugli stati mentali e corporei. Si valorizzano invece stati mentali non compiutamente rappresentazionali, ma di tipo motorio-viscerale ed emotivo. Il che, in parole semplici, significa soprattutto terapie al tempo stesso più esperienziali, più meditative e più comportamentali.

Insomma, cose non troppo diverse dalla terza ondata cognitiva. Ma va ripetuto: con una differenza. Che questi neuropsichiatri non sono cognitivisti. O non lo sono particolarmente. E quindi non sono disposti a chiamare “terza ondata cognitiva” queste nuove terapie. Anzi, quando si tratta di parlare di stati emotivi intensi e vividi, un po’ come fa Young nel campo cognitivo, questi neuropsichiatri non esitano a denominare quelle tecniche con il termine “tecniche psicodinamiche”. Attenzione quindi a ciò che sta accadendo. La relazione speciale tra terapia cognitiva e scienza cognitiva della mente è finita. Ora c’è questa nuova neuroscienza della mente/cervello, che a quanto pare non riserva trattamenti di favore alla terapia cognitiva rispetto ad altre terapie.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011

Kernberg & Clarkin - Padova 2011L’occasione è ghiotta, Clarkin e Kernberg con la TFP (Transference Focused Psychotherapy) rappresentano il modello più evoluto, nell’ambito del mondo psicanalitico, per il trattamento dei disturbi gravi. La rilettura del DSM in chiave di alta e bassa intensità borderline, sembra clinicamente intrigante. Kernberg si presenta come la vecchia star, instancabile e pieno di illuminazioni cliniche. Clarkin, il sistematizzatore che si muove sullo sfondo con in mano la ricerca e la diffusione del modello. E’ sempre bello assistere alle sedute che portano con generosità.

Cosa del loro modello può essere realmente utile ad un cognitivista? Innanzitutto la capacità di monitorare, analizzare e gestire in modo fine la relazione con i pazienti. La cura degli aspetti della relazione è minuziosa. Nel mondo cognitivista questo aspetto è ancora di recente acquisizione, abbiamo da imparare. L’esperienza italiana sulla relazione con il paziente deve molto a Giovanni Liotti.

Poi il contratto, esplicito, netto, chiaro. Prima del contratto ci si concentra solo a capire quali siano i modelli relazionali disfunzionali principali, non si interpreta, non si interviene. Solo dopo il contratto si può lavorare all’interpretazione, ma all’interno di un quadro di setting protetto con le unghie e con i denti. Poi il coraggio di avere con i pazienti un assetto collaborativo di fondo ma la capacità di un confronto anche duro, con lo scopo di proteggere in ogni momento gli scopi strategici dell’intervento.

Note curiose: Kernberg nelle sedute chiede sempre al paziente: “cosa pensa?”, qualcuno nel pubblico gli chiede: “perché non ha chiesto anche cosa prova?” Kernberg risponde: “non mi piace chiedere cosa si prova (feelings) perche invito il paziente con questa domanda a un eccessivo allargamento dei significati e questo rende vaga la risposta, in fondo ogni volta che si prova qualcosa si pensa anche e quindi meglio andare sul preciso”. Questo è illuminante per noi cognitivisti che siamo spinti da tutte le parti a vergognarci di chiedere cosa pensi, come se fosse una naturale limitazione del campo di indagine, il segno di una scarsa attenzione alle emozioni. Un vecchio psicanalista ci insegna come essere nuovi cognitivisti.

Kernberg & Sassaroli - Padova 2011
Otto Kernberg e Sandra Sassaroli

Cosa mi manca nel modello Kernberg? Le indagini e gli interventi della TFP si svolgono essenzialmente nell’area delle relazioni oggettuali, l’io e l’altro e il rapporto tra loro. Rimane la fiducia tipicamente psicodinamica nell’idea che la comprensione dei movimenti relazionali che si giocano nel rapporto transferale e controtransferale, bastino e mettano in moto il cambiamento “di per sé”.

Manca allora la fatica (tipicamente cognitivista) a non limitarsi a svelare i conflitti ma aiutare il paziente a pensare, cercare, sperimentare le alternative anche concrete ai nodi patologici e ai comportamenti sintomatici.

Venerdì 23-09-2011

rassegna stampaUomini e donne sono ugualmente collaborativi? I nostri stereotipi e la psicologia del senso comune generalmente ci portano a credere che le donne sarebbero più cooperative degli uomini. Una meta analisi effettuata su più di 50 anni di studi e pubblicata su Psychological Bulletin evidenzia come uomini e donne cooperano in ugual misura se posti in situazioni in cui obiettivi individuali e di gruppo sono in opposizione. Attenzione però: gli uomini sarebbero più cooperativi tra di loro rispetto a quanto non lo siano donne con altre donne! A quali condizioni le donne tenderebbero a collaborare maggiormente rispetto agli uomini? Solo se in gruppo con il sesso opposto!

Ridi che ti passa l’agitazione. Secondo uno studio che è stato presentato ieri presso il National Dementia Research Forum 2011, la cosiddetta “humour therapy” sarebbe efficace tanto quanto gli ampiamente usati farmaci antipsicotici, per la gestione dell’agitazione e dei disturbi comportamentali in pazienti con demenza. SMILE study, così il nome del progetto di ricerca in questione, ha infatti dimostrato una diminuzione dei comportamenti agitati e una flessione del tono dell’umore nei pazienti affetti da demenza non solo durante le 12 settimane del programma di Humor Therapy, ma anche un mantenimento di tali miglioramenti anche a 26 settimane di follow-up.

Disturbo ossessivo-compulsivo: non solo pillole, ma anche parole. Psychiatric News riporta oggi i risultati di una ricerca pubblicata sul Journal of the American Medical Association in cui si illustrano i risultati di un trial clinico effettuato su 124 pazienti pediatrici (età compresa tra i 7 e i 17 anni) con una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). I risultati dopo 12 settimane mostrano come i pazienti sottoposti a una terapia cognitivo-comportamentale affiancata al trattamento farmacologico, abbiano risposto in maniera significativamente più positiva rispetto a quelli  trattati unicamente con i farmaci.

Più responsabilità per le donne, ma…meno sesso. L’aumento di responsabilità nella donna potrebbe portare a un calo dell’attività sessuale. E’ quanto suggerisce uno studio condotto dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. Ad ogni modo, tranquille occidentali: per ora lo studio ha analizzato donne residenti nei paesi dell’Africa Sub-Sahariana, evidenziando come l’aumento di autonomia della donna e maggior responsabilità nelle decisioni della vita familiare possa essere correlato a una diminuzione dell’attività sessuale.

La segregazione di genere a scuola: effetti sulla performance scolastica e stereotipi di genere. Science pubblica in questi giorni un interessante articolo in merito all’ educazione scolastica “separata” per femmine e maschi all’interno di classi omogenee. L’educazione basata sulla segregazione di genere non presenterebbe differenze significative in termini di esiti di apprendimento e performance scolastiche rispetto a programmi scolastici eterogenei dal punto di vista del genere. D’altro canto, secondo Fabes, autore dell’articolo, la separazione di maschi e femmine nei programmi scolastici renderebbe più salienti proprio gli stereotipi di genere.

Your first day of school will be scary!

Parents’ words and anxiety disorders – Part 1

Anxiety - © Abdone - Fotolia.comAnxiety disorders affect a range of individuals in marked and persistent ways. Unlike other clinical disorders (e.g. depression), anxiety disorders can begin to manifest themselves in early childhood, in some cases before a child is even ten years old. This is important as anxiety disorders not only have a profound and immediate impact on individuals’ quality of life, but for many, the disorder will run a chronic course. For instance, a study which examined 1,037 individuals’ mental health histories showed that 33% of those with a diagnosed anxiety disorder at age 32 also reported having an anxiety disorder in their early teenage years (Gregory et al. 2007).

While these disorders are unique because of their early age of onset, they also appear to have a debilitating effect on individuals later in life. Those with anxiety disorders have increased rates of financial dependency, suicidal ideation, lifetime comorbidity with other major disorders (e.g. depression), greater requirements for medical treatment and lower marriage rates (Schneier et al 1992). Given the combination of a possible early onset and the long lasting detrimental effects of anxiety disorders, researchers have investigated possible factors that could influence its development.

Children spend a great deal of their early lives speaking, playing and socializing with their parents. This time spent together has been the focus of much research, as parents who have an anxiety disorder tend to have children who develop them as well (Rapee & Spence, 2005). Thus, their interactions have been examined for specific behaviors that may encourage the development of shy and anxious behavior. These parental behaviors include an overanxious rearing style and, more specifically, anxiety provoking conversations between parents and their children. Specifically, in the context of anxiety, mothers are less positive, less likely in granting their children’s freedom, and more intrusive, negative and rejecting than mothers of non-anxious children (Rapee, 1997; Chorpita & Barlow, 1998).

Therefore, it appears that anxiety affects the way that parents interact with their children. As mentioned, specific differences have been found in parents’ behavior; however, there has been extensive work which examines the effect of anxiety on parents’ thoughts. In the next few weeks I will further discuss aspects of parental behaviors associated with the development of anxiety. Additionally I will discuss thought styles anxious parents have and how they communicated these thoughts to their growing children.

Bibliography:

  • Chorpita, B. F., & Barlow, D. H. (1998). The development of anxiety: The role of control in the early environment. Psychological Bulletin, 124, 1, 3 – 21.
  • Gregory, A. M., Caspi, A., Moffitt, T. E., Koenen, K., Eley, T. C., & Poulton, R. (2007). Juvenile mental health histories of adults with anxiety disorders. American Journal of Psychiatry, 164, 301 – 308.
  • Schneier, R. F., Johnson, J., Horning, D. C., Liebowitz, R. M., Weissman, M. M. (1992). Social Phobia. Archives of General Psychiatry, 49 (4), 282 – 288.
  • Rapee, R. M. & Spence, S. H. (2004). The etiology of social phobia: Empirical evidence and an initial model. Clinical Psychology Review, 24, 737 – 767.
  • Rapee, R., M. (1997). Potential role of childrearing practices in the development of anxiety and depression. Clinical Psychology Review, 17, 1, 47 – 67.

Quando le preoccupazioni fanno ammalare: il corpo saggio!

Somatizzazione - © Albix - Fotolia.comE’ ormai ampiamente riconosciuto, in letteratura e nell’esperienza clinica, che uno stile di pensiero ripetitivo, pervasivo e orientato in senso negativo, sia non solo una reazione comune ad eventi stressanti, ma in alcuni casi una risposta addirittura automatica che tutti noi utilizziamo a fronte di situazioni percepite come minacciose, incerte, nuove o ambigue.

L’intensità di questa risposta può in alcuni casi essere pericolosamente prolungata e incrementata da una difficoltà nel riconoscere segnali rassicuranti interni (emozioni, pensieri, ricordi,..)  o provenienti dall’esterno e nell’utilizzarli per smettere di preoccuparsi. La nostra tenacia nel rimuginare su scenari catastrofici può essere in questi casi così estrema e incontrollabile da invadere la mente fino ad assumerne il controllo e non fermarsi mai, finché un segnale più forte non arriva (finalmente!) alla nostra attenzione…

Vi è mai capitato che il vostro corpo “si ribellasse” inaspettatamente?

In una recente review (Verkuil, 2010) gli autori sostengono che il rimuginio cronico aumenti l’intensità del logorio che lo stress produce sul corpo. A dimostrazione del potere che questo stile di pensiero ha sul nostro organismo, alcuni studi ci dicono che anche livelli di rimuginio non patologici risultano positivamente associati alla percezione soggettiva di disturbi fisici tale che un intervento di riduzione forzata del rimuginio a soli 30 minuti al giorno, sembra in grado di produrre una significativa riduzione nelle lamentele fisiche. Questi effetti riguardano inoltre un ampio range di sintomi (mal di testa, dolori muscolari, gastriti, palpitazioni, tosse, vertigini, nausea,..), suggerendo il coinvolgimento di numerosi differenti sistemi biologici nella regolazioni degli stati emotivi negativi legati al rimuginio.

Insomma i rimuginatori somatizzano di più e il numero di lamentele fisiche appare direttamente proporzionale al tempo trascorso a rimuginare (Kaptein, 2005; Brosschot & Van der Doef, 2006).

Ma cosa succede quando il rimuginio riguarda preoccupazioni per la salute?

Il circolo vizioso che rende l’ipocondriaco “ingabbiato” nei suoi sintomi è la massima espressione di questo legame tra attività mentale e feedback corporeo. L’attenzione sproporzionata ai segnali del corpo aumenta il rimuginio e la percezione stessa di disagio fisico; in particolare la tendenza a catastrofizzare sui sintomi fisici sembra predire l’effettivo presentarsi di disturbi fisici ed è associata ad un aumento nella percezione del dolore (Devoulyte & Sullivan, 2003; Turner, Mancl, & Aaron, 2004). Come in molti disturbi psicopatologici, l’attenzione selettiva ci inganna e orienta a considerare solo alcune informazioni (sempre allarmanti!) provenienti dal corpo e ad interpretarle erroneamente come effettivi sintomi di malattia.

L’impatto delle somatizzazioni sulla qualità della vita è spesso enorme, il corpo si mantiene cronicamente in allarme e tende ad ammalarsi davvero, mentre le cure mediche non appaiono sempre risolutive. L’accesso ai servizi sanitari è notevolmente più alto in pazienti che presentano una tendenza alle somatizzazioni, ma il disagio psicologico (laddove riconosciuto!) non viene spesso “preso in carico” e curato attraverso un intervento psicoterapico appropriato. Il monitoraggio puntuale delle somatizzazioni e il loro affiancamento a stati mentali ed emotivi negativi, può favorire sul piano cognitivo una lettura diversa, dei sintomi fisici, mentre un buon lavoro sull’emotività può ridurre la necessità del corpo di inviarci segnali così forti e disturbanti!

La prima credenza disfunzionale da disputare sembra essere dunque l’idea che mente e corpo siano indipendenti l’uno dall’altro o peggio che il corpo non si accorga di quello che la mente pensa!

BIBLIOGRAFIA:

  • Verkuil, B., B., Brosschot, J.F., Gebhardt, W. A., Thayer, J.F, (2010). When Worries Make You Sick: A Review of Perseverative Cognition, the Default Stress Response and Somatic Health. Journal of Experimental Psychopathology, Vol.1, Issue 1, 87–118.
  • Kaptein, A. A., Helder, D. I., Kleijn, W. C., Rief, W., Moss-Morris, R., & Petrie, K. J. (2005). Modern health worries in medical students. Journal of Psychosomatic Research, 58, 453-457.
  • Brosschot, J. F., & Van Der Doef, M. (2006). Daily worrying and somatic health complaints: Testing the effectiveness of a simple worry reduction intervention. Psychology & Health, 21, 19-31.
  • Devoulyte, K. B. A., & Sullivan, M. J. L. P. (2003). Pain Catastrophizing and Symptom Severity During Upper Respiratory Tract Illness. Clinical Journal of Pain, 19, 125-133.
  • Turner, J. A., Mancl, L., & Aaron, L. A. (2004). Pain-related catastrophizing: a daily process study. Pain, 110, 103-111.

Clicca su “condividi” su Facebook: sì, ma solo se mi fa agitare, arrabbiare o divertire!

Social Network - © eve - Fotolia.comCondividi su Facebook: sentirsi spaventati, arrabbiati o divertiti porta le persone a condividere storie e informazioni

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Le persone spesso condividono storie, pubblicano link di notizie sulla propria pagina e raccontano a tutti dove si trovano in quel momento e cosa stanno facendo. Inoltriamo un articolo ai nostri amici (e spesso a molti conoscenti che si trovano nella lista degli “amici”), informiamo i nostri 200 amici che siamo in un ristorante o in un luogo di villeggiatura.

È vero, la trasmissione sociale esiste da quando esiste l’essere umano e l’avvento delle tecnologie legate al social network (Facebook e Twitter su tutti), quello cioè che viene chiamato il web 2.0 non ha fatto altro che velocizzare e semplificare meravigliosamente il modo con cui possiamo condividere informazioni con gli altri. Ma perché alcuni contenuti vengono condivisi più di altri e che cosa spinge le persone a fare “sharing”?

Queste domande se le sono fatte Johan Berger e colleghi dell’University of Pennsylvania. Secondo lo studio che hanno pubblicato su Psychological Science, la condivisione di storie e di informazioni è guidata in parte dall’arousal (l’arousal può essere definito come l’attivazione fisiologica che accompagna le emozioni, è parte integrante delle nostra vita emotiva): quando le persone sono fisiologicamente attivate, a causa di stimoli emotigeni ad esempio, viene attivato il Sistema Nervoso Autonomo (SNA), il quale “dà una spinta” alla social transmission.

In sostanza, se un messaggio risulta emotivamente evocativo ci sono più chance che venga condiviso su facebook.

Oltre a rilevare quanto l’attivazione emotiva abbia un ruolo chiave nella condivisione sociale, Berger, in un lavoro precedente, mostra qualcosa di interessante: l’arousal dovuto specificamente all’ansia o alla rabbia porta ad un aumento della condivisione mentre quello correlato alla tristezza la diminuisce. Come se anche il nostro Sistema Nervoso Autonomo avesse stabilito che è più “socially correct” condividere ed esprimere l’ansia o la rabbia piuttosto che la tristezza, forse perché le prime due sembrano essere emozioni meno “disvelanti” i nostri aspetti più profondi e più accettate socialmente.

Nel lavoro pubblicato su Psychological Science, Berger rileva che sentirsi spaventati, arrabbiati o divertiti porti le persone a condividere storie e informazioni. Tali emozioni sono caratterizzate da un alto livello sia di arousal sia di attività comportamentale, in opposizione con altre emozioni come la tristezza e la soddisfazione, tipici esempi di basso arousal e scarsa azione. Insomma, se qualcuno ci fa arrabbiare (piuttosto che rattristarci) siamo più propensi a condividerlo con amici e parenti.

Per testare la teoria secondo cui un certo tipo di arousal elevato promuove la condivisione di informazioni, Berger ha condotto due differenti studi.

In un primo studio, focalizzato su emozioni specifiche, 93 studenti hanno completato due esperimenti “non collegati l’uno con l’altro” (così è stato detto loro…). Nel primo, i soggetti hanno guardato alcuni video ansiogeni o divertenti (v. alto livello di arousal e altri che evocavano tristezza o soddisfazione (v. basso livello di arousal). Nel secondo, invece, ai soggetti è stato mostrato un articolo e un video emotivamente neutri e poi è stato chiesto loro se sentissero la spinta a condividerlo con amici e parenti. I risultati hanno mostrato che i soggetti che hanno provato le emozioni ad alto arousal erano significativamente più inclini a condividere con gli altri.

In un secondo studio, focalizzato sul meccanismo dell’arousal in generale, 40 studenti hanno completato due esperimenti “non collegati l’uno con l’altro” (così è stato detto loro…). Nel primo, ad alcuni è stato chiesto di rimanere seduti immobili per circa un minuto e ad altri è stato chiesto di “correre sul posto” per un minuto (un noto task per aumentare l’arousal). Dopo questo compito, è stato chiesto ai soggetti di leggere un articolo neutro online, dicendo loro che avrebbero potuto inoltrare il link all’articolo via e-mail a chiunque avessero voluto.

Risultati? I soggetti che avevano corso sul posto (e quindi presentavano un livello più alto di arousal) sono stati molto più propensi a inviare l’articolo via mail ad amici e parenti rispetto ai soggetti che sono rimasti seduti immobili per un minuto.

Ora sta a voi decidere se spostare la sedia davanti alla vostra scrivania e sostituirla con un pedometro per avere più post sulla vostra pagina facebook …

 

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BIBLIOGRAFIA:

Città o Campagna? Te lo dice lo Stress!

City - Country - Immagine: © arquiplay77 - Fotolia.comCampagna o città? Questo è il problema: se sia meglio vivere in campagna, con animali e natura, oppure se vivere in città con un “mare” di palazzi e cemento.

È ben noto che gli abitanti delle città in tutto il mondo godono di numerosi vantaggi rispetto ai loro compatrioti rurali tra cui per esempio, migliori prospettive di lavoro, un migliore accesso alle cure sanitarie, per non parlare della vita notturna! Tuttavia vivere in città può essere stressante, tanto che diversi studi hanno dimostrato che i problemi di salute mentale, come la schizofrenia, depressione e disturbi d’ansia, sono più comuni negli abitanti delle città. A partire da questi dati alcuni ricercatori dell’Istituto Centrale di Salute Mentale e l’Università di Heidelberg a Mannheim, Germania hanno cercato di capire questa connessione con la ricerca di differenze nel modo in cui il cervello di persone provenienti da ambienti urbani e rurali reagiscono a certi tipi di stress.

Lo psichiatra Andreas Meyer-Lindenberg e collaboratori hanno utilizzato i metodi di brain-imaging per studiare i fattori di rischio ambientali che, nello sviluppo della patologia, potrebbero svolgere un ruolo ancora più importante addirittura rispetto ai fattori genetici. Infatti gli autori ritengono che l’urbanicità sia un fattore di rischio molto più elevato rispetto a qualsiasi gene associato.

Per testare quest’ipotesi i ricercatori hanno reclutato 32 soggetti adulti che abitavano in metropoli (con più di 100.000 abitanti), città (più di 10.000 abitanti) e zone rurali. Tutti i soggetti sono quindi stati invitati a risolvere difficili problemi aritmetici mentre, attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI) veniva monitorata la loro attività cerebrale. Inoltre per indurre livelli maggiori di stress, mentre i soggetti risolvevano i problemi un monitor mostrava, in modo falsato, il loro tasso di successo comparato con quello degli altri soggetti. Come se non bastasse per aumentare ulteriormente il livello di stress i ricercatori prima dell’inizio della sessione sperimentale, dicevano ai soggetti: “Noi siamo consapevoli che questo compito sia difficile per voi, tuttavia questo esperimento è molto costoso, quindi se poteste mantenere le vostre performance nel quarto superiore del grafico, ve ne saremmo molto grati”. I risultati emersi sono molto interessanti. Infatti dall’analisi delle scansioni fMRI è emerso come in questa situazione di stress sociale e di performance coloro che vivevano in una città avevano una maggiore attivazione dell’amigdala rispetto agli abitanti delle zone rurali. Questo dato assume maggiore importanza se consideriamo che studi precedenti hanno suggerito che l’amigdala si attiva anche in presenza di minacce sociali ed è iperattiva nelle persone con disturbi d’ansia.

Lo studio è stato replicato anche con un gruppo di soggetti che erano stati cresciuti in ambiente cittadino, e che attualmente vivevano in luoghi diversi. In questo caso si è osservata una maggiore attivazione nella corteccia cingolata anteriore (PACC) e non dell’amigdala, suggerendo che questa particolare struttura cerebrale possa essere più sensibile ai fattori di rischio ambientali durante i primi anni di vita.

I risultati degli studi di Meyer-Lindenberg e colleghi hanno indicato che vivere in città o in campagna possa realmente provocare delle differenze nell’attività cerebrale delle persone. Inoltre hanno suggerito che più grande è la città e maggiore sarebbe l’attività dell’amigdala durante la situazione di stress e che più tempo una persona trascorre in una città da bambino maggiormente l’area PACC risulterà attivata in situazioni stressanti. A fronte di questi risultati, anche in mancanza di una correlazione forte e significativa fra questi dati e i punteggi alle scale dei disturbi mentali, Meyer-Lindenberg ha ipotizzato che queste differenze nell’attivazione cerebrale possano essere alla base della maggiore incidenza di disturbi mentali in persone che vivono in città.

Sebbene questi dati siano affascinanti John Cacioppo, neuro scienziato sociale dell’Università di Chicago, Illinois, non è ancora convinto dei risultati ottenuti dalla squadra tedesca proponendo eventuali spiegazioni alternative per le loro scoperte. Egli afferma che sarebbe interessante approfondire quale tipo di stress sociali in ambito urbano potrebbero essere potenzialmente dannosi. “Essere preso in giro da uno scienziato non è all’ordine del giorno per molti abitanti delle città”, osserva Cacioppo, ma i sentimenti di solitudine e di esclusione (o al contrario, il sovraffollamento), o la percezione di discriminazione, di impotenza potrebbe esserlo.

Bibliografia

Greg Miller (21 June 1996) The Mental Hazards of City Living, Science, ScienceNow

Christine Esslinger et al. (2009), Neural Mechanisms of a Genome-Wide Supported Psychosis Variant, Science 324 (5927), 605

Florian Lederbogen et al., (2011), City living and urban upbringing affect neural social stress processing in humans. Nature 474, 498–501

Musica per il nostro cervello (seconda parte)

Musica - Licenza d'uso: Creative Commons - http://www.flickr.com/photos/naturegeak/Nella prima parte di questo articolo ho scritto dell’influenza positiva che la musica esercita sul nostro cervello; non sorprende, infatti, che fin dalle antiche civiltà greche venissero intonati canti per curare le ferite di guerrieri e contadini, così come nei secoli successivi la musica fosse impiegata in casi di epilessia, perdita dell’udito e autismo infantile. Ricerche più recenti hanno, in effetti, provato che la musica ha un potente effetto sul nostro sistema cerebrale: accelera i processi di apprendimento, favorisce le capacità di lettura e matematiche, facilita i processi mnemonici e incrementa le nostre abilità creative.

Va detto che l’apprendimento musicale non è da intendere come “talento”, “genio” o “dote naturale” ma, anche se tali virtù aiutano, suonare uno strumento musicale è un’attività molto complessa che richiede anni di studio e di continuo esercizio. L’apprendimento musicale, inoltre, non coinvolge solo le aree cerebrali preposte all’udito, al linguaggio (apprendimento del canto) e alla motricità fine (quando si impara a suonare) ma influisce anche sulle funzioni cognitive connesse alla percezione spaziale, alla memoria e all’attenzione, avendo un impatto estremamente positivo sullo sviluppo cerebrale in generale.

Studi di neurologia hanno evidenziato come l’ascoltare e il fare musica sviluppino lo scambio di informazioni tra i due emisferi del cervello: ogni brano musicale, infatti, consiste di melodia e ritmo. E’ noto come la melodia venga processata all’interno dello emisfero destro del nostro cervello, mentre il ritmo si elabori nel nostro emisfero sinistro. Durante l’esecuzione di un brano musicale entrambi gli emisferi cerebrali vengono attivati, favorendo gli così scambi tra emisferi in maniera bilanciata. Numerose ricerche sono state condotte analizzando i tracciati elettroencefalografici di musicisti e ci rivelano che chi suona ha maggiori connessioni tra i due emisferi; il processo di creazione musicale, così come la sua interpretazione o il suo ascolto, ha infatti la proprietà di mettere in sincronico insiemi di tracce neuronali. Similmente, in una ricerca condotta da alcuni neuroscienziati tedeschi, si è visto che i musicisti hanno la zona di corteccia cerebrale responsabile dell’elaborazione degli stimoli sonori più grande del 25% rispetto a chi non ha mai suonato alcuno strumento.

Ma che cosa significa tutto ciò? Significa che, poiché il fare musica è un’attività complessa che richiede l’uso e lo sviluppo di molteplici abilità, è possibile che aiuti anche il cervello a creare connessioni alternative, le quali faranno potrebbero fare fronte ai processi di declino cognitivo e alla demenza. Le note, insomma, attraverso il loro linguaggio universale, aiutano a mantenere il cervello sveglio e attivo con effetti a lungo termine.

Bibliografia:

  • Schlaug G. (2008). Music, musicians, and brain plasticity. In Hallam S., Cross I., & Thaut M. H. (Eds)., The Oxford Handbook of Music Psychology (pp. 197–208). Oxford: Oxford University Press.
  • Jausovec N., Jausovec K., Gerlic I., (2006).  The influence of Mozart’s music on brain activity in the process of learning, Clinical Neurophysiology, 117, 2703–2714.

Cognitivismo ed Economia

Cognitivismo ed Economia: L’agire razionale rispetto a uno scopo.

Cognitivismo ed Economia - John Stuart Mill - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/oxfordshire_church_photos/È interessante notare come la concezione dell’attività mentale come architettura di scopi e credenze sia comune sia alla teoria cognitiva che alla teoria economica.

Per la concezione cognitiva il pensiero non è altro che la scelta delle azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi dell’individuo. L’attività umana è sempre finalizzata a uno scopo (è quindi utilitaristica) e questi scopi sono consapevoli. La mente monitora continuamente il grado di soddisfazione di questi scopi e aggiusta il comportamento umano in base a quanto questi scopi siano stati soddisfatti. Cioè in base ai risultati raggiunti, secondo un vero proprio regime intenzionalmente utilitario. Il termine tecnico per indicare questo schema è unità TOTE (Test-Operate-Test-Exit), laddove “exit” è il risultato, “operate” i piani di azione e test la verifica del grado di adesione della realtà ai propri scopi. Miller, Galanter e Pribram sono i tre scienziati che introdussero questo termine nel 1960, e sono tra gli iniziatori della teoria cognitiva della mente.

Passiamo all’economia e sfogliamo ora i primi capitoli di “L’azione umana” di Ludwig von Mises  (1966). von Mises sostiene che gli individui scelgono sempre consapevolmente le azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi voluti. L’azione è sempre quindi razionale, o meglio umanamente razionale (e non assolutamente razionale). Razionale nel senso che l’individuo sceglie sempre i mezzi da lui ritenuti più idonei in base a quel che sa nel momento della scelta: il suo patrimonio conoscitivo appreso con l’esperienza e/o con i vari mezzi di trasmissione del sapere. Secondo questo principio, un individuo che decide di curare una malattia utilizzando pratiche magiche segue un processo mentale che non è meno razionale di colui che sceglie farmaci testati secondo i protocolli scientifici della medicina moderna. Può essere giudicato un processo ingenuo o erroneo, ma non è irrazionale, nel senso che l’individuo sempre sceglie il mezzo che ritiene migliore in base la proprio interesse.

In tale modo, l’agire umano è concepito come naturalmente e inevitabilmente utilitaristico. Tuttavia, occorre fare attenzione. Nell’etichetta “utilitarismo” non vi è giudizio, tantomeno giudizio morale. “Utilitarismo” non indica la miserabile avidità caratteriale di un particolare tipo umano rapace e materialista, ma definisce uno strumento metodologico di comprensione dell’agire umano.

Von Mises dichiara con franchezza che la sua non è scienza dei fini, ma solo dei mezzi. Egli non si propone di dimostrare che vi sia un fine ultimo logicamente necessario dell’agire umano. Von Mises non accetta nemmeno che questo fine ultimo possa essere un fine materiale e ferino come potrebbe essere l’acquisizione, il Possesso con la maiuscola. Von Mises lascia a Shopenauer ogni metafisica negativa del disincanto e a Nietzsche la metafisica rovesciata del cattivismo ferino, della bestia bionda. Un tale obiettivo sarebbe antiscientifico. Più semplicemente, von Mises propone che le singole azioni umane siano spiegabili in termini di scopi e mezzi individuali. Al più possono esserci scopi e mezzi condivisi di alcuni gruppi sociali e fini dominanti che dominano periodi di tempo che chiamiamo pomposamente: epoche storiche. O ancor peggio: ere. Ma in fondo di tratta sempre di effimeri segmenti temporali, età storicamente determinate ma non definitive. Scopi penultimi, ma mai ultimi.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Miller, G.A., Galanter, E., Pribram, K.H. (1960), Plans and the structures of behaviour.New York, Holt, 1960.
  • von Mises, L. Human action. A treatise on economics. Yale University Press,New HavenConnecticut, 1996 [ed.or. Chicago, Regnery, 1949].

 

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Le nuove diagnosi di disturbo alimentare nel DSM-5

ECED 2011

Hans Hoek è uno dei maggiori epidemiologi al mondo, e come esperto dell’epidemiologia dei disturbi alimentari non ha rivali. Per conoscere dove e quanto siano diffuse anoressia e bulimia occorre rivolgersi a lui. Per questo appartiene al gruppo di lavoro che sta rielaborando di criteri diagnostici dei disturbi alimentari in vista della pubblicazione del DSM-5. Al congresso europeo di Firenze (15-17 settembre 2011) Hoek ha illustrato le modifiche in progettazione. L’obiettivo principale del DSM 5 è descrivere più dettagliatamente le forme di disturbi alimentari che non soddisfano tutti i criteri per l’anoressia o la bulimia. Non si tratta necessariamente di forme minori o meno gravi. Finora, questi casi erano un po’ sbrigativamente denominati come “EDNOS”, che significa eating disorders not otherwise specified, disturbi alimentari non altrimenti specificati. Una classe residuale, in cui finivano casi molto diversi tra loro e non sempre meno gravi delle forme classiche dell’anoressia e della bulimia. E per questo forse a volte trattati superficialmente.

Nel DSM 5 l’intera classe diagnostica dei disturbi alimentari cambierà nome e si chiamerà feeding and eating disorders, per allargare il campo d’azione. Accanto all’anoressia e alla bulimia saranno elencati altri disturbi, che sono la pica (consumo di sostanze non commestibili), il rumination disorder (il rigurgito di sostanza ingerite), l’avoidant/restrictive food intake disorder (mancanza di interesse per l’ingestione sufficiente di cibo), il binge eating disorder (disurbo da abboffate). Altri disturbi ancora più particolari sono ragguppati nella classe degli “other specified feeding or eating disorders”  in cui possiamo trovare il purging disorder (in cui a paziente segue condotte eliminative senza abbuffarsi) o la night eating syndrome (alimentazione notturna eccessiva e/o disordinata). E così via.

La ragione di tutto questo proliferare di diagnosi è la necessità di non sottovalutare i pazienti che non hanno tutti i criteri diagnostici dei due disturbi maggiori. Questo non vuol dire che anche questa scelta, come tutte le scelte, non presenti i suoi rischi. Il primo è proprio l’eccesso bizantino di tipi e sottotipi diagnostici. Il secondo, più grave, è patologizzare o, peggio, psichiatrizzare ogni tipo di condotta alimentare disordinata. Il terzo svantaggio, sospettato da qualcuno, è favorire qualche interesse economico, come ad esempio le solite compagnie assicurative americane che sono spesso invocate come agenti del male, in parte esagerando e in parte no.

 

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Mercoledì 21-09-2011

rassegna stampaSi è concluso da pochi giorni a Firenze il Congresso Europeo sui Disturbi Alimentari (ECED 2011) e torniamo a parlare di nutrizione: intervistato da News Medical, Peter Girolami, Ph.D. (Direttore Clinico del programma sui Feeding Disorders presso il Kennedy Krieger Institute in Baltimore, Maryland) traccia un quadro dei sintomi comuni del pediatric feeding disorder (disturbo nutrizionale infantile): evidenziando la differenza tra un normale bambino con gusti difficili e un problema di alimentazione in cui dalla dieta vengono esclusi interi gruppi di alimenti, ponendo a rischio la salute fisica e mentale. A tal proposito ricordiamo che il nuovo DSM5 cambierà classe e nome ai disturbi alimentari che diventeranno feeding and eating disorders, proprio per includere nella categoria differenti problemi legati alla nutrizione.

Leggiamo dal sito della BBC che un gruppo di ricercatori della della China Medical University in Taichung, Taiwan ha scoperto una relazione bidirezionale tra epilessia e schizofrenia: gli studi effettuati su un campione molto ampio di pazienti evidenzierebbero che chi è affetto da una delle due malattie avrebbe maggiore rischio di sviluppare anche l’altra. “The association may be due to a common environmental factors such as traumatic brain injury or brain haemorrhage in utero. Alternatively, a genetic association may be relevant such as LGI1 or CNTNAP2 genes which have been associated with seizures and psychosis.” Ancora da scoprire le cause di questo legame.
Il cervello è plastico, flessibile e può rigenerarsi anche dopo aver subito un danno e impegnandosi nello svolgere un compito specifico. l’hanno scoperto i ricercatori dell’University of Oxford, monitorando l’attività cerebrale di pazienti intenti a riacquisire capacità motorie perdute a seguito di un ictus. Dallo studio risulta inoltre come la stimolazione elettrica celebrale acceleri i processi di apprendimento anche in adulti sani.

Smettere di fumare non fa solo bene alla salute del corpo ma anche a quella della mente: i ricercatori del Drug and Alcohol Research Group della Northumbria University hanno verificato gli effetti benefici sulla memoria in soggetti che hanno smesso di fumare, le prestazioni in compiti di memoria sono superiori a quelle dei fumatori e comparabili a quelli dei non fumatori.

La marijuana blocca lo sviluppo dei sintomi da stress post traumatico nei ratti (PTSD): uno studio condotto dalla Haifa University. Negli esperiment svolti in laboratorio, la somministrazione tempestiva di cannabinoidi nelle prime ore successive a un trauma ha evitato l’insorgere di dei sintomi da PTSD.
Guidare parlando al cellulare: i ricercatori dell’University of Arkansas stanno riconsiderando il pericoloso fenomeno dell’utilizzo del cellulare alla guida. Generalmente considerato come una dipendenza, secondo lo studio americano questo tipo di comportamento presenta i tratti tipici di un disturbo ossessivo-compulsivo. Il cambio di prospettiva avrebbe delle forti conseguenze anche dal punto di vista giuridico.

Riconoscere un’emozione dal volto: giapponesi, americani e questioni di contesto.

Facial Expressions - © olly - Fotolia.comEmozioni e cultura: vale la pena parlarne a fronte dello scenario multiculturale che caratterizza la nostra quotidianità nell’era contemporanea, come a più riprese sottolinea Luigi Anolli nel suo ultimo libro “La sfida della mente multiculturale”.

L’autore presenta un interessante studio di Takahiko Masuda e colleghi dell’Università di Alberta (Canada), che sottolinea come occidentali e orientali rivolgano diversamente la loro attenzione al contesto. Nella ricerca svolta da Masuda sono state mostrate a giapponesi e ad americani disegni in cui in primo piano vi era un personaggio con una specifica espressione facciale emotiva (di gioia, di tristezza e di collera) mentre sullo sfondo erano posizionati altri quattro personaggi aventi espressioni facciali diverse rispetto a quella del protagonista. Il compito sperimentale richiedeva ai soggetti (sia americani che giapponesi) di riconoscere l’emozione del personaggio posizionato al centro dell’immagine. I risultati dimostrano come gli americani focalizzino l’attenzione e dirigano lo sguardo soltanto sull’espressione facciale emotiva del protagonista ignorando quasi completamente quella degli altri personaggi; invece, i giapponesi prenderebbero in considerazione l’espressione emotiva di tutti i personaggi raffigurati, focalizzandosi visivamente prima sul protagonista e immediatamente dopo sugli altri personaggi dello sfondo. Quindi, mentre gli americani focalizzano la loro attenzione soltanto sull’espressione del protagonista tralasciando quella degli altri, i giapponesi risultano assai più attenti alle informazioni emotive provenienti dal contesto ovvero all’espressione facciale di tutti i personaggi presenti sulla scena.

Tali risultati forniscono ulteriori supporti empirici a evidenze già presente in letteratura: nelle cosiddette culture indipendenti (occidentali) l’attenzione sarebbe rivolta all’individuo, mentre in quelle interdipendenti (orientali) sarebbe maggiormente orientata al gruppo.

Il contesto assume perciò un valore assai differente in diverse culture, poiché a livello percettivo e attentivo i giapponesi si riferiscono in modo rilevante al contesto nei processi di inferenza emotiva. Addirittura, nel caso in cui vengano presentate foto di espressioni emotive facciali isolate acontestualizzate, quali le famose espressioni facciali “posate” di Ekman e Friesen, molti giapponesi dichiarano di non essere in grado di inferire che cosa stia provando la persona fotografata, proprio perché non avrebbero alcuna informazione relativa al contesto; viceversa, tale aspetto sembra essere  totalmente assente nel caso di soggetti occidentali, che invece non riportano alcuna difficoltà nel provare a riconoscere un emozione a partire da un’espressione facciale isolata.

Da questo studio, così come da altri contributi, è evidente come la ricerca nell’ambito della psicologia della cultura e delle emozioni stia spostando il proprio focus di interesse da pure ricerche di esito (ad esempio, meramente chiedersi se individui di culture diverse inferiscano differenti emozioni a partire da specifici stimoli proposti) all’analisi delle peculiarità di processipsicologici in diverse culture, che a questo punto non possiamo considerare scontatamente universali in ogni loro aspetto.

Bibliografia:

  • Anolli, L. (2011). La sfida della mente multiculturale. Raffaello Cortina Editore.
  • Masuda, T., Ellsworth, P. C., Mesquita, B., Leu, J., Tanida, S., & van de Veerdonk, E. (2008). Placing the face in context: Cultural differences in the perception of facial emotion.Journal of Personality and Social Psychology, 94, 365-381.
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