L’interruzione volontaria di gravidanza
Abstract
L’interruzione volontaria di gravidanza è una pratica medica regolamentata in Italia dalla Legge 194/78. Dal punto di vista psicologico, il processo di decision making è complesso e le sue conseguenze sono connesse ad aspetti socioeconomici, relazionali, religiosi e contestuali.
Come avviene l’interruzione volontaria di gravidanza?
L’interruzione volontaria di gravidanza, o aborto volontario, è quella pratica medica effettuata, in Italia, entro il novantesimo giorno di gestazione (Legge 194/78) tramite metodologia farmacologica o chirurgica (WHO, 2022) che serve per porre fine intenzionalmente allo sviluppo dell’embrione, senza che ci siano motivazioni mediche, quali un’anomalia fetale o un rischio per la salute della gestante (Janiak & Goldberg, 2016). Per poter abortire, la donna deve recarsi presso un consultorio, dal proprio medico di fiducia o da un medico del servizio ostetrico-ginecologico e fare domanda, esplicitando le motivazioni alla base della scelta. Il certificato che consente di procedere all’aborto viene rilasciato dopo sette giorni, istituiti per permettere alla donna di riflettere sulla decisione (L. 194/78).
In Italia, la maggior parte delle donne opta per il metodo farmacologico; mentre, tra i metodi chirurgici, quello più utilizzato è l’isterosuzione (ISTAT, 2022). Il metodo farmacologico prevede la somministrazione combinata di mifepristone e prostaglandine, che causano prima il distacco dell’embrione dalla parete uterina tramite lo sfaldamento della stessa, e poi le contrazioni che ne favoriscono l’espulsione (Clarke & Montini, 1993); invece, l’isterosuzione è un metodo invasivo che prevede la dilatazione della cervice e l’inserimento di una cannula attraverso cui viene aspirato il prodotto abortivo (Lui & Ho, 2020). Il raschiamento, invece, viene effettuato raschiando la parete dell’utero utilizzando una curetta (FIGO, 2011) e questo può causare sanguinamenti eccessivi (Verkuyl & Crowther, 1993) e assottigliamento dell’endometrio (Kakinuma et al., 2020); difatti, è sconsigliato dalla FIGO e dall’OMS (FIGO, 2011; WHO, 2012).
La decisione di procedere con l’interruzione volontaria di gravidanza
La letteratura sul tema mostra che, durante il processo decisionale, la donna avanza considerazioni sulla sua situazione in autonomia e può accadere che, successivamente, coinvolga il partner, la famiglia o gli amici nella decisione (Ouedraogo, Senderowicz, & Ngbichi, 2020); inoltre, pondera gli aspetti socioeconomici, relazionali (Bankole, Singh & Haas, 1998), religiosi (Foster, Gould, Taylor & Weitz, 2012) e contestuali, come le norme e le credenze sociali che possono stigmatizzare l’aborto (Oduro & Otsin, 2014).
Altri fattori tenuti in considerazione dalla donna nel processo decisionale sono l’età anagrafica, le difficoltà nel conciliare la maternità con la carriera scolastica, accademica o lavorativa, il grado di stabilità della relazione e l’affidabilità del partner (Finer et al., 2005). Inoltre, le donne possono propendere per l’aborto quando hanno già raggiunto il numero di figli desiderati (Kero & Lalos, 2000) o consentiti considerando le risorse economiche a disposizione (Jones, Frohwirth & Moore, 2008). La stima delle risorse energetiche, psicologiche e materiali disponibili può essere decisiva se queste non sono sufficienti (Adair & Lozano, 2022), specialmente considerando che spesso il carico dell’accudimento ricade interamente sulle spalle della donna (Ciciolla & Luthar, 2019). Infine, un fattore fondamentale è il desiderio di maternità, senza il quale, a livello mentale, l’embrione non viene rappresentato come una persona (Rosenberg, 2020; cit. in Garibotto, 2023), perciò le donne non percepirebbero gli obblighi di accudimento promossi e imposti, invece, dagli stereotipi di genere che vedono la maternità come obiettivo ultimo e naturale dell’esistenza della donna (Adair & Lozano, 2022).
Favorire il benessere psicologico dopo l’interruzione volontaria di gravidanza
Dopo l’aborto, la maggior parte delle donne generalmente riporta sollievo (Osofsky & Osofsky, 1972), che può accompagnarsi a un senso di crescita personale (Andrew & Boyle, 2003). La lettura dell’aborto come un evento traumatico trasversale a tutte le donne – chiamata dapprima in letteratura “Sindrome Post-Aborto” (Speckhard & Rue, 1992) – è stata smentita, perché si è visto non essere supportata da studi condotti in maniera metodologicamente corretta (Adair & Lozano, 2022); tuttavia, si è ipotizzato che vi siano alcuni fattori contestuali che favoriscono un vissuto negativo nel periodo successivo all’evento (Major, Mueller & Hildebrandt, 1985). Questo può accadere se non c’è supporto da parte del partner e della famiglia (Major, Cooper, Zubek, Cozzarelli, & Richards, 1997) oppure può essere una conseguenza dello stigma sociale che porta alla paura del giudizio altrui e al conseguente isolamento (Cockrill & Nack, 2013). Le interazioni negative con i pro-vita, cioè con persone appartenenti al movimento antiabortista, possono provocare un abbassamento dell’autostima (Cozzarelli & Major, 1994), come anche il personale sanitario obiettore di coscienza può causare distress (Stotland, 2001) e rendere la donna bersaglio di attacchi verbali e cure inadeguate (Larrea, Assis & Mendoza, 2021), praticando quella che viene definita “violenza ostetrica” (Sesia, 2020; pag. 223).
Per favorire il benessere psicologico della donna che abortisce è importante che gli operatori sanitari forniscano le informazioni necessarie, supportino la scelta della donna, si dimostrino accoglienti e non giudicanti, usino un linguaggio appropriato (Larrea, Palència & Borrell, 2021), stiano attenti ai possibili fattori di stress e si orientino a eliminarli o a contenerli (Ely, Rouland Polmanteer & Kotting, 2018). Un metodo che si è visto potrebbe aiutare le donne a percepire meno l’effetto dello stigma è il far vedere il prodotto abortivo, specialmente se l’aborto avviene nelle prime fasi della gestazione. Infatti, vedendo che l’aspetto è quello di un coagulo di sangue, le donne possono prendere consapevolezza del fatto che l’embrione non ha le sembianze di un bambino in miniatura, e limitare così il peso del giudizio morale interiorizzato (Becker & Hann, 2021).