Dimmi se ti disgusta e ti dirò chi voti.
Nonostante alla gente piaccia credere che le proprie convinzioni siano frutto di una scelta puramente razionale, un crescente corpo di ricerca ha trovato un’associazione tra le scelte politiche e le risposte neurofisiologiche di fronte a determinati stimoli.
I risultati della scoperta provengono da un recente studio effettuato su persone sottoposte alla visione di immagini raccapriccianti ad esempio, l’immagine di un uomo che sta mangiando dei vermi. I soggetti che si erano dichiarati come politicamente conservatori, hanno reagito con un disgusto particolarmente profondo, soprattutto coloro che avevano espresso la propria opposizione al matrimonio tra coppie gay.
Lo studio suggerisce che le predisposizioni neurofisiologiche delle persone contribuiscono a modellare i loro orientamenti politici, hanno dichiarato i ricercatori Kevin Smith e John Hibbing della University of Nebraska-Lincoln. Secondo gli autori quindi, la reazione istintiva e soggettiva del disgusto profondo ha probabilmente anche un effetto sulle convinzioni razionali senza che vi sia consapevolezza della sua influenza.

Le scoperte di Smith e Hibbing pubblicate il 19 Ottobre 2011 sul Public Library of Science One sono le ultime e più recenti di una serie di indagini sugli aspetti neurofisiologici della morale e della politica. Altri ricercatori in passato hanno dimostrato che gli individui politicamente conservatori tendono ad avere uno stile cognitivo più rigido e strutturato rispetto ai liberali, notoriamente riconosciuti come individui più aperti e disponibili alla accettazione delle ambiguità; è stato inoltre dimostrato che i conservatori hanno anche tempi di reazione più brevi di fronte ad uno stimolo potenzialmente pericoloso (sono cioè anche i più veloci nel sentirsi minacciati da qualcosa).
Il disgusto è particolarmente interessante per i ricercatori perché è un’emozione fondamentale, un elemento emotivo che ha caratteristiche primordiali. Sembra infatti che i sentimenti di ripugnanza morale traggano origine da processi neurobiologici paralleli alle emozioni di ripugnanza per il cibo avariato. In sintesi, negli studi effettuati tramite questionari, le persone inclini a profondi sentimenti di disgusto tendono a fare scelte politiche tipiche del versante conservatore.
I partecipanti al test (27 femmine e 23 maschi residenti di Lincoln, Nebraska, con un’età media di 41 anni, selezionati da un pool più ampio di 200 persone sottoposti ad un sondaggio politico) sono stati sottoposti alla visione di una serie di immagini “disgustose” e “non disgustose”. Tramite degli elettrodi applicati sulla loro pelle sono stati misurati i cambiamenti della conduttanza cutanea, uno tra gli indicatori fisiologici della risposta emotiva.
In linea con le precedenti osservazioni, si è visto che i conservatori politici reagivano con un disgusto significativamente superiore rispetto ai liberali politici. La presenza di convinzioni coscienti sulla legittimità o meno del matrimonio tra coppie gay, tema strettamente legato alle nozioni di purezza morale, sono risultate particolarmente predittive.
“È un grande esempio dell’esistenza di un ponte sempre più solido tra biologia e scienze politiche”, ha detto Jonathan Haidt, psicologo della New York University che studia il rapporto tra il disgusto e la moralità.
Smith e Hibbing sono stati attenti a sottolineare i limiti del loro lavoro. Il rapporto di causa ed effetto non è chiaro, ma il sospetto è che la popolazione graviti attorno alle convinzioni politiche che si adattano ai loro sentimenti. Potrebbe anche essere però che siano le stesse convinzioni politiche a modificare il modo in cui le persone percepiscano emozioni e sentimenti.
Riconoscere il ruolo della biologia significa evitare inutili ostilità e conflitti con le persone che non sono d’accordo con il nostro orientamento politico. Secondo questo punto di vista, sarebbe preferibile considerare le persone con convinzioni morali diverse dalle nostre non come semplicemente stupide o cattive, ma come influenzate da abitudini diverse radicate nella mente.
“Dopo tutto, se le differenze politiche sono riconducibili in parte al fatto che le persone variano nel modo in cui fisicamente hanno esperienza del mondo, la certezza che ogni particolare visione del mondo sia oggettivamente la più corretta può diminuire, riducendo l’arroganza che alimenta il conflitto politico”, scrivono Smith and Hibbing.
BIBLIOGRAFIA:
- “Disgust Sensitivity and the Neurophysiology of Left-Right Political Orientations.” By Kevin B. Smith, Douglas Oxley, Matthew V. Hibbing, John R. Alford, John R. Hibbing. PLoS One, Vol. 6 No. 10, October 19, 2011.

Il convegno di Assisi si è concluso in un giorno in cui un vento caldo accarezzava la nostra pelle, ancora scoperta ai raggi del sole, e la flebile sensazione che ne scaturisce è simile a quella che ogni intervento realizzato dai partecipanti ha lasciato nelle nostri menti.
Ognuno mostrava e offriva alla platea un’espressione diversa: chi sorrideva forzosamente, chi sudava e chi seriamente affrontava la situazione come un soldatino chiamato alle armi. Tanti argomenti, mille forme: dai disturbi dell’alimentazione al rimuginio, dalla schizofrenia alla depressione, dal disturbo ossessivo compulsivo ai processi cognitivi, dalla paura alla felicità.
Come è noto, dove c’è vita c’è musica. Ogni essere umano, di qualsiasi cultura conosciuta, ascolta o suona musica. Anche nel mondo animale i suoni e le “melodie” hanno spesso una funzione adattiva per le specie che li producono. Nella musica c’è sempre un messaggio, un desiderio comunicativo potente e irrinunciabile e l’intenzione di esprimere uno (o più) stati emotivi che vengono interpretati e letti dalla maggior parte delle persone nello stesso modo (pensiamo alle emozioni fondamentali). Pensiamo all’incertezza e allo stordimento che trascinano l’ascoltatore per ore della incompiuta Arte della Fuga di Bach ma anche, senza scomodare i maestri, ai tempi malinconici e sconfortanti di una banale ballata in minore.
Oltre che a far venire il mal di schiena e ad attirare i rimproveri di nonne e mamme, sembrerebbe che una postura curva possa esser connessa ad una autostima e a una soglia del dolore più bassi.
Mi sono sempre chiesta attraverso quali meccanismi cognitivi gli uomini riescano ad interpretare un timido sorriso femminile come una chiara dichiarazione di disponibilità a intraprendere una relazione sessuale. Per un po’ mi sono risposta che evidentemente in casi come questo un altro organo si sostituisse al cervello, ma mi sbagliavo.
Pensare al concetto di Dio può diminuire la motivazione per il raggiungimento di obiettivi individuali.
Se è vero quello che dicono le statistiche, ovvero che ciascuno di noi spende circa un terzo della propria vita dormendo, deve pur esserci una ragione, giusto? Come confermato dalle ricerche degli ultimi 50 anni, oggi sappiamo che il sonno non è uno stato di incoscienza in cui non succede nulla, piuttosto si tratta di un periodo di cambiamenti ciclici regolari tra l’attività del corpo e del cervello.

Political radicalism or simply radicalism is adherence to radical views and principles in politics. The meaning of the term radical (from Latin radix, root) in a political context has changed since its first appearance in late 18th century. Nevertheless, it preserves its sense of a political orientation that favors fundamental, drastic, revolutionary changes in society, literally meaning “changes at the roots”. Its specific forms vary from reformism (early 19th century, antonymous to conservative) to the contemporary synonym of extremism (antonymous to moderate). The 19th century American Cyclopaedia of Political Science states that “radicalism is characterized less by its principles than by the manner of their application”. Conservatives often used the term radical as a pejorative.
Negli ultimi cinquant’anni la ricerca in psicoterapia ha compiuto grandi progressi nell’identificare i fattori di processo e di esito che sono associati al cambiamento e che favoriscano un outcome positivo in terapia. È stata dimostrata un’efficacia generale nell’esito delle psicoterapie che si attesta attorno al 60%. Ma viene da chiedersi: cosa ipoteticamente accade al restante 40% del campione che non rientra all’interno della categoria delle terapie efficaci?


Leggo
Ormai da qualche tempo sono noti gli effetti disfunzionali che il pensiero ripetitivo e la focalizzazione sul depressive mood hanno sull’individuo (Ingram & Smith, 1984; Carver & Scheier, 1990; Watkins & Teasdale, 2001; Watkins, 2004). Perché sono disfunzionali? Perché sembrano incastrare chi li mette in atto in un circolo vizioso, il cui solo ed unico esito è continuare a pensare in modo ripetitivo, concentrandosi sul fatto che in quel momento ci si sente tristi, scoraggiati o depressi. Tale processo cognitivo ripetitivo viene chiamato rumination (Watkins, 2008), ovvero “un insieme di pensieri su una stessa tematica che si presentano anche quando non vi è una necessità immediata o una richiesta ambientale che giustifichi tali pensieri”. Le espressioni del linguaggio comune “andare in fissa”, “farsi le menate” potrebbero esserne un discreto esempio. Particolarità della ruminazione, che la differenza dal rimuginio, è che i contenuti sono rivolti al passato, e non alla paura per eventi futuri. E che cosa mantiene questi processi cognitivi attivi? Secondo Watkins il ruminare, di per sé, non è così disfunzionale, non intrappola l’individuo in un labirinto di pensieri ripetitivi che lo allontanano dalla soluzione di un problema o dal raggiungimento di uno scopo personale importante. Ciò che sembra essere davvero disfunzionale è il come si rumina. È la ruminazione chiamata “why” (“dei perché”) ad essere disfunzionale e a mantenere l’umore depresso e sfiduciato. “perché è successo a me?” “devo assolutamente capire perché proprio a me” “perché mi caccio sempre nelle solite situazioni” “perché sono sempre il solito sfigato” ecc.. ne rappresentano alcuni buoni esempi. Lascio immaginare al lettore dove si finirebbe salendo la scaletta dei “perché” fino a raggiungere la porta della disperazione…
L’International Association for the Study of Pain definisce il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata ad una danno tissutale presente o potenziale o descritta come tale”. Un’esperienza multidimensionale che, a parità di stimolo, è percepita e rappresentata in forme diverse, a seconda del modo in cui viene cognitivamente elaborata. Se cronico può diventare parte integrante della vita della persona che ne è colpita, quasi da sentirne la mancanza se venisse meno. Se acuto, invece, può risultare temporaneamente invalidante. Quando parliamo di dolore acuto, la fa da padrone la spiacevolezza immediata della percezione del dolore legata alla rielaborazione cognitiva e all’intensità dello stimolo nocicettivo. Se parliamo di dolore cronico, molto spesso ci troviamo a fare i conti con ansia, tristezza, rabbia, paura, che indirettamente portano ad un aumento della sintomatologia, inducendo una maggiore reattività muscolare: infatti, queste emozioni negative, favoriscono una serie di modificazioni del sistema nervoso autonomo a livello di conduttanza cutanea, di reattività muscolare e di ritmo cardiaco che aiutano a mantenere o peggiorarare il sintomo doloroso. E meditando che succede?
1. L’errore dello Status quo. Il nostro sistema cognitivo ci induce a scegliere ciò che abbiamo già scelto in passato, anche se il mercato propone alternative più valide. Questo succede perché il cambiamento impone sforzi mentali maggiori e il saper tollerare una certa dose di incertezza. Il suggerimento è quello di osare l’acquisto di nuovi prodotti destinati comunque ad un rapido consumo così che, se non dovessero piacervi, ve ne possiate sbarazzare presto.
Up to this point in the series, I have discussed why it is so important to further understanding of the development of anxiety disorders in children. I have also touched on the importance of various types of parenting styles which may increase the development of anxiety in children. As I explained,parental discussions regarding unfamiliar situations or objects can increase their children avoidance. But why are some discussions doing this and not others? Surely the differences of a few words cannot change the development of our children in either the short or long term, could it? For the answer to these questions we turn to the experimental psychopathology literature.