Genitorialità e risposte biologiche
I cambiamenti emotivi connessi allo stato di maternità – comprensivo sia della fase di gravidanza che del post partum – sembrano supportati da mutamenti organici egualmente provocati dalla condizione materna.
Studi di neuroimaging (Swain et al., 2007; Swain et al. 2008; Strathearn et al., 2008; Strathearn et al., 2010; Mirenowitz e Schultz, 1996) hanno avvalorato queste ipotesi, evidenziando come, nel periodo seguente al parto, si verifichi l’attivazione di specifiche funzioni cerebrali, ormonali e biologiche volte a favorire condotte di accudimento, agevolando al contempo la costruzione di rapporti interattivi basati sulla tenerezza e la premura.
Questo filone di studi condivide l’ipotesi suggerita da Bowlby (1969) e Lorenz (1943) che evidenzia come parte dei meccanismi volti a regolare la relazione madre-bambino siano supportati da un substrato biologico coinvolto nell’attivazione del sistema di accudimento e in quello di attaccamento.
In particolare, la responsività accudente viene attivata da stimoli visivi e uditivi provenienti dal neonato (in particolare il volto, il sorriso e il pianto), a loro volta in grado di attivare circuiti cerebrali e risposte ormonali specifiche che, già presenti in via filogenetica, vengono ulteriormente rafforzati dalla condizione di genitorialità.
Dunque, se di fronte alla vista di un neonato il genitore è naturalmente portato ad attuare condotte di accudimento e premura, non è sulla base di un’attivazione soltanto emotiva: in realtà è lo stesso organismo a configurare le condizioni, affettive e biologiche, necessarie all’instaurarsi della relazione parentale e alla sua modulazione del tempo.
Genitorialità: quale ruolo svolge l’ossitocina nella risposta accudente?
L’ossitocina è un peptide fortemente coinvolto nell’instaurazione di condotte orientate alla genitorialità, alla responsività e alla vicinanza emotiva, e non soltanto nella specie umana. Studi specifici (Numan, 2006; Kendrick, 2000) condotti sui roditori hanno permesso di evidenziare che assenze o deficitarietà di questo ormone possono collegarsi a condotte di incuria o discuria da parte della madre, e possono egualmente inficiare la motivazione, la costanza e l’efficacia della stessa.
La produzione di ossitocina subisce un significativo innalzamento dopo il parto, e i suoi livelli continuano a mantenersi elevati anche durante l’allattamento, grazie alla presenza di specifici nuclei ipotalamici che ne consentono la circolazione attraverso la ghiandola pituitaria.
Una sua massiccia produzione, tutt’altro che inutile nella fase perinatale, consente di avvertire quasi intuitivamente i bisogni del bambino e di gratificarli in una finalità responsiva che, in sua assenza, risulterebbe ostacolata.
Genitorialità e bassi livelli di ossitocina
Studi condotti su madri depresse, i cui livelli di ossitocina risultano notevolmente inferiori dopo il parto, sembrano infatti meno propense ad attuare condotte sintonizzate verso i bisogni del bambino, oltre a manifestare una marcata incompetenza nell’interpretazione degli stessi (Feldman, 2007; Swain et al. 2007).
Allo stesso modo, madri che hanno fatto uso di sostanze stupefacenti durante la gravidanza o nel periodo del post partum, mostrano scarsa responsività al richiamo vocale del neonato, da cui uno stile accuditivo distante e disorganizzato.
Le sostanze stupefacenti vanno infatti a danneggiare il funzionamento dei circuiti dopaminergici e noradrenergici, deputati non solo alla regolazione di processi relativi a ricompensa, ansia e paura, ma anche alla generazione di comportamenti di parenting e alla stessa produzione di ossitocina (Strathearn e Mayes, 2010).
Da un punto di vista percettivo, l’ossitocina sembra inoltre favorire la responsività uditiva ai richiamo del neonato.
Uno studio di Swain e colleghi (2007) ha infatti evidenziato che, nel primo mese del periodo post natale, quando il livello di ossitocina è particolarmente elevato, le madri mostrano una risposta al pianto ancor più immediata; l’effetto responsivo sembra ulteriormente aumentato nei casi di parto naturale, in cui l’elevato numero di contrazioni uterine e di stimolazioni vagino cervicali consente di potenziare la produzione di ossitocina e le funzioni accudenti alla stessa collegate.
Genitorialità: la risposta neurocerebrale alla vista del bambino e il ruolo del sorriso
Le caratteristiche morfologiche del neonato, generalmente indicate come baby schema, contribuiscono ad elicitare un immediato effetto accudente (Lorenz, 1965; Bowlby, 1969). In particolare la testa rotonda, un’ampia teca cranica, la fronte ampia e sporgente sono in grado di suscitare nell’adulto, anche ove non si tratti del genitore, un istinto di protezione pressoché incoercibile. È l’esito del c.d. effetto “kewpie”(Lorenz 1943), la cui presenza, trasmessa in via filogenetica, ha contribuito al mantenimento della specie lungo il corso dei millenni.
Dati scientifici (Alley, 1981) hanno dimostrato che la soglia di attivazione di questo effetto tende a concentrarsi nei primi mesi di vita per diminuire gradualmente nel corso del processo evolutivo: in poche parole, l’effetto kewpie è maggiore con i neonati di quanto non lo sia con bambini di uno, due o tre anni di età (Alley, 1981).
Una ricerca di Brosch, Sander e Scherer (2007) posta in essere per individuare l’orientamento automatico dell’attenzione, ha dimostrato che il volto del neonato costituisce uno stimolo particolarmente attraente, tanto che la sua sola vista è sufficiente ad innescare un processo di mobilitazione attentiva involontaria- il c.d. dot dot probe detection task- più di quanto farebbe qualsiasi altro tipo di stimolo.
L’effetto attrattivo sembra incrementato dalla vista di un volto sorridente, presumibilmente per la funzione gratificante svolta dal sorriso rispetto ai tentativi relazionali posti in essere dall’adulto (Lavelli e Fogel, 2005). In una dimensione specifica di accudimento, il ruolo del sorriso tende inoltre a rassicurare il genitore circa la correttezza delle sue condotte assistenziali, lo incoraggia nella continuazione delle stesse e pone le basi per la costruzione di un’intersoggettività positiva che precorre il legame di attaccamento (Mirenowitz e Schultz, 1996).
Studi scientifici hanno confermato il ruolo gratificante del sorriso, mostrando come la sua percezione visiva vada a stimolare strutture filogenetiche associate al circuito della ricompensa e ai circuiti dopaminergici regolati dal nucleo accumbens, stimolando una sensazione di benessere in colui che lo visualizza (Lorenz, 1943; Nachev, Kennard e Husain, 2008; Swain et al., 2007). In termini più empirici, vedere il proprio bambino felice suscita nel genitore una sensazione di appagamento, e, anche in assenza di parole, contribuisce a sollevarlo da tutti i dubbi e le incertezze tipiche della genitorialità.
Genitorialità e coinvolgimento cerebrale nella risposta al pianto
Il pianto del bambino rappresenta uno stimolo sonoro in grado di attirare l’immediata attenzione dell’adulto e di porlo in una condizione di allerta finalizzata ad individuare, e possibilmente ad eliminare, la causa che ne ha determinato l’insorgenza.
Per quanto si tratti di un effetto pressoché generalizzato, sono le madri e le primipare a mostrare una più marcata vulnerabilità uditiva al pianto, probabilmente a causa del maggior livello di arousal dalle stesse presentato di fronte agli stimoli sonori non attesi o improvvisi (Purhonen et al., 2001), e da un più elevato livello di ossitocina egualmente favorito dalla condizione perinatale.
I meccanismi cerebrali maggiormente coinvolti nella risposta materna al pianto sono la regione limbica, l’amigdala, la corteccia cingolata e l’insula (Kim et al. 2011; Swain et al. 2007; Swain et al. 2008), la cui attivazione consente l’elaborazione percettivo-emotiva dello stimolo sonoro e garantisce una pronta reazione rispetto alla causa che lo ha provocato.
Il pianto sembra inoltre in grado di disattivare quel circuito cerebrale denominato default mode network, una sorta di “luogo del sovrappensiero” che si “accende” quando la mente è totalmente libera di vagare, perché svincolata da impegni o prestazioni attentive, e si “spegne” al sopraggiungere di stimoli capaci di suscitare allerta o vigilanza, rendendo necessario l’impegno in un’attività orientata all’esterno (De Pisapia et al., 2013).
Come ovvio, di fronte a uno stimolo allarmante come il pianto del bambino, la zona del sovrappensiero si disinstalla totalmente, per lasciare il posto a stati di attenzione e vigilanza sostenuta. Questo in tutti gli adulti, tuttavia con una differenza sostanziale legata al genere.
Infatti, se in risposta al pianto infantile la disattivazione degli uomini risulta parziale, da cui la permanenza residua di un pensiero autorivolto, nel genere femminile lo spegnimento del default mode network è totale ed immediato. Ma in presenza di uno stimolo sonoro diverso dal pianto del neonato la disattivazione è totale anche nei maschi (De Pisapia et al., 2013).
Genitorialità: identificazione dei bisogni del neonato
Per quanto i dati siano ancora poco univoci e bisognosi di approfondimenti, ciò farebbe supporre una maggior predisposizione femminile all’attenzione verso i segnali di richiamo emessi dal neonato (Proverbio, Zani e Adorni, 2008), trasmessa presumibilmente in via filogenetica, in ragione del ruolo di accudimento da sempre affidato alle donne.
La “preoccupazione materna primaria”, di cui già parlava Winnicott, potrebbe dunque poggiare su di un correlato biologico scientificamente dimostrabile, in base al quale i genitori, ma soprattutto la madre, sarebbero naturalmente portati ad intuire e a gratificare i bisogni della prole nelle più varie direzioni in cui questi possono declinarsi.
Genitori per natura?
In conclusione sembra di poter affermare, con una certa univocità di risultato, che stimoli specifici provenienti dal neonato siano in grado di attivare circuiti cerebrali, neurobiologici e ormonali capaci di determinare specifiche condotte di parenting, trasmesse in via filogenetica a supporto del mantenimento della specie.
Dunque non si tratta solo di un fattore emotivo. Il sistema di accudimento poggia su un substrato biologico che la condizione di genitorialità tende a potenziare.