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Il bambino “in diritto d’affido”

Un articolo dedicato al diritto d’affido, finalizzato al miglioramento della qualità della vita dei minori in situazioni familiari di disagio

Di Tamara Marchetti

Pubblicato il 26 Set. 2023

La resilienza, dal disagio nella famiglia d’origine alla possibilità di una nuova condizione familiare

In questo articolo utilizzo il termine di “diritto d’affido”, intendendo parlare di un diritto finalizzato al miglioramento della qualità della vita di quei minori che prima di tutto hanno subito la violazione di un altro diritto fondamentale: la buona e sana condizione di crescita.

Questo è quello che accade quando la famiglia d’origine è un ambiente deviante per il minore e per questo spesso si aprono le porte dell’affido.

In questo articolo si parla del minore costretto all’uscita dalla propria famiglia d’origine dopo la valutazione di inadeguatezza della stessa da parte dei servizi sociali.

Vengono presi in considerazione attraverso la descrizione alcuni passaggi di questa realtà di vita e si scorge man mano come il concetto del “trauma nel minore”, possa riaffiorare se non ben elaborato e curato.

È stato poi messo in evidenza quello che è l’obiettivo primario su cui lavora il sistema sociale e psicologico quando inizia la presa in carico del minorenne, ovvero favorire una condizione che consenta il miglioramento della qualità della vita del bambino o adolescente. Ho inoltre voluto mettere in risalto attraverso l’ausilio della descrizione del caso clinico, come a volte i passaggi di sostegno e pre-affido possano risultare fallimentari ed è quindi necessario trovare altra soluzione, evitando di chiudere gli occhi davanti alla realtà.

Se da una parte è un diritto indiscutibile per ogni bambino quello di crescere in modo sano ed equilibrato, dall’altra non sempre ci sono le condizioni giuste e necessarie nella coppia genitoriale per la realizzazione di un contesto di sviluppo adeguato ed adempiente.

Sono questi i casi in cui scatta, a volte più altre volte meno tempestivamente, un necessario quanto obbligatorio intervento da parte dei servizi sociali, il cui compito iniziale è quello di capire, attraverso il monitoraggio della realtà di vita del bambino, se ci sono le condizioni perché rimanga in famiglia oppure no.

Secondo il procedimento, avviene che si affianchi, ai genitori nei quali viene riscontrata una condizione deficitaria, una figura supportiva.

Il caregiver ha infatti la funzione di coadiuvare la coppia nelle sue mancanze cercando di arginarle, ma se questo non fosse sufficiente, il tribunale per i minorenni avvia la fase più delicata, ed anche articolata, che è l’uscita del minore dalla famiglia d’origine.

Gli affidi possono essere temporanei, ma con una durata non al di sotto di un anno, per diventare a volte definitivi.

Inizia con questi presupposti un iter, sicuramente non breve e sicuramente molto delicato, il cui fine è il miglioramento delle condizioni di crescita del bambino o adolescente. Nella brevità di questo mio articolo vorrei mettere in evidenza quanto a volte sia tutto così buio per arrivare alla luce, intesa come metafora del lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita partendo proprio dalla precarietà della stessa.

Dalla fase di anamnesi a quella d’intervento: stati emotivi e oggettiva valutazione della realtà

Tutto inizia quindi con la rilevazione dell’inidoneità della coppia genitoriale, i cui primi segnali arrivano solitamente dal contesto sociale di appartenenza.

Come ci si rende conto che nel bambino qualcosa non va? E che la matrice di tale inadeguatezza o sofferenza sia proprio tra le mura domestiche? Spesso i riscontri avvengono a scuola, dalle osservazioni dei docenti, dai comportamenti, dai temi e racconti del bambino che accendono una spia d’allarme. In altri casi sono invece frutto di segnalazioni, da parte della comunità di appartenenza, vicini di casa, parenti o altri enti formativi oltre la scuola che prendono consapevolezza: del qualcosa che non va e che si presenta reiterato nel tempo.

L’equipe di specialisti facenti riferimento alla figura degli assistenti sociali e degli psicopedagogisti, nel proprio iter di lavoro, passa dalla fase di anamnesi a quella d’intervento, ovvero accertata la veridicità di alcuni input di devianza nel contesto familiare del minore, si avvia il procedimento di recupero e trattamento, con la presa in carico dello stesso presso altra famiglia o istituto.

Il fine ultimo è fare in modo che il minore cresca in una realtà educativa sana, lontano da quei rischi riscontrati nella propria casa d’origine, dove per alcuni mesi o anni della propria vita ha vissuto: episodi di maltrattamento e violenza, trascuratezza, prostituzione (in cui viene talvolta coinvolto), oppure genitori che vivono in modo disfunzionale, per esempio tra abuso di alcol e droga, consumo e spaccio.

Il “portare fuori” il minore da tale humus, inteso come accompagnarlo verso una fonte educativa ed affettiva alternativa a quella di nascita, rappresenta principalmente una tutela alla sua crescita.

Allo stesso tempo però, quel minore paga tale “uscita” con la sofferenza per l’abbandono del proprio nucleo e la separazione dallo stesso. Sappiamo benissimo che i contatti con le famiglie d’origine continueranno anche dopo la separazione del figlio dai genitori, ma la situazione è completamente diversa, diversa per tutti.

Mettere in salvo corrisponde in questi casi a separare.

Questo fa bene per evitare che i drammi familiari intacchino in modo indelebile lo sviluppo di una nuova vita, ma quella stessa nuova vita viene privata delle figure che pur avendone percepito il disagio e l’invalidazione, sono state il suo unico punto di riferimento fino a quel momento.

Si tratta spesso di famiglie che non hanno le capacità cognitive per svolgere una funzione genitoriale accudente e supportiva, oppure in altri casi, sono incapaci di mettere in secondo piano le proprie condizioni di vita devianti. Il minore spesso, come dicevamo, è consapevole e soffre per quel che vive in famiglia, ma la sua capacità di adattamento a situazioni infauste vissute a causa dei genitori, porta il giovane a vivere l’uscita dalla famiglia d’origine come un disagio ed una perdita.

Anche per i genitori la separazione dal figlio ha valenze diverse a seconda dei casi, passando dal bisogno del riscatto per alcuni, alla rassegnazione e talvolta ad un senso addirittura liberatorio.

Dopo l’uscita di casa

Gli ambienti di inserimento dopo l’uscita di casa sono:

  • un’altra famiglia;
  • una persona singola;
  • una comunità di tipo familiare;
  • un istituto di assistenza pubblica o privata;
  • un curatore speciale del minore che tuteli al meglio i suoi interessi.

In tutti questi casi, al minore si apre la porta per un contesto di recupero e valorizzazione dei propri bisogni, un soccorso quindi volto ad uno sviluppo sano e all’insegna del recupero.

Si tratta di un arco di tempo più o meno lungo finalizzato all’orientamento e recupero rispetto a quanto precedentemente subito, con l’aiuto delle figure professionali, ci si mette in marcia per l’avvio di una vita volta alla normalità.

Rispetto ai contatti con i genitori, questi sono mantenuti, ovviamente filtrati e monitorati. Al nucleo genitoriale spetta nel frattempo il compito di un recupero che sarà guidato e sottoposto a valutazione, al fine di comprendere il miglioramento per una possibile riconciliazione, oppure considerare il tutto in un processo di inserimento definitivo in un altro contesto, quando i tentativi di recupero nella famiglia d’origine falliscano.

Nel corso del tempo necessario, l’affido diventa talvolta adozione, ovvero un appartenere a tutti gli effetti giuridici alla nuova famiglia. Infatti, se dopo 24 mesi di affido non vi è la possibilità di rientro in famiglia, il minore è obbligatoriamente dato in adozione.

Il passaggio alla consapevolezza per non soccombere alla sofferenza

Anche i genitori oltre ai minori sono chiamati a svolgere dei compiti. Il principale è il cambiamento che suona come un obbligo per riprendere in mano la propria genitorialità, per avere una seconda possibilità che sia effettiva ed efficace.

Tutto questo a volte avviene, altre volte no, perché mancano gli strumenti oppure perché il percorso dell’adozione dopo la fase di affido diventa un processo più veloce ed adatto per il minore.

In altri casi è il minore stesso che nel diventare maggiorenne sceglie di rimanere in quel contesto familiare ritenuto ormai il proprio a tutti gli effetti. Altre volte, invece, il tribunale per i minori stabilisce in modalità perentoria che non ci sono le condizioni per un eventuale e futuro reinserimento del figlio nella propria casa natale. Così, l’affido diventa, se funzionante, adozione.

L’importanza del non lasciare la famiglia da sola, da parte dei servizi sociali ed operativi, rappresenta un obiettivo che in tutti questi casi deve essere –a mio avviso– tenuto in considerazione, poiché la separazione dai figli non è mai accettata fino in fondo. La condizione diventa ancor più marcata in quei casi in cui il minore dichiara una sua totale integrazione nella “nuova” famiglia esprimendo il desiderio di non tornare indietro. Sono vissuti di fallimento e devastazione molto frequenti, anche in quei casi dove tutto volgeva ad una inefficienza di base e scarsa volontà o assenza di strumenti per un adeguamento.

Racconto di un caso clinico: quando il primo affido non funziona

Per esemplificare riporto una mia esperienza lavorativa, intensa e significativa su vari livelli.

Come professionista psicoterapeuta familiare, in collaborazione con il SIM Infanzia (servizio igiene mentale infantile), per un anno e mezzo circa seguii una minore di 10 anni che viveva da poco più di tre anni, presso una casa famiglia gestita da religiose e in attesa di affido ed adozione dopo essere stata allontanata dalla propria famiglia d’origine per maltrattamento e indigenza.

Giada, questo il nome che daremo alla bambina, presentava una evidente disabilità intellettiva con conseguenze sulla capacità di linguaggio ed espressione.

Ogni pomeriggio dalle 14 alle 16, dal lunedì al venerdì, mi recavo presso l’istituto di religiose per trascorrere del tempo con G., dove lei risiedeva dopo le ore di scuola. Frequentava infatti la quarta elementare quando la conobbi e poi a seguire la quinta. Veniva picchiata dal padre, mentre sua madre per tenerla a freno, data la sua vivacità, la teneva spesso legata alla gamba del tavolo o su un’inferriata. Questa la storia che si portava dalla sua famiglia d’origine, in un destino comune con altri due fratelli ed una sorella più piccola, lei era la terzogenita.

In questa casa famiglia, lei era veramente ben inserita, legata affettivamente a quei luoghi e a quelle persone come se avesse riconosciuto in quel nuovo ambiente la sua nuova casa ed appartenenza.

Inizialmente parlavo molto e spesso pensavo di non essere ascoltata – sembrava un monologo il mio–, ma la sensazione che avevo era diversa dai miei dubbi. Sentivo che G. mi ascoltava e che man mano le cose potevano cambiare, fino a fissare nuovi traguardi che si esprimevano in nuovi atteggiamenti. I suoi sorrisi erano una forma di ringraziamento per ciò che ogni giorno vivevamo insieme, piccoli insegnamenti che diventavano punti fermi sui quali costruire nuovi apprendimenti futuri. Era infatti molto gratificante veder crescere questo rapporto che si rafforzava, facendo attenzione a non creare una dipendenza, ero molto vicina a lei, ma sempre pronta a mettere una cornice, un confine al tutto, ricordandole che il nostro tempo era di due ore al giorno e poi io sarei tornata a casa mia e lei sarebbe tornata all’istituto e ai loro spartiti di vita.

G. era una bambina molto affettuosa ed esprimeva con modi semplici e profondi il sentirsi a proprio agio in quelle due ore organizzate in quattro mezze ore di attività. Le aree erano così ripartite: 1) fare una passeggiata all’aria aperta; 2) fase della ripetizione di alcuni assunti logici di base; 3) canto e 4) gioco libero e/o strutturato. Scelsi una cronologia fissa per evitare dispersività e confusione, tutto doveva seguire schemi e linearità.

Nei miei racconti a G. parlavo spesso del fatto che un giorno, magari molto presto, quando sarebbe andata a vivere in una famiglia vera e propria, ci saremmo potute ugualmente vedere, di tanto in tanto perché mi avrebbe fatto piacere incontrarla e sapere che stesse bene.

Dopo circa un anno, arrivò quel famoso giorno, quello che sarebbe dovuto essere un buon giorno, un ottimo giorno.

Una coppia era stata selezionata come papabile dal tribunale per i minorenni per avviare l’affido di G., si trattava di una coppia sui 40 anni, sposatasi recentemente formando una famiglia ricostituita, ovvero entrambi separati dai precedenti coniugi, lei aveva due figli di 15 e 17 anni e lui una bambina coetanea di G.

La mia sensazione non fu buona sin dall’inizio e lo misi per iscritto sulla mia relazione, vedevo G. tornare dai weekend trascorsi con i genitori affidatari stanca e provata, ma la causa non sembrava essere il nuovo adattamento, come sarebbe fisiologico, ma la motilità della coppia, che era solita abbandonare nel fine settimana la routine lavorativa e dedicarsi al loro secondo e condiviso lavoro incentrato sul mondo dell’arte e dello spettacolo.

Con loro portavano soltanto G. mentre gli altri tre figli rimanevano a casa con i rispettivi nonni o genitori per portare avanti le loro attività sportive e di studio. Un viaggiare per paesi e città italiane portando con loro G., con la quale non avevano ancora un rapporto consolidato, facendo molti km in automobile senza un vero inserimento nella loro casa, in totale assenza degli altri figli.

Il tempo fece poi il suo corso, ma ci vollero circa 8 mesi, a scapito anche in questo caso della bambina, che nel frattempo soffriva paventando una familiarità che per alcuni versi lei non desiderava con queste due persone. Diceva di essere molto stanca e non farcela più a portare avanti le consuete attività che facevamo nelle giornate di lunedì e martedì. Era inoltre vistosamente nervosa e questo nervosismo durò tutto il tempo in cui frequentò la coppia, precedentemente era una bambina molto tranquilla.

Un sintomo tangibile della non funzionalità di quella condizione è che sulla carta la coppia appariva molto interessata a fare dei passi con la minore, ma non mostrò capacità di cambiamento e adattamento, come se il loro stile di vita fosse forgiato su aspetti a cui gli altri si sarebbero dovuti adattare.

Nell’arco di questo tempo di conoscenza, non riuscirono a creare incontri infrasettimanali dopo le ore di scuola di G. assieme agli altri figli e in casa con tutti i componenti e le loro vicende ordinarie. Aspetto a nostro avviso importante per un inserimento effettivo in famiglia.

Purtroppo anche questo passaggio si rivelò poco plausibile in quanto la coppia viveva distante dall’istituto della piccola e non riuscivano a conciliare i giusti tempi. Oltre al viaggiare molto, i due aspiranti genitori non mostravano capacità empatica con Giada, ma solo il bisogno di elargire denaro per regali ed anche per diagnosi e cure presso un noto ospedale con cui avevano preso contatti per un miglioramento fisiologico della disabilità della bambina, almeno secondo quanto da loro riportato.

Purtroppo non bastava.

Il Sim Infanzia rilasciò una dichiarazione congiuntamente al tribunale per i minorenni che definì questo periodo stancante, dal quale G. impegnò tempo ed energie per riprendersi.

Il mio obiettivo riportando questo caso clinico è quello di mettere in evidenza come il processo di affidamento sia un percorso delicato ed oculato e soprattutto mai automatico. Non c’è infatti soltanto un protocollo da rispettare dove ovviamente ogni caso è a sé, ma spesso si vivono, in aggiunta, condizioni come questa, dove eventi traumatici già vissuti e sui quali avevamo lavorato riemergono su nuove ferite.

Nella famiglia che adottò successivamente G., non mancarono le necessarie cure per le sue patologie congenite, ma prima di tutto avvenne la creazione di uno spazio nella loro vita che era d’amore e consapevolezza di avere un bambina di ormai quasi 12 anni con disabilità intellettiva, ma dolce e capace di integrarsi nel nuovo contesto come era avvenuto nell’istituto di accoglienza.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Camera,T. (2011). Affido: una famiglia per crescere. Roma:Feltrinelli.
  • Marchetti, T. (2001). Diversi colori del ruolo genitoriale. Un approccio sistemico relazionale sul rapporto tra genitori e figli in alcuni momenti critici della storia familiare.Roma: Edizioni Kappa.
  • Marchetti, T. (2012).La ruota dell’adozione gira proiettando immagini in bianco e nero. Roma:Edizioni Kappa.
  • De Rienzo, E. Saccoccio C., Tonizzo F. (1994).Una famiglia in più : esperienze di affidamento.Torino: UTET.
  • Sartori, P. (2013).Mi affido, ti affidi, affidiamoci: l’affido familiare, una chance per la comunità sociale. Bari:Editore la Meridiana.
  • Greco, O., Comelli, I. Iafrate Angeli R.(2010). Tra le braccia un figlio non tuo. Milano: Franco Angeli.

 

 

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L'affido consiste nell'inserimento del minore in una famiglia diversa da quella di origine in prospettiva di un rientro del minore nella famiglia di origine

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