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Alessitimia: i possibili elementi implicati nella genesi e nel mantenimento

L'alessitimia indica una difficoltà nell’identificare i propri sentimenti, comunicarli agli altri e discriminarli da sensazioni più prettamente fisiologiche

Di Mary Agata Sangalli

Pubblicato il 15 Nov. 2022

Una ricerca da poco condotta (Sangalli, 2022) si è interrogata sui possibili elementi implicati nella genesi e nel mantenimento dell’alessitimia proponendo un modello esplicativo potenzialmente utile nell’orientare gli interventi psicoterapeutici con soggetti alessitimici.

 

Cos’è l’alessitimia?

La capacità di essere consapevole, riconoscere ed elaborare il proprio mondo interno fatto di pensieri ed emozioni è una prerogativa tipicamente umana. Questa abilità introspettiva è andata affinandosi grazie allo sviluppo delle aree neocorticali del cervello e ha permesso all’essere umano un grande vantaggio in termini evolutivi. Tuttavia, per alcune persone più di altre, riuscire a identificare e descrivere le proprie emozioni non è poi così semplice.

Il termine alessitimia indica esattamente questo, ovvero una difficoltà nell’identificare i propri sentimenti, nel comunicarli agli altri e nel discriminarli da sensazioni più prettamente fisiologiche, insieme a uno stile di pensiero orientato all’esterno (ovvero pragmatico e concreto, caratterizzato da un’attenzione focalizzata sulla realtà esterna piuttosto che sull’introspezione; Taylor et al., 1997). Caratteristiche intrapersonali che spesso si accompagnano a stili relazionali freddi, distaccati, distanzianti e superficiali (Vanheule et al., 2007).

L’origine del termine risale agli anni ’70 del secolo scorso quando Sifneos (1973) coniò il termine “alexithymic” per riferirsi a una “mancanza di parola per l’emozione”. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, la ricerca empirica sull’alessitimia si è progressivamente ampliata inserendosi nel complesso panorama della regolazione emotiva e affettiva (Gaggero et al., 2020). Oggi, parlare di alessitimia significa parlare di un tratto di personalità multidimensionale relativamente stabile, normalmente distribuito in popolazione generale, che riflette un deficit nella capacità di elaborare cognitivamente le proprie emozioni (Luminet et al., 2018). Tale modalità di funzionamento non rappresenta necessariamente un problema in sé ma può trasformarsi in una questione clinicamente rilevante per via delle conseguenze che frequentemente vi si associano.

L’alessitimia può infatti essere concepita alla stregua di una vulnerabilità, associandosi trasversalmente a psicopatologie come i disturbi depressivi, i disturbi ansiosi, i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze, ma anche a fenomeni quali l’autolesionismo o il suicidio, e a malattie come i disturbi gastrointestinali, i disturbi cardiovascolari, le dermatiti, il diabete, il cancro o il dolore cronico (Luminet et al., 2018). Alcune evidenze suggeriscono che alti livelli alessitimici possono condurre a un’esacerbazione sintomatologica e/o della patologia stessa. Inoltre, non è raro riscontrare difficoltà di trattamento con questo tipo di pazienti (Ogrodniczuk et al., 2018). Ecco, quindi, che la presenza di alessitimia è spesso indice di prognosi sfavorevole caratterizzata da persistenza di sintomi anche al termine del trattamento e più frequenti ricadute (Pinna et al., 2020).

Come spiegare l’alessitimia?

Nonostante il ruolo di costrutto periferico, le teorie e i modelli proposti per tentare di spiegare l’alessitimia sono differenti e numerosi. I fattori di rischio attualmente individuati spaziano dall’eredità genetica (es. Picardi et al., 2011), all’influenza di specifici elementi ambientali quali il maltrattamento emotivo in infanzia (es. Aust et al., 2013), fino a variabili più propriamente psicologiche come i pattern di personalità (es. Taylor & Bagby, 2013) o la preferenza per specifiche strategie di autoregolazione (vedi: Sangalli & Caselli, 2022). Di fatto, a distanza di mezzo secolo dalla sua prima concettualizzazione, il termine “alessitimia” continua a farsi portavoce di controversie e dibattiti, faticando nel guadagnarsi una posizione condivisa all’interno del panorama scientifico.

Una ricerca da poco condotta (Sangalli, 2022) [NdR: Tesi di laurea magistrale di una studentessa della Sigmund Freud University] si è interrogata sui possibili elementi implicati nella genesi e nel mantenimento dell’alessitimia proponendo un modello esplicativo (ovvero un modello che si occupa di spiegare un certo fenomeno anziché descriverlo) potenzialmente utile nell’orientare gli interventi psicoterapeutici con soggetti alessitimici. Grazie all’utilizzo di questionari autosomministrati sono state raccolte e analizzate variabili ambientali e psicologiche con lo scopo di comprendere quali, tra queste, fosse più saldamente connessa all’alessitimia. Dai risultati è emerso che gli aspetti contestuali del funzionamento psicologico sembrano essere i principali fattori responsabili delle differenze interindividuali nei livelli di alessitimia dell’adulto. La necessità di controllare i propri pensieri, il tratto di personalità del neuroticismo e il ricorso alla soppressione espressiva come strategia di autoregolazione sono risultate direttamente e indirettamente associate a forti tratti alessitimici. In accordo con il modello proposto nello studio, la convinzione che i propri pensieri debbano essere tenuti sotto controllo, insieme alla tendenza a provare affetti negativi (possibile definizione del neuroticismo), incoraggerebbero l’utilizzo di strategie soppressive nei confronti dei propri stati interni. A sua volta, questo silenziamento di pensieri ed emozioni accrescerebbe i livelli di alessitimia e le difficoltà diffuse di identificazione, discriminazione e comunicazione dei propri sentimenti.

Il modello eziopatologico proposto dall’autore si inserisce quindi tra i modelli funzionalisti della mente che cercano di spiegare la sofferenza psicologica in termini di processi disfunzionali piuttosto che di deficit strutturali. Ciò comporta delle implicazioni teoriche nell’affinamento del costrutto alessitimico ma soprattutto delle implicazioni cliniche, offrendo nuovi target di intervento sui quali ragionare in un’ottica di intervento psicoterapeutico.

È ormai noto che la terapia psicologica può adoperarsi solo marginalmente su deficit strutturalmente dettati dalla genetica o dall’inserimento in contesti precoci avversi caratterizzati da maltrattamento. Al contrario, possiede un’estesa possibilità di intervento sulle modalità disadattive che l’individuo adopera, più o meno consapevolmente, nel qui ed ora. Queste ultime vengono generalmente apprese all’interno di ambienti specifici e successivamente perpetuate sulla spinta di rinforzi o convinzioni personali, ma finiscono spesso con il rivelarsi inefficaci, controproducenti o insostenibili nel lungo termine. Il delinearsi di un modello eziopatologico dell’alessitimia che vede nelle strategie di autoregolazione e nelle credenze metacognitive il cuore nevralgico del problema apre quindi alla possibilità effettiva di ottenere un cambiamento nei livelli alessitimici.

Le psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione sono i trattamenti che più di tutti consentono una presa diretta sulle modalità con cui la persona si rapporta e gestisce gli avvenimenti esterni così come il proprio mondo interno fatto di affetti e cognizioni. Per questo motivo potrebbero mostrarsi estremamente efficaci nel ridurre le difficoltà alessitimiche nel qui ed ora e nello scongiurare, preventivamente, futuri esordi psicopatologici ben più gravi.

Il lavoro di esposizione e accettazione dei propri stati interni, anche dolorosi, potrebbe in questo senso assecondare una minore urgenza di agire strategie controllanti e soppressive nei confronti dei propri pensieri e delle proprie emozioni (Sangalli, 2022). Parallelamente, lo sviluppo di nuove forme di autoregolazione adattive e flessibili potrebbe garantire al soggetto una maggiore efficacia nel gestire futuri momenti di sofferenza. In questo modo, attraverso l’apertura e l’esplorazione del proprio mondo interno, i livelli di alessitimia si ridurrebbero permettendo così all’individuo di fare nuovamente affidamento sulle proprie emozioni per comprendere le situazioni e guidare il comportamento.

 

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